giovedì 14 marzo 2019

Il fascismo nel 1919


Era marzo, cent’anni fa nascevano i Fasci

Raduno di Sansepolcristi
«Aderiamo vostra adunata mandando nostri rappresentanti»: con questo stringato telegramma il Fascio di difesa nazionale di Bari annunciava la presenza all’atto di fondazione dei Fasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919 a Milano. Nasceva cento anni fa, in una sala offerta dalla associazione industriali, in piazza San Sepolcro, il movimento fascista che avrebbe segnato catastroficamente la storia d’Italia e d’Europa. Pochi avrebbero scommesso allora sulle fortune di un gruppo minoritario tutto da inventare. I presenti al raduno non sono più di un centinaio; dalla Puglia c’è il solo Michele Costantino, a nome del fascio di difesa del capoluogo, giungono per iscritto le adesioni di Araldo Di Crollalanza (futuro podestà, sottosegretario e ministro dei Lavori pubblici) e di qualcun altro. I membri di quello sparuto drappello si fregeranno in seguito del titolo di «sansepolcristi»: i camerati della primissima ora. 
Il "Fascio primogenito" in Piazza S. Sepolcro
     Il raggruppamento che nasce in una Italia stravolta e frastornata dai postumi della Grande Guerra appare uno dei tanti; non ha identità definita né idee originali. Nemmeno il nome è nuovo: “fasci” di ogni tipo, intesi come unioni di forze (o debolezze) disparate, sorgono qua e là per finalità varie dandosi questa denominazione allora comune; perfino il termine «fascismo» non è coniato da Mussolini ma, un anno prima, dal sindacalista rivoluzionario Angelo Olivetti. Il programma sansepolcrista è una congerie eterogenea che grazie ai suoi accenti di sinistra ha la velleità di competere con il colosso socialista in piena ascesa. Mussolini si proclama insieme «reazionario e rivoluzionario» con tipica acrobazia retorica tanto stupefacente quanto vacua. Cambierà e capovolgerà le proprie idee nel corso degli anni (per dirne una, il “movimento” che si proclama antipartitico diventerà nel 1921 un partito, il PNF): «nessuna preoccupazione di coerenza formale» gli riconoscerà Gioacchino Volpe, una testa pensante del fascismo. Ma nella spregiudicata abilità tattica che porterà il maestro di Predappio in capo a tre anni al vertice del Paese due costanti soprattutto restano immutate: il nazionalismo, nutrito di risentimento e frustrazione, e l’odio anti-socialista, interiorizzato dall’ex militante che il partito di Turati ha espulso. Il nazionalismo gli servirà per raccogliere i consensi di combattenti e reduci dirottando contro i presunti complotti delle grandi potenze e contro i “bolscevichi” la rabbia per il disastro sociale del dopoguerra italiano (di cui era colpevole chi aveva gettato la nazione nella sanguinosa avventura bellica); l’antisocialismo praticato con dura violenza (a partire dall’assalto alla sede dell’«Avanti!», a Milano il 15 aprile 1919) gli servirà per stremare le masse proletarie, ottenendo a questo scopo appoggi e finanziamenti dalla grande industria e dal padronato agrario.
     Ma tutto ciò nel ’19 è ancora in divenire. All’ordine del giorno c’è invece qualcosa che assomiglia alla rivoluzione russa: il “biennio rosso” si snoda dalle sommosse contro il caro-vita alle lotte dei contadini del Sud per la terra fino alla occupazione delle fabbriche. Nelle elezioni politiche del 16 novembre si vota col sistema proporzionale: il fascismo subisce una disfatta, eleggendo un solo parlamentare; vincono i socialisti, primo partito, seguiti dal neonato partito popolare cattolico; insieme le due forze avrebbero la maggioranza della Camera, che sarebbe ancora più ampia con il gruppo giolittiano (a riprova che il sentimento prevalente in Italia non è nazionalista, ma pacifista e non-interventista). Entrambi i partiti di massa però, in conflitto fra loro, sono impreparati a concepire una strategia e una tattica complesse, e il partito socialista, diviso al suo interno, è per di più bloccato da una storica incomprensione (denunciata da Salvemini) della questione meridionale, che gli impedisce di unificare il movimento operaio e contadino a livello nazionale.
Tessera di "sansepolcrista"
     Questo impasse rianima il tramortito fascismo, che pareva defunto sul nascere (Mussolini era finito perfino in carcere per qualche ora). Gli agrari armano direttamente lo squadrismo nelle regioni dove più forte è il bracciantato rosso, l’Emilia e la Puglia; nella terra di Di Vittorio (la regione del Sud che ha eletto più parlamentari socialisti) l’azione squadrista è assunta nel 1920 dall’agrario cerignolese Giuseppe Caradonna: Di Vittorio ne denuncerà le responsabilità per l’omicidio del primo deputato vittima dei fascisti, Giuseppe Di Vagno (ucciso a Mola di Bari nel 1921) e ne fronteggerà le milizie difendendo la Camera del Lavoro di Bari Vecchia (1922). La Puglia è stata una regione cruciale per il movimento operaio e di conseguenza per la reazione fascista. Bari sarà premiata dal duce vittorioso con l’istituzione dell’Università, della Fiera del Levante e con altre grandi opere pubbliche. Eppure, secondo il reportage che Tommaso Fiore invia nelle lettere a Piero Gobetti (poi diventate il suo libro più famoso, Un popolo di formiche), nel 1925 il fascismo pugliese è in fondo una variante in continuità con il trasformismo meridionale, e con i mazzieri della tradizione agraria di cui anche Giolitti – un altro “antimeridionalista”! – si è servito nei collegi elettorali del Sud. Il fascismo – afferma Fiore – è rimasto in superficie, cooptando la borghesia grande e piccola senza conquistare il mondo contadino. La rivoluzione meridionale sarebbe forse ancora pensabile, ma ormai il governo Mussolini, figlio delle complicità e debolezze di molti, si sta trasformando in una dittatura, in un regime durevole che prepara la guerra. Se la storia potesse insegnarci qualcosa, direbbe che i fascismi e le loro variabili storiche nascono dalla crisi della democrazia liberale, nonché dalla incapacità delle forze progressiste di guidare una coalizione sociale, e praticare l’unità.

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 marzo 2019