mercoledì 17 agosto 2016

Federico Garcia Lorca

Il giovane  favoloso di una Spagna martoriata
Storia e morte di un grande poeta senza tomba

«La Spagna il cuore antico seppellisce e calpesta, / il suo cuore ferito di penisola errante, / e bisogna salvarla, con le mani e coi denti». Così scriveva profeticamente Federico Garcia Lorca in Mariana Pineda (1927), nove anni prima di essere ucciso come la sua eroina e conterranea (Mariana de Pineda Muñoz, la nobildonna liberale giustiziata a Granada nel 1831). La Spagna da «salvare con le mani e coi denti» diventerà per il poeta andaluso quella dell’estate 1936, appena precipitata nell’incubo della guerra civile. Una guerra “senza prigionieri” scatenata a luglio dalle forze armate del generale Francisco Franco, dalla destra monarchica, falangista e fascista, contro la giovane repubblica spagnola e contro il governo legittimo del Fronte Popolare che aveva vinto le elezioni a febbraio. Le violenze degli anarchici e delle sinistre non erano che un pretesto per inaugurare la lunga limpieza, la cruenta «pulizia» antirepubblicana messa in atto dai franchisti dovunque presero subito il potere. E Garcia Lorca, a 38 anni, fu una delle prime e più illustri vittime. Tratto in arresto il 16 agosto, venne fucilato forse il 18 (data dubbia, come si vedrà più avanti). Sono dunque passati 80 anni dalla morte, sulle cui circostanze il vittorioso regime franchista stese una coltre pesante che solo parecchi decenni dopo è stata parzialmente sollevata. La prima edizione delle opere complete (1949) uscì a Buenos Aires, non in patria.

Garcia Lorca con Salvador Dalì
Sarebbe fuorviante alludere al poeta come alla vittima occasionale e magari ingenua di una dolorosa fatalità. L’assassinio di Lorca ha una logica: quella appunto di un fuoco epuratore che fa tabula rasa del rinnovamento progressista e rivoluzionario, travolgendo anche una giovane generazione di artisti. La «generazione del ’27», magnificamente impersonata da quei ventenni che si riunirono a Madrid nella Residencia de Estudiantes: Garcia Lorca e Salvador Dalì, protagonisti di un’amicizia appassionata, il regista Luis Buñuel, il poeta Rafael Alberti. Lorca e Alberti: i due enfants prodiges – tali li dice Vittorio Bodini che li ha tradotti entrambi per la sua memorabile Antologia dei poeti surrealisti spagnoli (Einaudi, 1963). E qui ci sia consentito un ricordo personale: quella volta che Rafael Alberti, esule, strinse la mano nella libreria Adriatica a Bari ad alcuni di noi giovani, che gli furono presentati enfaticamente come «nuestros compañeros en la lucha».
Con il surrealismo – l’estrema sfida lanciata dalle avanguardie artistiche – e con le connotazioni ideologiche e politiche dei surrealisti francesi, i giovani della Residencia fanno i conti fino in fondo; anche se Lorca resta radicato nella cultura andalusa e gitana che si esprime in una raccolta poetica di immediato successo, il Romancero gitano. Ma nel ’29, a New York, narra in versi stravolti la metropoli della modernità e delle disuguaglianze, realizzando il suo capolavoro surrealista. Tornato in patria, saluta la nascita della repubblica democratica (1931) prodigandosi con fervore nel progetto di educazione pubblica della Barraca, un gruppo di teatro universitario itinerante che fa conoscere al popolo i classici della drammaturgia spagnola. Il teatro è l’ultimo grande capitolo della sua arte creativa, che ripropone – è ancora Bodini a rilevarlo – il paradigma della tragedia greca al capo opposto del Mediterraneo e con personaggi del mondo popolare.
Garcia Lorca con Rafael Alberti
Ha appena finito di scrivere La casa di Bernarda Alba quando i generali golpisti attaccano la repubblica. Soltanto Dalì, fra i giovani artisti, rifiuta di difenderla e finirà con l’adattarsi al franchismo. Federico torna nella sua città natale, dove crede, sbagliando, di essere al sicuro. «Sappiate che il delitto fu a Granada!» scriverà il vecchio poeta Antonio Machado: «povera Granada – nella sua Granada…». È nota la catena di comando – dai vertici locali della Falange fino  ai singoli esecutori – che portò la escuadra negra (sorta di battaglione della morte) a catturare il poeta e a liquidarlo; anche se non è chiaro chi prese la decisione finale di ucciderlo e se su di essa influirono vecchi rancori e odio omofobo. Il giorno preciso è ignoto: alcune biografie indicano il 27 agosto, altre più verosimilmente il 19 o il 18 (quest’ultima è la data che si legge nel sito della Fundación Garcia Lorca istituita nel 1984 dalla sorella del poeta, Isabel), e lo studio più recente, del 2011, conclude che egli fu assassinato le notte successiva all’arresto, alle 4 del 17 agosto. Caddero con lui – emblematica compagnia – due banderilleros iscritti al sindacato anarchico CNT e un maestro di idee liberali. I loro resti giacciono tuttora in una fossa comune che, nonostante i ripetuti tentativi, non è mai stata rinvenuta. Erano giorni di intenso “lavoro” per gli squadroni neri: il reporter americano Robert Neville raccontò sull’«Herald Tribune» di aver visto, con un gruppo di turisti in visita all’Alhambra, passare camion presidiati da militari e carichi di civili, e averli poi visti tornare vuoti. 
Lo storico Paul Preston, assiduo studioso di quello che chiama l’«olocausto spagnolo» (2011) ha calcolato che, oltre a 300.000 morti in combattimento, vi furono in tutto il paese 200.000 vittime di esecuzioni extragiudiziali. Hugh Thomas (1961) ne aveva contate 100.000, cui aggiungeva però 200.000 morti per fame e malattia nel corso della guerra, aprendo così lo scenario dei costi sociali spaventosi di un conflitto che prefigurava l’imminente carneficina mondiale. Drammatiche aporie della storia del Novecento, epoca di rigorosi studi scientifici, condotti con metodi tecnologici: molte sono le fosse comuni franchiste risapute, raramente cercate e mai trovate; del massimo poeta spagnolo del secolo è incerta la data di morte, non c’è una tomba su cui deporre un fiore.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 17 agosto 2016



venerdì 5 agosto 2016

I cinquanta anni delle guardie rosse


La Cina era vicina.
Storia e leggenda della rivoluzione culturale


Mezzo secolo dalla rivoluzione culturale, che sconvolse la Cina ed ebbe vasta eco nel mondo: celebrata allora, o guardata con simpatia e interesse; oggi per lo più esecrata. Rimossa a Pechino, dove – a parte la condanna ufficiale – si stenta a trovarne traccia nella memoria e nel discorso pubblico. Si è ancora lontani da una riflessione storiografica spassionata, da un lavoro sistematico su fonti di prima mano poco accessibili agli stessi studiosi cinesi. Quanto a noi, è il caso di ripensare alle proiezioni di quell’evento epocale nella cultura e nei movimenti politici occidentali.
Un primo errore di prospettiva fu vedere la ribellione delle guardie rosse – gli studenti protagonisti del ’66 – come un sviluppo armonico della recente storia della Cina rivoluzionaria guidata da Mao Zedong. La Lunga Marcia del ’34, l’Esercito di Liberazione, la dura guerra antigiapponese che fece della Cina una potenza vincitrice della Seconda guerra mondiale, e infine la nascita della repubblica popolare nel ’49 avevano conferito enorme credito a Mao e ai comunisti cinesi; giornalisti e scrittori ne avevano narrato la vicenda, con una partecipazione pari a quella suscitata dalla guerra di Spagna. Di tutto ciò la «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria» sembrava lineare prosecuzione.

In realtà essa era la risposta al primo fallimento della pianificazione economica, il cosiddetto «Grande balzo in avanti» (1958-60), che tentando di accelerare l’industrializzazione aveva causato una crisi agricola, una catastrofica carestia e la morte per fame di una popolazione quantificabile in alcuni milioni. Di conseguenza Mao era stato messo ai margini, ma nel maggio ‘66 reagiva facendo appello ai giovani: il bersaglio era la nuova “borghesia rossa” nata nel partito e fra gli intellettuali, rappresentata dal presidente della repubblica Liu Shaoqi e dal futuro leader Deng Xiaoping. La rivoluzione culturale viene ufficializzata il 5 agosto, mentre l’azione delle guardie rosse si espande in tutto il paese, scuole e università sono bloccate, numerosi accademici vengono sottoposti a “processi popolari”, a riti di umiliazione, a detenzioni e violenze che produrranno morti e suicidi. La cultura tradizionale – il confucianesimo, le feste, il teatro, l’arte – è investita da una critica radicale in nome di una nuova cultura del popolo e per il popolo. Il movimento diventa autonomo e incontrollabile e genera scontri sanguinosi fra gli stessi studenti. Alla fine sarà l’esercito a intervenire per mettere il freno alle guardie rosse e sancire comunque la vittoria di Mao, la destituzione di Liu e la promozione del maresciallo Lin Biao, acclamato come delfino del Grande Timoniere. Nel ’69 è annunciata la fine della rivoluzione, la cui influenza politica però si protrae nel tempo, passando per la misteriosa e tuttora inspiegata scomparsa di Lin nel ’71, e favorendo il predominio della «banda dei quattro», capeggiata da Jiang Quing moglie di Mao e annientata dopo la morte del presidente nel 1976. E sarà il tramonto di quello che la memorialistica delle vittime ha descritto come un decennio terribile; sarà la rivincita di Deng Xiaoping: la totale inversione di rotta che, salvaguardando l’icona del Grande Timoniere, ne rovescerà la politica facendo della Cina un’economia potente, singolare mix di liberismo economico e dispotismo politico.

La parabola della rivoluzione culturale coincise con il ’68 internazionale, suggestionandolo profondamente (e il cinema, come sempre, ne è testimone: da Godard a Bellocchio, da Antonioni a Bertolucci*). Era l’utopia degli studenti che vanno incontro al popolo contestando le diseguaglianze; era l’immagine della Cina contadina che si libera dall’involuzione burocratica e borghese, imperante nell’Urss, sostituendosi a quest’ultima come baluardo dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Entrarono nell’uso comune parole come dazebao («giornale murale»), aforismi e slogan come «bombardare il quartier generale», «che cento fiori sboccino», «la rivoluzione non è un pranzo di gala». Peraltro la credenza estremistica che il pensiero di Mao fosse il marxismo dei nuovi tempi incoraggiò nella sinistra giovanile europea una deriva dogmatica, fino a qualche esasperazione grottesca come l’esibizione del “libretto rosso” e i matrimoni maoisti (si pensi all’inizio del Caimano di Moretti). E tuttavia anche l’alta cultura si confrontò seriamente con l’incognita Cina; nell’ottobre ’68 una firma prestigiosa della «Gazzetta del Mezzogiorno», Michele Abbate, recensiva su queste colonne La contestazione cinese di Edoarda Masi, novità di Einaudi.
In definitiva quel sommovimento caotico che dette spazio a estesi comportamenti delittuosi non dovrebbe essere descritto unicamente come un grande crimine. È doveroso denunciare la distruzione di vite umane e di opere d’arte. Ma vi furono anche esperienze di solidarietà e di innovazione politico-culturale riconosciute da intellettuali non allineati e tramandatesi sottotraccia fino alla rivolta di piazza Tienamen nel 1989. Del resto dentro l’opaca macchina del partito comunista cinese continuano a generarsi conflitti che ripropongono la critica allo squilibrio sociale crescente in seno al gigante asiatico: il potentissimo Bo Xilai, silurato nel 2012, era accreditato come referente in ascesa dell’ala neo-maoista. In Europa, a colpire nel segno è forse ancora una volta un genere letterario “di massa” come il noir – e il noir scandinavo : Il cinese di Henning Mankel (2008) racconta a suo modo la storia della Cina negli ultimi due secoli, rievoca con bonaria ironia l’infatuazione filocinese nella Svezia degli anni ’70 e apre una finestra sull’attuale lotta per il potere fra gli strateghi dell’espansionismo economico di Pechino nel mondo ex coloniale e i non rassegnati nostalgici della purezza rivoluzionaria perduta.

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 agosto 2016   
 con poche modifiche rispetto al testo stampato

*Jean-Luc Godard, La chinoise, 1967;
Marco Bellocchio, La Cina è vicina, 1967;
Michelangelo Antonioni, Chung Kuo, Cina (1972); 
Bernardo Bertolucci, The dreamers - I sognatori (2003) dove l’iconografia maoista è onnipresente nel Maggio francese del 1968.

Immagini: manifesti della rivoluzione culturale.
La seconda immagine («Il potere politico deve mescolarsi con i lavoratori») e la terza (agricoltori con il libretto rosso) sono tratte dal sito: