sabato 20 febbraio 2016

A proposito di Dalton Trumbo

Lista nera contro i rossi di Hollywood

Manifestazione per la libertà dei Dieci di Hollywood
Il cinema americano rilegge criticamente gli anni della guerra fredda, le lotte per i diritti civili e per la libertà di espressione. Dopo Selma e Il ponte delle spie, è la volta de L’ultima parola. La vera storia di Dalton Trumbo, di Jay Roach, biografia di un eccellente sceneggiatore vittima della caccia alle streghe al tempo del maccartismo. Il tema della «lista nera» era stato più volte trattato; un titolo per tutti: Il prestanome di Martin Ritt con Woody Allen (1976). Mancava però una messa a fuoco della vicenda emblematica di Trumbo: fino a che punto era stata accettata la sua riabilitazione? In effetti, egli l’aveva faticosamente ottenuta a colpi di successi cinematografici scritti senza firma (da Vacanze romane a La più grande corrida), e grazie al sostegno di personaggi come Kirk Douglas (il quale, oggi quasi centenario, ha apprezzato il film e il principale interprete, Brian Cranston). Per Douglas, Trumbo scrisse Spartacus che, con Exodus (regia di Otto Preminger), fu il primo film che riportava il suo nome come sceneggiatore, dopo i lunghi anni di ostracismo. D’altra parte, la storia di Dalton Trumbo – la prigione, l’esilio, il lavoro sottopagato e anonimo per produttori indipendenti di B-movies – è stata una delle poche a lieto fine; altre biografie di cineasti perseguitati hanno avuto come esito la povertà, l’oblio, talvolta la morte prematura.
Nel film in realtà il contesto storico, anche se correttamente inquadrato, fa solo da sfondo al dramma di un uomo e di una famiglia. Ben venga però la sollecitazione a riconsiderare un’epoca di speranze e disinganni: a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso, quando l’industria hollywoodiana trainò la risalita dalla Grande Depressione, quasi di concerto con il New Deal del presidente Roosevelt che incrementava l’intervento pubblico nell’economia e veniva incontro ai disoccupati. Con lo sviluppo degli Studios progrediva anche la lotta sindacale dei lavoratori del cinema e rifioriva quella sinistra politica e intellettuale che poco prima era stata duramente repressa (nel 1927 Sacco e Vanzetti erano morti sulla sedia elettrica). Insieme con i sentimenti liberal e antifascisti cresceva il partito comunista americano, fortificato dalla diffusa simpatia per i difensori della repubblica spagnola e dal prestigio dell’Urss, che di lì a poco, nel 1941, diventò alleata degli Usa nel conflitto mondiale contro l’Asse militarista-razzista. 
Ma dopo la guerra le cose cambiano: i russi sono ormai avversari degli Stati uniti e gli ex nazisti sono potenziali amici; la destra repubblicana è all’attacco e il presidente Truman, democratico, non è Roosevelt: l’ultimo ministro rooseveltiano, l’ex vicepresidente Henry A. Wallace, viene defenestrato e la sua candidatura indipendente alla Casa Bianca fallisce stritolata dal bipartitismo perfetto. È in questo quadro che la Commissione per le attività anti-americane va all’assalto di Hollywood indicata come un covo di comunisti. Gli artisti vengono convocati, costretti a dichiarare di essere stati membri del partito e a denunciare i compagni. La prima linea di resistenza è quella opposta nel 1947 dai «Dieci di Hollywood», registi e sceneggiatori che sono o sono stati comunisti militanti, fra cui Trumbo, i quali si rifiutano di rispondere alle domande e invocano il Primo emendamento – la libertà di opinione costituzionalmente garantita. Vanno quasi tutti in carcere.
Manifesto di propaganda anticomunista
Ma è solo l’inizio. La psicosi anticomunista dilaga dal 1949, con il primo esperimento nucleare sovietico, la vittoria di Mao in Cina, la guerra in Corea. Si manda in prigione Alger Hiss, ex alto funzionario rooseveltiano, e si condannano a morte per spionaggio i coniugi Rosemberg. Entra in scena il senatore McCarthy che darà il suo nome a un’epoca: gli Studios arrendevoli accettano di compilare le blacklist dei presunti «comunisti» privandosi di molti cineasti qualificati ma, in cambio, ottenendo la pace sociale e la scomparsa dei sindacati fastidiosi. La caccia si estende a macchia d'olio fino a Broadway, alla radio e alla televisione. A essere spazzate via sono centinaia di democratici di sinistra e liberal, o semplicemente persone che non vogliono «fare i nomi» opponendosi al meccanismo delatorio che è la chiave di volta della costruzione maccartista (in singolare ma non inspiegabile sintonia col metodo staliniano). Proliferano le «liste grigie», non ufficiali ma non meno deleterie, affidate ad associazioni civiche e religiose, ai gossip columnist come Hedda Hopper (interpretata nel film da Helen Mirren). È così che lo scrittore Dashiell Hammett finisce dietro le sbarre, che Charlie Chaplin si vede negato il visto per il rientro in America, che l’attore John Garfield (Il postino bussa sempre due volte) si lascia morire per la disperazione. La lista nera ha termine col mutamento di clima politico, nell’era della coesistenza pacifica, di Kruscev e Kennedy. Ma da quella débacle morale il cinema americano, pur continuando a sfornare prodotti ben confezionati, non si risolleverà davvero che negli anni ’70.
Impossibile menzionare i molti blacklisted di talento e di alterne sorti. Ricordiamo qui il documentarista Leo Hurwitz, che nel 1961 sarà ingaggiato dalla BBC per la diretta televisiva del processo Eichmann (è il soggetto del film britannico Eichmann show) e due sceneggiatrici – iscritte al partito comunista negli anni ’40 – che non lavoreranno quasi più: Marguerite Roberts (Ivanhoe) e Bess Taffel (Fuga d’amore). «Non erano fanatici con gli occhi da fuori – ha detto la Taffel dei suoi colleghi e compagni – erano persone intelligenti e ragionevoli che non si accontentavano di adagiarsi e godersi i lussi e gli agi del successo, ma che invece investivano molto del loro tempo e delle loro risorse per fare del mondo un posto migliore. Li rispettavo e li ammiravo e volevo essere come loro».

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 19 febbraio 2016