mercoledì 2 marzo 2016

Adua, 120 anni fa

Inconscio italiano e memoria coloniale

Croce memoriale ad Adua.
Fotografia di Maria Vittoria De Padova
Nella via principale di Adua in Etiopia, un semplice cippo a forma di croce reca una scritta in lingua italiana: «Ai caduti. Adua 1896. Non dobbiamo dimenticare». Nella battaglia che porta quel  nome, il 1° marzo di 120 anni fa, l’esercito etiope guidato dal negus Menelik II inflisse una completa disfatta alle truppe italiane del generale Oreste Baratieri. Seimila morti, fra cui una minoranza di ascari eritrei: metà del corpo di spedizione distrutta; più caduti in un solo giorno che in tutte le guerre d’indipendenza. Adua è stata il più grande disastro del nostro esercito, secondo soltanto a Caporetto, e frutto di una catena micidiale di errori militari, politici e diplomatici commessi dall’improvvisato colonialismo italiano, bramoso di partecipare alla corsa delle potenze europee per la spartizione dell’Africa.
Il monumento di cui s’è detto fu realizzato dal fascismo che fra le motivazioni dell’aggressione all’Abissinia, nel 1935, proclamava la necessità di vendicare l’onta patita quarant’anni prima. E tuttavia, dopo la liberazione, gli etiopi non lo hanno demolito. Forse soprattutto perché al sentimento cristiano delle popolazioni tigrine ripugna l’idea di abbattere una croce. Ma anche perché il monito della memoria riguarda tutti. Vale innanzitutto per gli etiopi, che ad Adua, con numerosi caduti, hanno scritto la pagina più gloriosa della loro storia, e della storia dell’Africa. Sull’altopiano del Tigrai si è realizzata la massima vittoria di un popolo africano contro un esercito coloniale. In Etiopia il 2 marzo, registrato come anniversario ufficiale della battaglia, è giorno di festa pubblica (un’altra festa, il 5 maggio, ricorda la fine dell’occupazione italiana nel 1941). Il mito di Adua ha cementato l’unità etiopica, contribuendo nel tempo a innalzare il prestigio dell’unico paese africano rimasto sempre indipendente (tranne che nei cinque anni di dominazione fascista), ricco di una storia e di una cultura millenarie. I movimenti panafricani, indipendentisti, hanno guardato all’antica nazione del Corno d’Africa come a un punto di riferimento fondamentale. E non a caso Addis Abeba è la sede dell’Unione africana che associa gli stati del continente. Tutto ciò ha un peso nel travagliato percorso di decolonizzazione dell’Africa, senza dubbio irto di contraccolpi e fallimenti, ma – è bene ricordarlo – cominciato soltanto da mezzo secolo.  

La battaglia in una stampa dell'epoca
Anche la diaspora africana conserva il culto della orgogliosa civiltà cresciuta attorno al Nilo azzurro, come è attestato perfino dal sincretismo «rasta» sviluppatosi in Giamaica. Una storia ignorata dai colonialisti nostrani che pensavano di avere a che fare con selvaggi. Noi invece, oggi, eredi consapevoli di tragiche vicende che hanno coinvolto anche quei popoli, avremmo il dovere della memoria e della conoscenza. Dobbiamo ammettere però di essere in ritardo. Per la verità la storiografia il suo mestiere l’ha fatto, a partire dalle impervie ricerche di Angelo Del Boca; cui non corrisponde, per ora, una sufficiente presa di coscienza nel senso comune. Anzi, prevale la rimozione, al di là delle toponomastica che fissa in modo celebrativo l’esperienza coloniale nei nomi di vie e piazze, includendo le sconfitte (Adua, Dogali, Amba Alagi) secondo il paradigma per cui le vittime nazionali diventano tout court eroiche. Meno note – come se non fossero “nostre” anche queste – sono l’opposizione popolare alle imprese coloniali e la rivolta che in tutta Italia, dopo Adua, costrinse il governo Crispi alle dimissioni. Si è eclissata la memoria dei duemila prigionieri di guerra – fra i quali il sergente pugliese Giovanni Tedone, che pubblicò un libro – trattati bene dai nemici abissini, pur in dure condizioni, e malvisti al loro rientro in patria, quasi sudditi sleali che avevano il torto di essere sopravvissuti. Avvenimenti remoti, certo; ma anche quelli più recenti, che rientrano nella memoria familiare dei nostri nonni e genitori – le colonie di Libia, Eritrea, Somalia, la conquista dell’Abissinia – non sembrano storia che ci appartenga. Alla produzione apologetica fiorita nel ventennio mussoliniano è seguita un’assenza di rappresentazione nel cinema e nella letteratura di età repubblicana (se si eccettuano libri come quelli di Tobino, Berto, Flaiano, usciti poco dopo la guerra, e qualche rievocazione nostalgica). Una latenza persistente, che Luca Guadagnino ha definito «inconscio italiano», dando questo titolo al suo film-documento (2011, proiettato al Bifest di Bari). D’altronde lungometraggi come Adwa (1999) di Haile Gerima, il regista etiope premiato a Venezia nel 2008 per un’altra pellicola, non si sono visti in Italia se non in qualche cineforum di nicchia: è la stessa sorte del film dedicato alla resistenza libica, Il leone del deserto (1981), che ha aspettato ventotto anni prima di comparire direttamente sul teleschermo di Sky. 

La battaglia in un dipinto etiope
C’è da confidare nella seconda e terza generazione della diaspora afroeuropea. Antar Mohammed ha scritto con Wu Ming 2 il «romanzo meticcio» Timira (2012); Igiaba Scego ha pubblicato nel 2015 il romanzo Adua (nome non casuale della protagonista, una migrante somala di oggi). È suggestivo immaginare che i nostri connazionali di sangue africano dialoghino a distanza con i loro coetanei residenti in Africa orientale, figli e nipoti di emigrati italiani; discendenti di quanti andarono lì restando lontani da rapine e speculazioni, dai grandi affari o da certe ambiguità della cooperazione internazionale, ma – con greci, armeni, indiani – portando utili competenze di lavoro, pacifici progetti di vita. Perché la memoria renda giustizia alla verità, condanni le atrocità passate, e sia anche racconto di esistenze singolari, che hanno sperimentato l’incontro e la mescolanza. 

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 marzo 2016