Era
marzo, cent’anni fa nascevano i Fasci
Raduno di Sansepolcristi |
«Aderiamo
vostra adunata mandando nostri rappresentanti»: con questo stringato telegramma
il Fascio di difesa nazionale di Bari annunciava la presenza all’atto di
fondazione dei Fasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919 a Milano.
Nasceva cento anni fa, in una sala offerta dalla associazione industriali, in
piazza San Sepolcro, il movimento fascista che avrebbe segnato catastroficamente
la storia d’Italia e d’Europa. Pochi avrebbero scommesso allora sulle fortune
di un gruppo minoritario tutto da inventare. I presenti al raduno non sono più
di un centinaio; dalla Puglia c’è il solo Michele Costantino, a nome del fascio
di difesa del capoluogo, giungono per iscritto le adesioni di Araldo Di
Crollalanza (futuro podestà, sottosegretario e ministro dei Lavori pubblici) e
di qualcun altro. I membri di quello sparuto drappello si fregeranno in seguito
del titolo di «sansepolcristi»: i camerati della primissima ora.
Il "Fascio primogenito" in Piazza S. Sepolcro |
Il
raggruppamento che nasce in una Italia stravolta e frastornata dai postumi della
Grande Guerra appare uno dei tanti; non ha identità definita né idee originali.
Nemmeno il nome è nuovo: “fasci” di ogni tipo, intesi come unioni di forze (o
debolezze) disparate, sorgono qua e là per finalità varie dandosi questa denominazione
allora comune; perfino il termine «fascismo» non è coniato da Mussolini ma, un
anno prima, dal sindacalista rivoluzionario Angelo Olivetti. Il programma
sansepolcrista è una congerie eterogenea che grazie ai suoi accenti di sinistra
ha la velleità di competere con il colosso socialista in piena ascesa.
Mussolini si proclama insieme «reazionario e rivoluzionario» con tipica acrobazia
retorica tanto stupefacente quanto vacua. Cambierà e capovolgerà le proprie
idee nel corso degli anni (per dirne una, il “movimento” che si proclama antipartitico
diventerà nel 1921 un partito, il PNF): «nessuna preoccupazione di coerenza
formale» gli riconoscerà Gioacchino Volpe, una testa pensante del fascismo. Ma nella
spregiudicata abilità tattica che porterà il maestro di Predappio in capo a tre
anni al vertice del Paese due costanti soprattutto restano immutate: il
nazionalismo, nutrito di risentimento e frustrazione, e l’odio anti-socialista,
interiorizzato dall’ex militante che il partito di Turati ha espulso. Il nazionalismo
gli servirà per raccogliere i consensi di combattenti e reduci dirottando
contro i presunti complotti delle grandi potenze e contro i “bolscevichi” la
rabbia per il disastro sociale del dopoguerra italiano (di cui era colpevole
chi aveva gettato la nazione nella sanguinosa avventura bellica);
l’antisocialismo praticato con dura violenza (a partire dall’assalto alla sede
dell’«Avanti!», a Milano il 15 aprile 1919) gli servirà per stremare le masse
proletarie, ottenendo a questo scopo appoggi e finanziamenti dalla grande
industria e dal padronato agrario.
Ma
tutto ciò nel ’19 è ancora in divenire. All’ordine del giorno c’è invece qualcosa
che assomiglia alla rivoluzione russa: il “biennio rosso” si snoda dalle
sommosse contro il caro-vita alle lotte dei contadini del Sud per la terra fino
alla occupazione delle fabbriche. Nelle elezioni politiche del 16 novembre si
vota col sistema proporzionale: il fascismo subisce una disfatta, eleggendo un
solo parlamentare; vincono i socialisti, primo partito, seguiti dal neonato
partito popolare cattolico; insieme le due forze avrebbero la maggioranza della
Camera, che sarebbe ancora più ampia con il gruppo giolittiano (a riprova che
il sentimento prevalente in Italia non è nazionalista, ma pacifista e
non-interventista). Entrambi i partiti di massa però, in conflitto fra loro, sono
impreparati a concepire una strategia e una tattica complesse, e il partito
socialista, diviso al suo interno, è per di più bloccato da una storica
incomprensione (denunciata da Salvemini) della questione meridionale, che gli
impedisce di unificare il movimento operaio e contadino a livello nazionale.
Tessera di "sansepolcrista" |
Questo
impasse rianima il tramortito
fascismo, che pareva defunto sul nascere (Mussolini era finito perfino in
carcere per qualche ora). Gli agrari armano direttamente lo squadrismo nelle
regioni dove più forte è il bracciantato rosso, l’Emilia e la Puglia; nella
terra di Di Vittorio (la regione del Sud che ha eletto più parlamentari
socialisti) l’azione squadrista è assunta nel 1920 dall’agrario cerignolese
Giuseppe Caradonna: Di Vittorio ne denuncerà le responsabilità per l’omicidio
del primo deputato vittima dei fascisti, Giuseppe Di Vagno (ucciso a Mola di
Bari nel 1921) e ne fronteggerà le milizie difendendo la Camera del Lavoro di
Bari Vecchia (1922). La Puglia è stata una regione cruciale per il movimento
operaio e di conseguenza per la reazione fascista. Bari sarà premiata dal duce
vittorioso con l’istituzione dell’Università, della Fiera del Levante e con altre
grandi opere pubbliche. Eppure, secondo il reportage che Tommaso Fiore invia
nelle lettere a Piero Gobetti (poi diventate il suo libro più famoso, Un popolo di formiche), nel 1925 il
fascismo pugliese è in fondo una variante in continuità con il trasformismo
meridionale, e con i mazzieri della tradizione agraria di cui anche Giolitti –
un altro “antimeridionalista”! – si è servito nei collegi elettorali del Sud.
Il fascismo – afferma Fiore – è rimasto in superficie, cooptando la borghesia
grande e piccola senza conquistare il mondo contadino. La rivoluzione
meridionale sarebbe forse ancora pensabile, ma ormai il governo Mussolini, figlio
delle complicità e debolezze di molti, si sta trasformando in una dittatura, in
un regime durevole che prepara la guerra. Se la storia potesse insegnarci
qualcosa, direbbe che i fascismi e le loro variabili storiche nascono dalla
crisi della democrazia liberale, nonché dalla incapacità delle forze
progressiste di guidare una coalizione sociale, e praticare l’unità.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 12 marzo 2019