giovedì 31 marzo 2016

Palmira

Salvò l’impero romano e lo sfidò
La grande storia di una città-stato

Dedicato a Khaled el-Asaad


Presunto ritratto di Zenobia, regina di Palmira
Ci vorranno cinque anni per restaurare Palmira dopo l’occupazione dello Stato Islamico. Lo affermano le autorità siriane che rilevano, a prima vista, danni meno gravi di quanto si è temuto. Le immagini aeree diffuse dalla televisione russa sembrano testimoniare un sufficiente stato di conservazione del teatro, del tetrapylon e della maestosa via colonnata che taglia la città; i templi invece, che agli occhi dei miliziani jihadisti erano simboli dell’idolatria, dovrebbero essere stati seriamente compromessi, e così l'arco di trionfo. E poi c’è la perdita irreparabile di un archeologo competente e coraggioso, Khaled al-Asaad, massimo esperto di Palmira, trucidato lo scorso agosto dai seguaci del califfato. Chissà se e quando l’area archeologica patrimonio dell’umanità potrà essere aperta al pubblico. Ed è sperabile che non venga ripetuto l’oltraggio precedentemente fatto dal regime di Assad alla «sposa del deserto», allorché nell'adiacente città moderna di Tadmor – il nome arabo di Palmira, attestato fin dalla Bibbia – fu istituito il famigerato carcere speciale per prigionieri politici, luogo di torture e violenze (l’Is si è fatto un vanto di averlo abbattuto).
Nella straordinaria storia di Palmira si innalzano il momento in cui fu lei a salvare l’impero romano, e l’altro momento, quando il regno palmireno preannunciò il futuro, il “dopo-impero”. Avvenne tutto nel III secolo d.C. La città-oasi, esistente da oltre un millennio, era un emporio nevralgico del traffico carovaniero sulla via della seta dall’Estremo Oriente al Mediterraneo. Espressione di una civiltà araba sedentaria, unitasi agli aramei, Palmira si resse a lungo come repubblica aristocratica governata da un senato e ispirata in qualche modo al modello greco, tanto da innestare alcuni termini del lessico politico ellenico nella lingua aramaico-palmirena. Fiorita nella Siria seleucide del IV-II secolo a.C., in pieno ellenismo, la potenza di Palmira si confermò dopo la conquista romana in Siria conservando intatti i propri statuti di autonomia. Iscrizioni palmirene sono state trovate in tutto il territorio dell’impero, compresa Roma. Nonostante gli inserimenti romani nel suo volto urbano, il più evidente dei quali è il teatro, essa non fu – e perciò non può essere definita – una «città romana». Palmyra però è indubbiamente il suo nome greco-latino. 

Per lei l’età della gloria arrivò quando nell’impero regnava l’anarchia militare, con imperatori e usurpatori che si succedevano a ritmo vertiginoso. Era appunto il III secolo d.C., e una nuova potenza – la dinastia sassanide – si affermava alla frontiera dell’Eufrate, rinverdendo il passato dell’impero persiano: nemica di Roma come lo erano stati i Parti suoi predecessori. Nel 260 il re Sapore I riuscì nell’impresa inaudita di catturare l’imperatore romano Valeriano. A tale disastro fu posto un argine decisivo da Palmira, che, direttamente esposta al confine persiano, difese se stessa e l’impero. E dire che all’epoca delle guerre civili lo schieramento era stato inverso, e i ricchi palmireni avevano salvato i propri averi dall’aggressione di Antonio trasportandoli al di là dell’Eufrate nel regno partico. Ora invece, a prendere in mano la situazione fu Settimio Odenato, che esercitava una signoria sulla città siriaca, e che, dopo aver sconfitto i Persiani, fu nominato dall’imperatore Gallieno «reggitore dell’Oriente» (rector Orientis). Odenato si proclamava «re dei re» e aveva al suo fianco la moglie Zenobia, che gli succedette nel 268 quando suo marito fu ucciso da una congiura (cui forse la regina non era estranea).

Moneta palmirena con Zenobia e Giunone
Le fonti descrivono Zenobia come donna di rara bellezza, governante dal polso fermo («virile») e saggia amministratrice, poliglotta (conosceva anche il latino, il greco e l’egizio) nonché scrittrice. Fu lei a conquistare per qualche tempo l’Egitto e a rivendicare l’indipendenza dello Stato palmireno esteso alla Siria storica, dando una scossa alla dominazione romana proprio negli stessi anni in cui, a Occidente, si verificava la secessione gallica di Marco Postumo che pose la sua capitale a Treviri. Occorse un grande imperatore come Aureliano per sconfiggere le due ribellioni e ridare all’impero una stabilità che verrà consolidata da Diocleziano. Ma il futuro era in qualche modo segnato: l’impero gallico prefigurava i regni romano-barbarici in cui si sarebbe dissolto due secoli dopo l’impero occidentale; il regno di Palmira era un primo tentativo di costituire un’entità araba, sulle cui orme si sarebbe mosso l’Islam del VII secolo a scapito dell’impero bizantino.
Quanto alla sorte di Zenobia, che rifiutò di arrendersi a Roma, esistono versioni differenti; noi riportiamo questa che non è affatto inverosimile. Prigioniera, sfilò fra i sette colli nel trionfo di Aureliano; i suoi principali ministri furono giustiziati, lei fu risparmiata e le fu concessa una residenza signorile. Visse nei pressi di Tivoli in una gabbia dorata, moglie di un senatore romano. 

Pasquale Martino
marzo 2016    
       

giovedì 24 marzo 2016

Turi Toscano

Quaranta anni senza di lui. 
Quando il movimento diventò politica.
Milano e la Puglia, una storia degli anni '70 

Il 24 marzo ricorrono quarant’anni dalla morte di Salvatore Toscano, uno dei più singolari dirigenti della nuova sinistra degli anni ’70. La sua scomparsa nel 1976, a soli 38 anni, in seguito a un incidente stradale, troncò di colpo un cammino e fu un drammatico presagio del tramonto di un’epoca politica. Oggi su «Repubblica» molti che lo incontrarono firmano una testimonianza. Rievocarne la figura è anche contribuire alla comprensione di un’età tuttora controversa.  
Salvatore (Turi) era stato con Mario Capanna il leader del movimento studentesco dell’università statale di Milano. Nato ad Acireale, arrivò nel capoluogo lombardo dopo aver militato nel Psiup. Il suo riferimento formativo – su cui scriverà un saggio – era Rodolfo Morandi, grande organizzatore socialista, paladino dell’unità a sinistra e dell’identità operaia. A Morandi si ispirarono i padri del neomarxismo come il Panzieri dei «Quaderni rossi», ma Toscano lo interpretava soprattutto come un’alternativa rigorosa a Togliatti, che a suo giudizio aveva inteso l’unità antifascista in modo verticistico e compromissorio. Un modello che oggi può apparire irrimediabilmente datato: il leninismo morandiano integrato dal maoismo; il quale ultimo peraltro, con la sua idea di protagonismo delle masse, esercitò una vasta suggestione a sinistra. Motivi di cui era intessuta la cultura politica del tempo: una lingua comune, una koinè. Nel grande sogno – quando perfino la questione meridionale sembrava sul punto di essere superata – l’emigrato siciliano era oltretutto simbolo di un Sud che ribalta il suo destino e va a conquistare il Nord (Toscano è, come si ricorderà, il cognome dei Malavoglia di Verga).  

L’importanza di Turi Toscano sta soprattutto nell’aver guidato con fermezza il Movimento studentesco a diventare forza politica garante dell’agibilità democratica in una Milano scossa dalla strategia della tensione, dall’eversione neofascista e dall’uso spregiudicato della violenza da parte della polizia. La pedagogia di Toscano trasmetteva un concetto complesso della politica, in cui si dovevano analizzare a fondo tutte le contraddizioni in atto e comporre alleanze fondate su processi concreti. E così alle manifestazioni del Movimento partecipavano gli operai in sciopero, impiegati, intellettuali, interi segmenti sindacali e sezioni del Pci; un bel pezzo di quella che poi si sarebbe chiamata la società civile. Era la lotta contro la «fascistizzazione», ovvero contro la tendenza delle classi dirigenti a risolvere la crisi sociale con un giro di vite liberticida. Era il fronte antifascista che si ricostituiva dal basso per difendere e attuare la Costituzione nata dalla Resistenza. Un fronte che non escludeva di incidere sulle scelte dei partiti, ma solo in direzione di un governo di sinistra (quello del 51%, per intenderci) e non del «compromesso storico» perseguito dal Pci.
Un tale progetto richiedeva ormai una organizzazione di tipo partitico: il Movimento lavoratori per il socialismo nacque nel febbraio 1976, eleggendo Toscano segretario. Mancava un mese alla morte. A lui si dovevano acquisizioni rilevanti: l’adesione di un gruppo prestigioso di partigiani messi ai margini dal Pci, quali Giuseppe Alberganti e il critico d’arte Raffaele De Grada; il coinvolgimento di parecchie forze sparse in tutta Italia, fra le quali spiccava la maggior parte del Circolo Lenin di Puglia (e il Mls fu particolarmente forte a Bari e a Lecce); un sistema di comunicazione e produzione culturale che annoverava il settimanale «Fronte Popolare» (promotore di festival nazionali, uno dei quali si svolse a Bari nel ’77), un paio di riviste, e inoltre artisti e musicisti, una casa editrice e una rete di cooperative librarie che sorsero anche in Puglia. 

Alcuni deficit erano visibili e si sarebbero rivelati appieno dopo il ’76. Un pensiero “difensivo”, che riepilogava una grande narrazione ma diffidava del cambiamento e delle esplorazioni; il femminismo venne recepito – con qualche eccezione – in modo inadeguato, come un “settore”; il terrorismo brigatista, alacre già a metà anni ’70, fu visto come variante strumentale del disegno reazionario, senza coglierne fino in fondo l’autonomia e il devastante potenziale di disorientamento. Tuttavia Toscano e il Mls educarono a respingere come una provocazione l’attrattiva della lotta armata. A Toscano non si può addebitare quello che avvenne dopo, in nessun senso. Si può dubitare che egli – così sferzante nel ’76 contro i vertici del Pci – avrebbe deciso dopo un biennio l’inversione di avvicinamento, da cui, col Pdup di Magri, venne la confluenza nel partito comunista a metà anni ’80, quasi alla vigilia del suo scioglimento. Ma i tempi erano cambiati. La rincorsa del decennio ’68-’78 era finita, e si trattava di pilotare un difficile ripiegamento che consentisse spazi di azione politica nelle mutate condizioni. Altri fecero scelte diverse. Restava una storia di uomini e donne che avevano condiviso una speranza e una pratica ritrovandosi sotto il segno del Mls: ne parla per esempio il compianto Luca Rastello nel suo Piove all’insù (Bollati Borghieri, 2006) che alcuni considerano il migliore romanzo italiano sulla gioventù di sinistra degli anni ’70.   

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 marzo 2016

L'articolo è qui in versione integrale, un po' più ampia di quella stampata dal quotidiano.
Grazie ad Antonio Volpe per le due immagini principali, che riproducono le pagine di «Repubblica» e della «Gazzetta».   

sabato 12 marzo 2016

Monumenti a Budapest

Nazismo, Shoah, comunismo
la memoria controversa dell’Ungheria


F. 1. Monumento al soldato sovietico.
F. 2. Memoriale per le vittime dell'occupazione tedesca












«Gloria agli eroi sovietici della Liberazione»: il grande monumento al soldato sovietico (fotografia 1) domina il lato nord della piazza della Libertà (Szabadsag ter) nel centro di Budapest. Esso riporta i nomi dei militari caduti nella battaglia con cui l’Armata rossa liberò la capitale ungherese nel 1945. Il combattimento, protrattosi per mesi e conclusosi il 13 febbraio con la resa tedesca, fu uno dei più duri che si siano svolti nel perimetro di una grande città europea durante il Secondo conflitto mondiale. Il monumento dunque commemora un episodio cruciale della guerra antinazista. Sebbene i russi si siano macchiati del sangue ungherese nel 1956, il complesso monumentale non è stato abbattuto dopo il 1989, e si può dire che esso sia l’unica opera memoriale del quarantennio comunista rimasta intatta in città (molte statue sono state invece trasferite in un apposito parco nella zona sud di Buda o nell’ampio spazio che il Museo Nazionale riserva al periodo della repubblica popolare). Gruppi di estrema destra ne hanno chiesto più volte la rimozione, ma, nonostante l’attuale governo di destra, l’Ungheria non ha soppresso l’emblema di una pagina tragica e inquietante della sua storia, che racconta la vittoria di un’armata straniera contro gli occupanti tedeschi spalleggiati delle formazioni magiare filonaziste delle Croci frecciate. Vero è che alla liberazione contribuì anche la resistenza ungherese, attiva da mesi, erede dell'opposizione antinazista degli anni precedenti, in cui s'era distinto il partito comunista clandestino.    




F. 3. Installazioni davanti al memoriale
Il governo di Viktor Orban, però, ha realizzato nel 2014 un'altra opera lungo il lato sud della stessa piazza: il «Memoriale per le vittime dell’occupazione tedesca» (fotografia 2), in cui si vede l’aquila imperiale germanica piombare addosso all’arcangelo Gabriele simbolo dell’Ungheria inerme. Il monumento è stato oggetto di aspre critiche da parte di numerose associazioni e della comunità ebraica: esso infatti suggerisce una lettura storica auto-assolutoria, come se l’Ungheria fosse stata una vittima innocente, e molti ungheresi oltre agli stessi governanti non fossero stati complici del nazismo. Il governo del reggente Miklos Horty fu alleato della Germania e dell'Italia fascista, attuò politiche antisemite e prese parte attiva all'aggressione contro l'Urss; nel 1944, quando le sorti della guerra volgevano a sfavore dei tedeschi, Horthy tentò di sganciarsi dalla mortale alleanza; i nazisti lo prevennero, invadendo l'Ungheria dove instaurarono un governo fantoccio. Fu in questo ultimo anno di guerra che vennero intensificati i massacri di ebrei, attuati soprattutto dai nazisti magiari.  


F. 4. Scarpe sul Danubio
La contestazione del monumento voluto da Orban si è concretizzata in una serie di installazioni poste davanti allo stesso (fotografie 2 e 3), con esposizione di immagini, oggetti, scritte che si riferiscono appunto alle responsabilità del nazismo tedesco-ungherese. Le installazioni richiamano il memoriale delle «scarpe sul Danubio» (fotografia 4), realizzato nel 2005 dagli artisti Gyula Pauer e Can Togay, sulla sponda del fiume a Pest tra il ponte delle Catene e il palazzo del Parlamento, per ricordare gli ebrei sterminati dalle Croci frecciate nelle ultime e convulse settimane di guerra. Le vittime venivano legate a gruppi di tre, una di esse veniva uccisa con un colpo di pistola alla testa e tutto il gruppo veniva gettato in acqua. 
F. 5. Foto nel museo della Sinagoga
La memoria della Shoah è custodita anche nel museo della Grande Sinagoga e nell'annesso cortile, dove vengono commemorati i «giusti» (fra i quali l'italiano Giorgio Perlasca) che si prodigarono per salvare gli ebrei ungheresi. Una immagine fotografica esposta nel museo (fotografia 5) documenta l'identificazione propagandistica comunisti-ebrei, che era un tema fondante della narrazione nazista, pienamente accolto dalla destra antisemita magiara. Quest'ultima aveva contrastato la repubblica dei consigli di Bela Kun (1919) denunciandone il carattere  «giudaico-bolscevico» (una «baldoria ebraica», scatenata dalla «canaglia ebraica disfattista»: così si esprimono alcuni personaggi del romanzo di Ferenc Körmendi, Un'avventura a Budapest). A fondamento di tale campagna propagandistica si adduceva l'adesione di numerosi israeliti alla rivoluzione (lo stesso Bela Kun aveva il padre ebreo): motivo per cui i neofascisti odierni, riuniti nel movimento Jobbik, non solo non condannano l'Olocausto, ma pretendono che gli ebrei si scusino per le vittime dei comunisti nel '19. Si ricordi che quella di Budapest era una delle più estese e integrate comunità ebraiche d'Europa. 

F. 6. Statua di Imre Nagy
F. 7. Statua di Imre Nagy













A Budapest non mancano i monumenti che ricordano la rivoluzione del 1956, soffocata dall'intervento militare sovietico. il più suggestivo è probabilmente la statua di Imre Nagy, che lo raffigura mentre, appoggiato al corrimano di un ponte, guarda verso il palazzo del Parlamento (fotografie 6-7). Nagy, esponente di spicco del partito comunista ungherese, fu primo ministro nel '56, destituito dai sovietici, arrestato e poi condannato a morte. Fu riabilitato nel 1989 e onorato con un solenne funerale pubblico. 
Il regime comunista era finito con una transizione pacifica e indolore, come in quasi tutti i paesi dell'Europa orientale. E va rammentato che, trent'anni prima, la tragedia della rivoluzione stroncata aveva almeno consigliato al gruppo dirigente comunista post-'56, guidato da Janos Kadar, l'attuazione di una cauta politica di riforme, di amnistia e di aperture democratiche. 



Pasquale Martino
marzo 2016  

Le fotografie sono di Maria Vittoria De Padova. 
    
Postilla del dicembre 2018
L’ungherese senza pace.


La statua di Imre Nagy viene ora rimossa per decisione dell’attuale premier di estrema destra, lo xenofobo e fascistoide Orban, che gode dell’appoggio dei fascisti. Perché – dice – Nagy era “un comunista” (cosa vera ed evidente), e “un agente dell’Urss” (cosa non provata, e comunque non certo nel 1956!) e poco importa se difese l’indipendenza dell’Ungheria a prezzo della vita. Al posto della statua, vuole mettere un monumento alle vittime del “terrore rosso” durante la rivoluzione del 1919. Già i neofascisti ungheresi pretendono per quelle vittime le scuse degli “ebrei”, applicando la già richiamata equazione “giudeo=comunista”. L’ossessione antiebraica continua ad animare la destra magiara i cui progenitori si distinsero come strumenti dell’Olocausto. La memoria pubblica di Budapest è in perpetuo rifacimento, «somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in su le piume».


mercoledì 2 marzo 2016

Adua, 120 anni fa

Inconscio italiano e memoria coloniale

Croce memoriale ad Adua.
Fotografia di Maria Vittoria De Padova
Nella via principale di Adua in Etiopia, un semplice cippo a forma di croce reca una scritta in lingua italiana: «Ai caduti. Adua 1896. Non dobbiamo dimenticare». Nella battaglia che porta quel  nome, il 1° marzo di 120 anni fa, l’esercito etiope guidato dal negus Menelik II inflisse una completa disfatta alle truppe italiane del generale Oreste Baratieri. Seimila morti, fra cui una minoranza di ascari eritrei: metà del corpo di spedizione distrutta; più caduti in un solo giorno che in tutte le guerre d’indipendenza. Adua è stata il più grande disastro del nostro esercito, secondo soltanto a Caporetto, e frutto di una catena micidiale di errori militari, politici e diplomatici commessi dall’improvvisato colonialismo italiano, bramoso di partecipare alla corsa delle potenze europee per la spartizione dell’Africa.
Il monumento di cui s’è detto fu realizzato dal fascismo che fra le motivazioni dell’aggressione all’Abissinia, nel 1935, proclamava la necessità di vendicare l’onta patita quarant’anni prima. E tuttavia, dopo la liberazione, gli etiopi non lo hanno demolito. Forse soprattutto perché al sentimento cristiano delle popolazioni tigrine ripugna l’idea di abbattere una croce. Ma anche perché il monito della memoria riguarda tutti. Vale innanzitutto per gli etiopi, che ad Adua, con numerosi caduti, hanno scritto la pagina più gloriosa della loro storia, e della storia dell’Africa. Sull’altopiano del Tigrai si è realizzata la massima vittoria di un popolo africano contro un esercito coloniale. In Etiopia il 2 marzo, registrato come anniversario ufficiale della battaglia, è giorno di festa pubblica (un’altra festa, il 5 maggio, ricorda la fine dell’occupazione italiana nel 1941). Il mito di Adua ha cementato l’unità etiopica, contribuendo nel tempo a innalzare il prestigio dell’unico paese africano rimasto sempre indipendente (tranne che nei cinque anni di dominazione fascista), ricco di una storia e di una cultura millenarie. I movimenti panafricani, indipendentisti, hanno guardato all’antica nazione del Corno d’Africa come a un punto di riferimento fondamentale. E non a caso Addis Abeba è la sede dell’Unione africana che associa gli stati del continente. Tutto ciò ha un peso nel travagliato percorso di decolonizzazione dell’Africa, senza dubbio irto di contraccolpi e fallimenti, ma – è bene ricordarlo – cominciato soltanto da mezzo secolo.  

La battaglia in una stampa dell'epoca
Anche la diaspora africana conserva il culto della orgogliosa civiltà cresciuta attorno al Nilo azzurro, come è attestato perfino dal sincretismo «rasta» sviluppatosi in Giamaica. Una storia ignorata dai colonialisti nostrani che pensavano di avere a che fare con selvaggi. Noi invece, oggi, eredi consapevoli di tragiche vicende che hanno coinvolto anche quei popoli, avremmo il dovere della memoria e della conoscenza. Dobbiamo ammettere però di essere in ritardo. Per la verità la storiografia il suo mestiere l’ha fatto, a partire dalle impervie ricerche di Angelo Del Boca; cui non corrisponde, per ora, una sufficiente presa di coscienza nel senso comune. Anzi, prevale la rimozione, al di là delle toponomastica che fissa in modo celebrativo l’esperienza coloniale nei nomi di vie e piazze, includendo le sconfitte (Adua, Dogali, Amba Alagi) secondo il paradigma per cui le vittime nazionali diventano tout court eroiche. Meno note – come se non fossero “nostre” anche queste – sono l’opposizione popolare alle imprese coloniali e la rivolta che in tutta Italia, dopo Adua, costrinse il governo Crispi alle dimissioni. Si è eclissata la memoria dei duemila prigionieri di guerra – fra i quali il sergente pugliese Giovanni Tedone, che pubblicò un libro – trattati bene dai nemici abissini, pur in dure condizioni, e malvisti al loro rientro in patria, quasi sudditi sleali che avevano il torto di essere sopravvissuti. Avvenimenti remoti, certo; ma anche quelli più recenti, che rientrano nella memoria familiare dei nostri nonni e genitori – le colonie di Libia, Eritrea, Somalia, la conquista dell’Abissinia – non sembrano storia che ci appartenga. Alla produzione apologetica fiorita nel ventennio mussoliniano è seguita un’assenza di rappresentazione nel cinema e nella letteratura di età repubblicana (se si eccettuano libri come quelli di Tobino, Berto, Flaiano, usciti poco dopo la guerra, e qualche rievocazione nostalgica). Una latenza persistente, che Luca Guadagnino ha definito «inconscio italiano», dando questo titolo al suo film-documento (2011, proiettato al Bifest di Bari). D’altronde lungometraggi come Adwa (1999) di Haile Gerima, il regista etiope premiato a Venezia nel 2008 per un’altra pellicola, non si sono visti in Italia se non in qualche cineforum di nicchia: è la stessa sorte del film dedicato alla resistenza libica, Il leone del deserto (1981), che ha aspettato ventotto anni prima di comparire direttamente sul teleschermo di Sky. 

La battaglia in un dipinto etiope
C’è da confidare nella seconda e terza generazione della diaspora afroeuropea. Antar Mohammed ha scritto con Wu Ming 2 il «romanzo meticcio» Timira (2012); Igiaba Scego ha pubblicato nel 2015 il romanzo Adua (nome non casuale della protagonista, una migrante somala di oggi). È suggestivo immaginare che i nostri connazionali di sangue africano dialoghino a distanza con i loro coetanei residenti in Africa orientale, figli e nipoti di emigrati italiani; discendenti di quanti andarono lì restando lontani da rapine e speculazioni, dai grandi affari o da certe ambiguità della cooperazione internazionale, ma – con greci, armeni, indiani – portando utili competenze di lavoro, pacifici progetti di vita. Perché la memoria renda giustizia alla verità, condanni le atrocità passate, e sia anche racconto di esistenze singolari, che hanno sperimentato l’incontro e la mescolanza. 

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 marzo 2016