domenica 27 novembre 2016

La storia di Benny

Una sfida per la ricerca e la conoscenza storica


Tela realizzata nel 1979 con tecnica mista dal pittore, attore, regista e poeta barese Nicola Dentamaro, vissuto a Verona e scomparso nel 2015 a 59 anni. Donata alla federazione provinciale del Pci di Bari, dopo molti anni fu trasferita nella sezione Ds del quartiere Libertà e di qui nella federazione provinciale di Rifondazione comunista, dove si trova tuttora.
Fotografia di Arturo Cucciol
la. 

Trentanove anni ci separano da quel capitolo cruciale della storia di Bari che fu l’assassinio di Benedetto Petrone (28 novembre 1977). Un quarantennio di trasmissione della memoria, nelle forme variegate della testimonianza, della elaborazione culturale, del documento istituzionale. La popolare icona – il  ragazzo sorridente e fiero con la bandana – nasce immediatamente dopo l’omicidio, e così nei giorni successivi compaiono alcuni slogan scritti sui muri – uno fra tutti: «Benny vive» – che attraverseranno il tempo pressoché indenni, riprodotti su fotografie e manifesti con variazioni al tema. Nonostante il tentativo avverso di accreditare uno stereotipo denigratorio – il “teppistello barivecchiano”, lo “scontro fra bande” – la memoria di Benedetto e di quei giorni di ribellione popolare è diventata epigrafe, libro, nome di una via, canzone, film, mostra fotografica, geografia di luoghi della storia cittadina.
Eppure, sul piano della conoscenza storica c’è ancora molto da fare. Quest’anno si colma una lacuna: un convegno ricostruirà il modo in cui gli organi di informazione dettero conto del delitto e delle memorabili giornate che lo seguirono a partire dalla «Gazzetta del Mezzogiorno», quotidiano nazionale allora pressoché unico in Puglia.  Ma vi sono almeno altre due questioni che reclamano un serio e nuovo lavoro storiografico. La prima concerne l’intreccio fra la peculiarità locale e la dimensione nazionale nella dinamica che determinò l’assassinio. Che peso ebbe l’intento di colpire particolarmente Bari Vecchia, e in essa chi si batteva per obiettivi capaci di mettere in discussione una egemonia sociale e un modello urbanistico dominante? E quanto, invece, prevalse lo sguardo verso una strategia nazionale, cioè il ruolo che il neofascismo pugliese ambiva a svolgere in un disegno complessivo di destabilizzazione del Paese? Che tracce restano della genesi, degli ideatori, dei mandanti diretti di un crimine così traumatico? Domande cui è sottesa in qualche modo una intuizione da verificare: che la tragica morte di Petrone abbia riaperto in un sussulto le ferite di una storia antifascista della città, intessuta di episodi rilevanti e, insieme, abbia rappresentato una vicenda paradigmatica tale da proiettare Bari nella grande storia nazionale. Tema arduo, degno di uno studio da condursi con gli strumenti adeguati della ricerca.
Un’altra indagine, collegata agli interrogativi precedenti ma contraddistinta da una corposa specificità, dovrebbe riguardare la rilettura delle carte del processo. L’esito giudiziario (che, ricordiamolo, sanzionò un solo responsabile dell’omicidio) diventò uno snodo discriminante della normalizzazione, per cui il racconto ufficiale poté ricondurre la vicenda al rango di una incresciosa parentesi che aveva interrotto accidentalmente la routine di un città tranquilla e innocente; ma il dibattimento fu anche l ’ambito in cui si addensò una mole di documenti, di resoconti investigativi, di testimonianze, di contraddizioni rimaste inspiegate, che nei decenni seguenti non hanno mai costituito un oggetto di studio. E invece sarebbe necessario scandagliare un archivio così ricco, specialmente per tentare di far luce sulla operosa retrovia di cui l’omicidio poté fruire, prima e dopo.
Insomma, la storiografia dovrebbe entrare in campo con tutta la perizia scientifica e la curiosità di cui gli storici devono dar prova; dovrebbe farlo  con mente “giovane”: con uno sguardo che non sia quello consumato del testimone o di chi è sopraffatto dalla nostalgia, per cui quella pagina è già cristallizzata nel giudizio stratificatosi attraverso gli anni. Ma di una simile tendenza di studi non si intravede ancora il segno: sebbene, paradossalmente, permanga e si arricchisca di anno in anno una narrazione epica che piace ai giovani, alimentata peraltro dalla freschezza di documenti fotografici inediti, sapientemente valorizzati; ed è riemersa perfino una grande tela del compianto Nicola Dentamaro, che, dipinta all’epoca in onore del ragazzo di Bari Vecchia, ha peregrinato trovando accoglienza in diverse sedi della sinistra barese. Ma questa è «materia per la storia», non è ancora storia. Un dipartimento universitario – è il caso di domandarsi – , un istituto di ricerca storica, una istituzione pubblica hanno l’intelligenza e la volontà di promuovere ricerche come quelle qui proposte? Coraggiosi ricercatori indipendenti possono spendersi su questo terreno?       
La nostra è una conclusione aperta, come aperto è il percorso di Benedetto Petrone, memoria e futuro della città.

Pasquale Martino          

venerdì 4 novembre 2016

H.-E. Kaminski


Raccontò Barcellona e poi scomparve
Lo scrittore tedesco di cui è incerta la sorte


Vanno per la maggiore le storie di libri scomparsi, ma a volte a sparire sono gli scrittori. Un caso letterario del 2016 è la riedizione del bel romanzo tedesco Fratelli di sangue del 1932, dato al macero dai nazisti, del cui autore semisconosciuto, Ernst Haffner, è ignota la sorte. Alla stessa temperie ci riconduce la vicenda di uno scrittore tedesco piuttosto noto, che esattamente 80 anni fa – alla fine del 1936 – realizzò un reportage sulla guerra di Spagna diventato un libro famoso: Quelli di Barcellona.
Hanss-Erich Kaminski nacque nel 1899 da una famiglia di commercianti ebrei; giornalista e militante socialdemocratico, colse con tempestività il sorgere della minaccia fascista in Europa. Fu tra i primi a scrivere sull’Italia mussoliniana: il suo libro Fascismus in Italien (Berlino 1925) era tuttavia ancora ottimista sulla possibilità che il Belpaese detronizzasse quel tiranno di cui l’autore, al pari di altri osservatori stranieri, evidenziava i tratti buffoneschi. Kaminski, che parlava correntemente italiano, francese e spagnolo, fu in corrispondenza con Piero Gobetti (una sua lettera del 29.1.’25 è conservata nell’archivio dell’intellettuale torinese) e nel ’32 tentò vanamente di portare in Germania l’esule Luigi Sturzo, per dissuadere il Zentrum cattolico dal favorire l’ascesa di Hitler. Attivo sostenitore del fronte unito antifascista, guardava con spirito dialogico alle tendenze politiche radicali – socialista di sinistra, comunista, anarchica – pur comprendendo i difetti di ognuna di esse. Al comunismo staliniano rivolgeva critiche che somigliano a quelle di Trotsky. Nel ’33, quando il nazismo va al potere, H.E. Kaminski emigra a Parigi, dove sostiene la politica del Fronte popolare e si unisce al «circolo di Lutetia» composto da intellettuali tedeschi di opposizione (fra cui Heinrich Mann, Klaus Mann, Lion Feuchtwanger). Continua a lavorare come giornalista: fra il settembre ’36 e il gennaio ’37 è in Catalogna, per raccontare la guerra civile spagnola scoppiata pochi mesi prima e, con essa, l’epopea della rivoluzione sociale e dell’utopia anarchica. Barcellona è infatti la capitale del grande movimento anarchico spagnolo, pilastro indispensabile della repubblica antifascista al punto da diventare necessariamente forza di governo con quattro ministri nel gabinetto di Largo Caballero: e Kaminski ne intervista due, Garcia Oliver e Federica Montseny. Ma gli anarchici vogliono soprattutto la rivoluzione operaia e contadina contro la vecchia Spagna feudale e clericale: ed è questo straordinario momento di partecipazione popolare l’oggetto del racconto che vedrà la luce a Parigi nel maggio successivo col titolo Ceux de Barcelone; il libro sarà pubblicato in Italia dopo il fascismo, da Mondadori nel 1950 e, nel 1966, dal Saggiatore in una fortunata collana economica. Fra gli episodi salienti, il funerale del leggendario comandante Buenaventura Durruti, il cui resoconto sarà ripreso da H. M. Enzesberger (La breve estate dell’anarchia, 1972), e l’incontro con Emma Goldman, icona del femminismo e del movimento anarchico internazionale. In Quelli di Barcellona – che sta alla pari con i libri di Orwell e di Bernanos – non si tacciono le atrocità compiute da ambo le parti, pur se nel tragico bilancio «gli antifascisti restano infinitamente più clementi e umani dei reazionari». È proprio questo il paradosso rilevato da Kaminski: essere contro la guerra e vedersi costretti a fare la guerra. «La rivoluzione non è più la leggiadra giovinetta che sorride da un manifesto al passante. La rivoluzione è divenuta un soldato dalla barba incolta, con l’elmetto, con le bombe alla cintura». Il presentimento di una nuova guerra mondiale chiude cupamente il reportage di Kaminski. Che, negli anni seguenti, pubblicherà una biografia di Bakunin e una confutazione del libello antisemita di Céline Bagatelle per un massacro. Finché la guerra da lui tanto temuta lo sommergerà.
Nel ’39, dopo lo scoppio del conflitto mondiale, lo scrittore e la compagna Anita Karfunkel vengono internati dai francesi in campi di prigionia, in quanto tedeschi. Ed è l’ultima notizia certa. Che cosa avvenne poi? Secondo la quarta di copertina del Saggiatore, Kaminski «scomparve nel 1940 durante l’occupazione nazista». Wikipedia francese e spagnola (la scheda tedesca non esiste!) e Anarcopedia affermano invece che la coppia riuscì a fuggire in Argentina, dove lo scrittore sarebbe morto nel ’63. È tristemente indicativo che le ricerche biografiche scarseggino. Ce n’è anzi una sola, a quanto risulta a noi e allo storico tedesco Gerhard Feldbauer, col quale ci siamo confrontati con il contributo di Nicola Signorile: è un saggio molto datato della ricercatrice francese Sabine Bétoulaud, ripubblicato nel 1989 con una nota di Wolfgang Haug. La Bétoulaud formula diverse ipotesi: che Kaminski e la Karfunkel siano transitati direttamente dai lager francesi a quelli nazisti, dove la loro sorte si sarebbe compiuta; o che si siano rifugiati a Lisbona e da qui in America. Comunque siano andate le cose, vale una considerazione: a distanza di più di 70 anni, il gorgo nero della Seconda guerra mondiale e dei suoi olocausti non cessa di rilasciare indizi sulla distruzione di un’infinità spaventosa di individui, inghiottiti nel nulla, dispersi o distrutti con le persone care, i libri, i poveri averi. Nell’èra dell’informazione globale, del documento archiviato e schedato, si può ignorare il destino e perfino l’immagine fotografica di un testimone significativo del secolo scorso.      

Pasquale Martino    

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 3 novembre 2016

mercoledì 17 agosto 2016

Federico Garcia Lorca

Il giovane  favoloso di una Spagna martoriata
Storia e morte di un grande poeta senza tomba

«La Spagna il cuore antico seppellisce e calpesta, / il suo cuore ferito di penisola errante, / e bisogna salvarla, con le mani e coi denti». Così scriveva profeticamente Federico Garcia Lorca in Mariana Pineda (1927), nove anni prima di essere ucciso come la sua eroina e conterranea (Mariana de Pineda Muñoz, la nobildonna liberale giustiziata a Granada nel 1831). La Spagna da «salvare con le mani e coi denti» diventerà per il poeta andaluso quella dell’estate 1936, appena precipitata nell’incubo della guerra civile. Una guerra “senza prigionieri” scatenata a luglio dalle forze armate del generale Francisco Franco, dalla destra monarchica, falangista e fascista, contro la giovane repubblica spagnola e contro il governo legittimo del Fronte Popolare che aveva vinto le elezioni a febbraio. Le violenze degli anarchici e delle sinistre non erano che un pretesto per inaugurare la lunga limpieza, la cruenta «pulizia» antirepubblicana messa in atto dai franchisti dovunque presero subito il potere. E Garcia Lorca, a 38 anni, fu una delle prime e più illustri vittime. Tratto in arresto il 16 agosto, venne fucilato forse il 18 (data dubbia, come si vedrà più avanti). Sono dunque passati 80 anni dalla morte, sulle cui circostanze il vittorioso regime franchista stese una coltre pesante che solo parecchi decenni dopo è stata parzialmente sollevata. La prima edizione delle opere complete (1949) uscì a Buenos Aires, non in patria.

Garcia Lorca con Salvador Dalì
Sarebbe fuorviante alludere al poeta come alla vittima occasionale e magari ingenua di una dolorosa fatalità. L’assassinio di Lorca ha una logica: quella appunto di un fuoco epuratore che fa tabula rasa del rinnovamento progressista e rivoluzionario, travolgendo anche una giovane generazione di artisti. La «generazione del ’27», magnificamente impersonata da quei ventenni che si riunirono a Madrid nella Residencia de Estudiantes: Garcia Lorca e Salvador Dalì, protagonisti di un’amicizia appassionata, il regista Luis Buñuel, il poeta Rafael Alberti. Lorca e Alberti: i due enfants prodiges – tali li dice Vittorio Bodini che li ha tradotti entrambi per la sua memorabile Antologia dei poeti surrealisti spagnoli (Einaudi, 1963). E qui ci sia consentito un ricordo personale: quella volta che Rafael Alberti, esule, strinse la mano nella libreria Adriatica a Bari ad alcuni di noi giovani, che gli furono presentati enfaticamente come «nuestros compañeros en la lucha».
Con il surrealismo – l’estrema sfida lanciata dalle avanguardie artistiche – e con le connotazioni ideologiche e politiche dei surrealisti francesi, i giovani della Residencia fanno i conti fino in fondo; anche se Lorca resta radicato nella cultura andalusa e gitana che si esprime in una raccolta poetica di immediato successo, il Romancero gitano. Ma nel ’29, a New York, narra in versi stravolti la metropoli della modernità e delle disuguaglianze, realizzando il suo capolavoro surrealista. Tornato in patria, saluta la nascita della repubblica democratica (1931) prodigandosi con fervore nel progetto di educazione pubblica della Barraca, un gruppo di teatro universitario itinerante che fa conoscere al popolo i classici della drammaturgia spagnola. Il teatro è l’ultimo grande capitolo della sua arte creativa, che ripropone – è ancora Bodini a rilevarlo – il paradigma della tragedia greca al capo opposto del Mediterraneo e con personaggi del mondo popolare.
Garcia Lorca con Rafael Alberti
Ha appena finito di scrivere La casa di Bernarda Alba quando i generali golpisti attaccano la repubblica. Soltanto Dalì, fra i giovani artisti, rifiuta di difenderla e finirà con l’adattarsi al franchismo. Federico torna nella sua città natale, dove crede, sbagliando, di essere al sicuro. «Sappiate che il delitto fu a Granada!» scriverà il vecchio poeta Antonio Machado: «povera Granada – nella sua Granada…». È nota la catena di comando – dai vertici locali della Falange fino  ai singoli esecutori – che portò la escuadra negra (sorta di battaglione della morte) a catturare il poeta e a liquidarlo; anche se non è chiaro chi prese la decisione finale di ucciderlo e se su di essa influirono vecchi rancori e odio omofobo. Il giorno preciso è ignoto: alcune biografie indicano il 27 agosto, altre più verosimilmente il 19 o il 18 (quest’ultima è la data che si legge nel sito della Fundación Garcia Lorca istituita nel 1984 dalla sorella del poeta, Isabel), e lo studio più recente, del 2011, conclude che egli fu assassinato le notte successiva all’arresto, alle 4 del 17 agosto. Caddero con lui – emblematica compagnia – due banderilleros iscritti al sindacato anarchico CNT e un maestro di idee liberali. I loro resti giacciono tuttora in una fossa comune che, nonostante i ripetuti tentativi, non è mai stata rinvenuta. Erano giorni di intenso “lavoro” per gli squadroni neri: il reporter americano Robert Neville raccontò sull’«Herald Tribune» di aver visto, con un gruppo di turisti in visita all’Alhambra, passare camion presidiati da militari e carichi di civili, e averli poi visti tornare vuoti. 
Lo storico Paul Preston, assiduo studioso di quello che chiama l’«olocausto spagnolo» (2011) ha calcolato che, oltre a 300.000 morti in combattimento, vi furono in tutto il paese 200.000 vittime di esecuzioni extragiudiziali. Hugh Thomas (1961) ne aveva contate 100.000, cui aggiungeva però 200.000 morti per fame e malattia nel corso della guerra, aprendo così lo scenario dei costi sociali spaventosi di un conflitto che prefigurava l’imminente carneficina mondiale. Drammatiche aporie della storia del Novecento, epoca di rigorosi studi scientifici, condotti con metodi tecnologici: molte sono le fosse comuni franchiste risapute, raramente cercate e mai trovate; del massimo poeta spagnolo del secolo è incerta la data di morte, non c’è una tomba su cui deporre un fiore.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 17 agosto 2016



venerdì 5 agosto 2016

I cinquanta anni delle guardie rosse


La Cina era vicina.
Storia e leggenda della rivoluzione culturale


Mezzo secolo dalla rivoluzione culturale, che sconvolse la Cina ed ebbe vasta eco nel mondo: celebrata allora, o guardata con simpatia e interesse; oggi per lo più esecrata. Rimossa a Pechino, dove – a parte la condanna ufficiale – si stenta a trovarne traccia nella memoria e nel discorso pubblico. Si è ancora lontani da una riflessione storiografica spassionata, da un lavoro sistematico su fonti di prima mano poco accessibili agli stessi studiosi cinesi. Quanto a noi, è il caso di ripensare alle proiezioni di quell’evento epocale nella cultura e nei movimenti politici occidentali.
Un primo errore di prospettiva fu vedere la ribellione delle guardie rosse – gli studenti protagonisti del ’66 – come un sviluppo armonico della recente storia della Cina rivoluzionaria guidata da Mao Zedong. La Lunga Marcia del ’34, l’Esercito di Liberazione, la dura guerra antigiapponese che fece della Cina una potenza vincitrice della Seconda guerra mondiale, e infine la nascita della repubblica popolare nel ’49 avevano conferito enorme credito a Mao e ai comunisti cinesi; giornalisti e scrittori ne avevano narrato la vicenda, con una partecipazione pari a quella suscitata dalla guerra di Spagna. Di tutto ciò la «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria» sembrava lineare prosecuzione.

In realtà essa era la risposta al primo fallimento della pianificazione economica, il cosiddetto «Grande balzo in avanti» (1958-60), che tentando di accelerare l’industrializzazione aveva causato una crisi agricola, una catastrofica carestia e la morte per fame di una popolazione quantificabile in alcuni milioni. Di conseguenza Mao era stato messo ai margini, ma nel maggio ‘66 reagiva facendo appello ai giovani: il bersaglio era la nuova “borghesia rossa” nata nel partito e fra gli intellettuali, rappresentata dal presidente della repubblica Liu Shaoqi e dal futuro leader Deng Xiaoping. La rivoluzione culturale viene ufficializzata il 5 agosto, mentre l’azione delle guardie rosse si espande in tutto il paese, scuole e università sono bloccate, numerosi accademici vengono sottoposti a “processi popolari”, a riti di umiliazione, a detenzioni e violenze che produrranno morti e suicidi. La cultura tradizionale – il confucianesimo, le feste, il teatro, l’arte – è investita da una critica radicale in nome di una nuova cultura del popolo e per il popolo. Il movimento diventa autonomo e incontrollabile e genera scontri sanguinosi fra gli stessi studenti. Alla fine sarà l’esercito a intervenire per mettere il freno alle guardie rosse e sancire comunque la vittoria di Mao, la destituzione di Liu e la promozione del maresciallo Lin Biao, acclamato come delfino del Grande Timoniere. Nel ’69 è annunciata la fine della rivoluzione, la cui influenza politica però si protrae nel tempo, passando per la misteriosa e tuttora inspiegata scomparsa di Lin nel ’71, e favorendo il predominio della «banda dei quattro», capeggiata da Jiang Quing moglie di Mao e annientata dopo la morte del presidente nel 1976. E sarà il tramonto di quello che la memorialistica delle vittime ha descritto come un decennio terribile; sarà la rivincita di Deng Xiaoping: la totale inversione di rotta che, salvaguardando l’icona del Grande Timoniere, ne rovescerà la politica facendo della Cina un’economia potente, singolare mix di liberismo economico e dispotismo politico.

La parabola della rivoluzione culturale coincise con il ’68 internazionale, suggestionandolo profondamente (e il cinema, come sempre, ne è testimone: da Godard a Bellocchio, da Antonioni a Bertolucci*). Era l’utopia degli studenti che vanno incontro al popolo contestando le diseguaglianze; era l’immagine della Cina contadina che si libera dall’involuzione burocratica e borghese, imperante nell’Urss, sostituendosi a quest’ultima come baluardo dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Entrarono nell’uso comune parole come dazebao («giornale murale»), aforismi e slogan come «bombardare il quartier generale», «che cento fiori sboccino», «la rivoluzione non è un pranzo di gala». Peraltro la credenza estremistica che il pensiero di Mao fosse il marxismo dei nuovi tempi incoraggiò nella sinistra giovanile europea una deriva dogmatica, fino a qualche esasperazione grottesca come l’esibizione del “libretto rosso” e i matrimoni maoisti (si pensi all’inizio del Caimano di Moretti). E tuttavia anche l’alta cultura si confrontò seriamente con l’incognita Cina; nell’ottobre ’68 una firma prestigiosa della «Gazzetta del Mezzogiorno», Michele Abbate, recensiva su queste colonne La contestazione cinese di Edoarda Masi, novità di Einaudi.
In definitiva quel sommovimento caotico che dette spazio a estesi comportamenti delittuosi non dovrebbe essere descritto unicamente come un grande crimine. È doveroso denunciare la distruzione di vite umane e di opere d’arte. Ma vi furono anche esperienze di solidarietà e di innovazione politico-culturale riconosciute da intellettuali non allineati e tramandatesi sottotraccia fino alla rivolta di piazza Tienamen nel 1989. Del resto dentro l’opaca macchina del partito comunista cinese continuano a generarsi conflitti che ripropongono la critica allo squilibrio sociale crescente in seno al gigante asiatico: il potentissimo Bo Xilai, silurato nel 2012, era accreditato come referente in ascesa dell’ala neo-maoista. In Europa, a colpire nel segno è forse ancora una volta un genere letterario “di massa” come il noir – e il noir scandinavo : Il cinese di Henning Mankel (2008) racconta a suo modo la storia della Cina negli ultimi due secoli, rievoca con bonaria ironia l’infatuazione filocinese nella Svezia degli anni ’70 e apre una finestra sull’attuale lotta per il potere fra gli strateghi dell’espansionismo economico di Pechino nel mondo ex coloniale e i non rassegnati nostalgici della purezza rivoluzionaria perduta.

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 agosto 2016   
 con poche modifiche rispetto al testo stampato

*Jean-Luc Godard, La chinoise, 1967;
Marco Bellocchio, La Cina è vicina, 1967;
Michelangelo Antonioni, Chung Kuo, Cina (1972); 
Bernardo Bertolucci, The dreamers - I sognatori (2003) dove l’iconografia maoista è onnipresente nel Maggio francese del 1968.

Immagini: manifesti della rivoluzione culturale.
La seconda immagine («Il potere politico deve mescolarsi con i lavoratori») e la terza (agricoltori con il libretto rosso) sono tratte dal sito:


venerdì 29 luglio 2016

Bari 28 luglio 1943

Cold case. 
73 anni, una strage e cinque domande


Pietra d'inciampo per Graziano Fiore. Andava con gli altri
manifestanti verso il carcere, per accogliere il padre,
il grande intellettuale liberal socialista Tommaso Fiore,
che sarebbe stato liberato quel giorno.
  
Il 28 luglio 1943 un corteo attraversava Bari festeggiando la fine del regime mussoliniano e dirigendosi verso il carcere dove sarebbero stati liberati i prigionieri antifascisti. Il nuovo governo Badoglio vietava le manifestazioni, una circolare del capo di stato maggiore Roatta ordinava all’esercito di sparare contro i dimostranti senza preavviso «come contro truppe nemiche». In via Niccolò dell’Arca, sotto la sede della federazione del PNF, i manifestanti – insegnanti, studenti, apprendisti per lo più giovanissimi – trovarono la strada sbarrata da un reparto di soldati che aprì il fuoco uccidendo 20 dimostranti e ferendone 36. Sono i numeri accertati di un bilancio che in realtà fu ancora più pesante.
Si trattò del più grave fra gli eccidi compiuti in Italia nei giorni successivi alla caduta del duce.
E fu il più sanguinoso eccidio politico della storia contemporanea a Bari.

Nonostante ciò, tenerne viva la memoria è sempre stata un’impresa problematica. Come se questa fosse un’appartenenza esclusiva di piccole minoranze, o perfino di una fazione. Nei primi decenni il ricordo del 28 luglio rimase affidato in particolare all’Anppia*, poi, dopo l’esaurimento dell’associazione dei perseguitati antifascisti, il testimone è stato preso in consegna dall’Anpi, con l’ausilio scientifico dell’Ipsaic, cui si sono unite via via la Camera del Lavoro Cgil e l’Arci. 
È ormai uso che il Comune commemori annualmente l’evento con una cerimonia pubblica; Bari ha ricevuto la medaglia d’oro per i fatti del ’43; nei pressi del luogo del massacro sono state installate venti “pietre d’inciampo” con i nomi dei caduti.
I fatti sono stati raccontati e studiati più volte; la personalità delle vittime, dei feriti, dei loro compagni, è stata giustamente ricostruita nel contesto dell’opposizione antifascista cresciuta a Bari e in Puglia durante la dittatura. Vi sono testimoni viventi – fra gli altri Umberto Cassano, Paolo Laterza e Pasquale Mininni – cui è stato dato spazio nel racconto pubblico. Può sembrare dunque che tutto si sappia sul tragico evento.
Invece rimangono cinque domande fondamentali.  

Monumento ai caduti del 28.7.1943
in Piazza Umberto I
La prima. Molte testimonianze messe a verbale e gli stessi rapporti dei carabinieri affermano che ignoti civili spararono sui manifestanti dalla sede della federazione del PNF. Perché nessuna procura, né règia, né repubblicana, né militare, li ha mai cercati? Non sono noti finora documenti che attestino tali ricerche o il motivo per cui vennero omesse.
La seconda. Le autorità militari spiegarono così la dinamica dei fatti: una scarica di fucileria partì per sbaglio da un plotone di 24 soldati, senza ordine di aprire il fuoco, per trascinamento dello sparo effettuato da un sergente di marina non in servizio (ambiguamente collocato fra manifestanti e militari). La domanda è: una scarica casuale di 24 fucili può provocare venti morti e una cinquantina di feriti? O non è necessario per ottenere tante vittime che vi siano ripetute e successive scariche o raffiche, che quindi escludono lo sbaglio e implicano la intenzionalità? Si è mai pensato di svolgere studi comparativi con altre stragi avvenute nel mondo in circostanze simili?
Terza domanda. Perché di quelli spari micidiali nessuno è stato chiamato a rispondere? Non lo furono né il sergente di marina (che pure, si disse, aveva dato il via alla sparatoria), né il tenente che comandava il reparto, né i singoli soldati che, secondo la ricostruzione ufficiale, avevano aperto il fuoco senza ordini, né i carabinieri che pare si siano uniti agli sparatori, né alcuna autorità superiore. 
Quarta domanda, conseguente. Se nessuno fu colpevole per avere sparato, la responsabilità sarebbe dovuta ricadere sui manifestanti che con la loro insubordinazione avevano causato la strage. Perché allora furono anch’essi prosciolti dalla procura militare? Insomma, erano colpevoli di aver contravvenuto a un ordine, e quindi responsabili di essere stati presi a fucilate, o erano innocenti, e quindi quelli che li fucilarono commisero un crimine?
Infine. Perché un plotone del regio esercito fu messo a presidiare la federazione del PNF? Se le manifestazioni erano rigorosamente proibite, come da ordini del governo e dei vertici militari, perché quella manifestazione non fu impedita al suo nascere? Perché non fu sciolta un’ora prima davanti alla sede del Corpo d’Armata, dove i manifestanti poterono liberamente fare irruzione in una sezione rionale del PNF, situata di fronte?

Clamorose contraddizioni, che vennero archiviate. Le domande sono tuttora senza risposta.

Monumento ai caduti del 28.7.1943
Cimitero di Bari
L’iscrizione sul monumento memoriale nel cimitero cittadino afferma che le vittime caddero sotto «piombo fraterno». Una sentenza surreale, forse la più icastica spiegazione del silenzio: la santificazione istituzionale ha celato per molti anni un sostanziale consenso all’oblio. Ma non può esserci pacificazione senza verità e giustizia.
L’unica “memoria condivisa” riconduceva insomma all’idea del tragico errore, finendo perfino col negare ai caduti lo statuto di vittime antifasciste. Esse però, se non furono vittime del fascismo di governo, lo furono certamente del fascismo sopravvivente nella continuità del regime monarchico-dittatoriale; e furono vittime forse anche di un’attiva complicità – su cui si è voluto stendere il velo – fra vertici del partito fascista spodestato e autorità monarchiche in loco. L’equivoco sulla presunta natura non-fascista dell’eccidio ha fatto sentire una tarda eco nella gaffe della Presidenza della Repubblica, la cui prima stesura delle motivazioni per la medaglia d’oro alla città di Bari ometteva il riferimento alla strage del 28 luglio**; medaglia – si badi - al merito civile e non militare (ma in ciò hanno pesato probabilmente anche altre considerazioni, relative alla battaglia del 9 settembre al porto, di cui non possiamo qui occuparci).   
In realtà l’eccidio del 28 luglio è ancora in massima parte da studiare e da indagare, nella sua dinamica e nelle specifiche responsabilità, ma soprattutto è da investigare il ruolo di quanti contribuirono in vario modo a mettere la sordina a un caso di tale enormità.

Torniamo ai monumenti e alle epigrafi. È difficile monumentalizzare la verità; tuttavia la lapide in piazza Umberto e specialmente le pietre d’inciampo sono state un passo in avanti.
Resta l’amara e involontaria ironia degli squilli di una tromba militare che commemorano le vittime civili di un eccidio compiuto dall’esercito italiano, che non ha mai ammesso la propria responsabilità.

Resta una grande indagine incompiuta: una sfida ardua e ineludibile. Un dovere morale per una giovane generazione di storici. 

Pasquale Martino
28 luglio 2016

La prima epigrafe commemorativa fu apposta sul muro del palazzo della ex federazione fascista, nel tratto di strada dove avvenne la strage. La lapide andò perduta quando l’edificio venne demolito per fare posto all’attuale sede del Monte dei Paschi di Siena, né fu mai ricollocata.

** Si legga qui la prima stesura delle motivazioni, come riportata dalla stampa il 14 settembre 2006, il giorno dopo la cerimonia di conferimento (durante la quale i familiari dei caduti del 28 luglio protestarono pubblicamente), e qui invece la stesura definitiva e ufficiale del 2007, riportata nel sito della Presidenza della Repubblica.  

sabato 9 luglio 2016

Ratline nel porto barese

Criminali nazisti.
La via di fuga che passava per Bari

L'imboccatura del porto di Bari, veduta serale
Per due anni dopo la Seconda guerra mondiale, nel ’45-47, Il porto di Bari fu uno snodo cruciale nella fuga dei criminali nazisti dall’Europa. Ad affermarlo autorevolmente è Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, nel suo libro più noto, Gli assassini sono fra noi (1967). In proposito, l’uomo che fece catturare Adolf Eichmann è estremamente preciso: esisteva una linea di fuga principale, denominata in codice «asseB-B, Brema-Bari», che raccoglieva i fuggiaschi dalle varie città tedesche e li convogliava verso Memmingen in Baviera; da qui la «linea dei ratti» (Rattenlinie in tedesco, Ratline in inglese, così definita dagli anglo-americani) si volgeva a Innsbruck in Austria, quindi penetrava in Italia attraverso il Brennero, percorrendo infine la costa adriatica sino a Bari. Una variante – si apprende da altra fonte – era il passaggio attraverso il Territorio Libero di Trieste, allora controllato dagli Alleati, con prosecuzione verso il capoluogo pugliese. 
Per quanto riportata in un testo di quasi mezzo secolo fa, questa notizia non è mai stata ripresa né ha dato spunto a ricerche storiche specifiche, tanto meno nella città direttamente coinvolta. Vero è che verso la fine degli anni ’40 e nei primi ’50 l’asse B-B era in disuso: le partenze dei gerarchi in incognito avvenivano soprattutto da Genova. Si era ormai strutturata la cosiddetta «Odessa», l’organizzazione clandestina di protezione delle ex SS, resa celebre da un romanzo di Frederick Forsyth (cui Wiesenthal fece da consulente). Da Genova si levava l’ancora verso il Sud America, dove specialmente l’Argentina peronista dava ospitalità ai rifugiati del Terzo Reich. Gli studi sulle Ratlines prendono in esame per lo più il porto ligure oltre che la rete di appoggi supportata dal Vaticano e da varie strutture conventuali. Lo stesso centro di documentazione di Vienna, possessore dell’archivio di Wiesenthal – ci scrive Michaela Vocelka che lo dirige e alla quale ci siamo rivolti – contiene «alcuni materiali sulla via di fuga nazista e sulle Ratlines, ma nessun documento su Bari».
Simon Wiesenthal
Ma i riscontri ci sono, e sembrano pervenire dagli ambienti dei servizi segreti anglo-americani. Il volume di David Talbot su Allen Dulles e sulla nascita della Cia, The Devil’s Chessboard («La scacchiera del diavolo», New York, 2015), racconta le attenzioni riservate ai pezzi grossi delle SS da parte del capo dell’Oss (Office of Strategic Services) in Europa e negoziatore della resa germanica in Italia. Dulles era lungimirante: tornava utile arruolare i nazisti sconfitti, per la nuova guerra che si andava profilando contro l’Unione sovietica. Un simile calcolo ispirava il Vaticano o quanto meno importanti settori ecclesiastici, che non dimenticavano il nemico di sempre, la Russia atea. Del resto nell’anno convulso seguito al maggio ’45 il Vecchio Continente era un immenso campo profughi di tutte le nazionalità: c’erano molti ex prigionieri di guerra tedeschi, e molte SS che era praticamente impossibile trattenere in detenzione; il dileguamento era facile se si godeva di appoggi efficaci. Fra i criminali cui fu riservato dai servizi americani un trattamento di favore vi fu Walter Rauff, tenente colonnello delle SS in Italia, che partì da Bari per Alessandria in Egitto; lo afferma Talbot, comprovando così che Bari era il porto privilegiato per il Vicino e Medio Oriente. 
Rauff visse in Siria e in Libano, ma operò anche per i servizi segreti israeliani – lo rivelò nel 2007 il quotidiano israeliano «Haaretz» basandosi su fonti Cia – e si guadagnò il viaggio verso il Cile dove concluse la sua carriera come consigliere della Dina, la polizia politica del dittatore Pinochet. Clamorosa poi (ma priva di controprove) è la testimonianza di Ian Bell, agente inglese – la si può ascoltare anche su Youtube – che afferma di aver rintracciato a Bari nientemeno che Martin Bormann, il braccio destro del Führer, e di averlo visto salire su una nave senza poter intervenire, a causa di ordini superiori. Ma la sparizione di Bormann fa parte della mitologia del post-nazismo, che si nutre di supposizioni suggestive. Fiction dichiarata è il romanzo Eva (1984) di Ib Melchior, scrittore danese-statunitense, che immagina il salvataggio di Eva Braun, consorte di Hitler, incinta, lungo l'asse B-B fino al porto pugliese. Melchior è stato un membro dell'Oss e del Cic (Counter Intelligence Corps) e sulle vie di fuga dei nazisti mostra di saperne parecchio. 
Walter Rauff
Un tassello importantissimo e inesplorato si congiunge, dunque, al mosaico della Bari di quegli anni: città internazionale dove vivono e agiscono inglesi, americani, neozelandesi, iugoslavi, polacchi, oltre agli immigrati dalle colonie; dove sorge un campo profughi per gli ebrei, che vengono dall'Europa sconvolta nella speranza di partire per la Terra promessa. È l'amara ironia della Storia: dallo stesso porto (con le stesse navi?) salpano le vittime e i carnefici. Toccata non di rado dalla Grande Storia, Bari è spesso smemorata, incuriosa del proprio passato, o incline a leggerlo in chiave celebrativa e acritica. Ma questa è un'indagine doverosa, da farsi: come e grazie a chi funzionava il terminale della Ratline in Puglia? Occorrerebbe cercare negli archivi vaticani, suggerisce Enzo Collotti, con il quale abbiamo avuto la possibilità di confrontarci. e innanzitutto  aggiunge il grande studioso della Germania nazista e dei suoi rapporti con l'Italia  si dovrebbe passare al setaccio la letteratura su Odessa e le vie di fuga. Da parte nostra, sappiamo che alcuni ricercatori indipendenti e part time della "diaspora barese" sono già all'opera in Germania. E siamo convinti che tracce di questo traffico giacciano anche in fondo a qualche polveroso archivio locale. Questa ricerca è appena all'inizio. 


Pasquale Martino  
 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 luglio 2016

domenica 5 giugno 2016

1936: Italia, Etiopia, Spagna

80 anni fa, dieci prima della Costituente
La guerra fascista, "moderna" e globale 

Obice italiano e reparto di artiglieria in Etiopia 
Celebriamo a giusta ragione il 70° della repubblica e della Costituente, ma facciamo fatica a pensare, nonché a ricordare, che cos’era l’Italia soltanto dieci anni prima: ottanta anni fa, nel 1936, a monte di un decennio terribile. Eppure senza questa memoria non capiremmo davvero il prezzo pagato per la libertà. Quell’anno infatti l’Italia monarchica e fascista – che registrò allora il massimo consenso al regime (lo ha spiegato Renzo De Felice) – dette il suo fattivo contributo alla spinta verso la Seconda guerra mondiale. 
Il 9 maggio, di fronte a una «adunata oceanica», Mussolini proclama la nascita dell’impero. È la vittoria sull’Etiopia: ultima e anacronistica impresa coloniale di una potenza europea, realizzata quando il colonialismo occidentale è in declino e si intravedono ormai quei processi di decolonizzazione che prenderanno piede dopo il ’45. Ma quel conflitto è altresì straordinariamente nuovo e “moderno”: per l’organizzazione logistica meticolosa, per la massiccia mobilitazione (quasi mezzo milione di uomini) e per l’uso spietato della superiorità tecnica sull’avversario (unità motorizzate, carri armati, artiglieria, aviazione, gas letali). Fu «la prima guerra scatenata da un regime fascista europeo», e fu «un evento di portata globale» (Nicola Labanca, La guerra d’Etiopia, Il Mulino, 2015). Una guerra “industriale” – con una sconvolgente sproporzione di caduti  fra le due parti – e un esperimento del grande massacro a venire. Un anno dopo Walter Benjamin concludeva il suo saggio più famoso citando proprio la conquista dell’Etiopia come esemplare riprova della tendenza dei regimi fascisti a fondare il consenso su un’estetica della guerra. Il futurismo di Marinetti incontrava la demagogia mussoliniana del popolo “proletario” che finalmente conquista lo spazio a lui finora negato. Senza contare la svolta razzista che perverrà alle leggi del ’38. Il paradosso è che lo sforzo immane del conflitto abissino, oltre a dissestare il bilancio dello Stato per generazioni (che continueranno a pagare le accise sulla benzina per quella spesa), consegnerà un’Italia militarmente sfibrata e inefficiente all’irresponsabile decisione di condividere la sfida hitleriana. E la prima a cadere sarà proprio la colonia etiope, snervata da indomite formazioni partigiane e, nel 1941, dissolta dall’avanzata inglese. 
Manifesto spagnolo
contro l'intervento italiano 
Ma intanto, nel ’36, il duce si sente un protagonista agli occhi del mondo ed è pronto per un’altra avventura bellica: l’appoggio all’insurrezione franchista in Spagna, due mesi dopo l’ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Già a fine luglio l’aviazione italiana – l’arma considerata “fascista” per eccellenza – protegge il trasferimento delle truppe di Franco, che appoggerà costantemente fino a partecipare con l’aviazione tedesca al bombardamento terroristico di Guernica nel ’37. Senza l’aiuto italiano dei primi mesi, è dubbio che la sedizione militare avrebbe attecchito. Nel corso del ’36 arrivano dall’Italia anche le truppe di terra: composte da “volontari” che non portano le stellette, in omaggio alla finzione di neutralità. Un corpo di spedizione di 50.000 uomini che però finirà sconfitto a Guadalajara, nel marzo ’37.
L’Europa corre ormai verso la guerra e il conflitto spagnolo ne è il banco di prova. L’Italia è stata la prima a destabilizzare la Società delle Nazioni e l’equilibrio precario della pace di Versailles. Nel ‘36 Hitler, emulo di Mussolini, manda l’esercito a occupare la Renania, stracciando il trattato di pace, e minaccia l’Austria con il tacito avallo del duce, che è disposto a cedere molto all’accordo col Terzo Reich. Si arriva, il 25 ottobre, alla nascita dell’«asse» Roma-Berlino, cui si affiancherà a novembre il patto anti-Comintern fra Germania e Giappone (la potenza militarista che nel ’31, invadendo la Manciuria, ha posto un altro tassello della futura guerra globale). Infatti l’unificazione tra le forze nazifasciste mondiali avviene sotto il segno della lotta al principale nemico: il bolscevismo, di cui le democrazie capitalistiche sarebbero – secondo i fascisti – oppositrici pusillanimi se non addirittura complici. Queste sono le basi di una guerra civile internazionale, che sembra ormai in pieno svolgimento: il fronte popolare delle sinistre vince le elezioni del ’36 in Francia oltre che in Spagna, e ad agosto il VII congresso del Comintern propone il fronte popolare antifascista. Ma le democrazie occidentali non aiutano la repubblica spagnola e dialogano con Mussolini e Hitler, nella colpevole presunzione di giocarli concedendo loro qualcosa e con la speranza che essi scarichino la loro aggressività contro la Russia sovietica. 

Combattenti antifascisti in Spagna: al centro Ilio Barontini
con Luigi Longo alla sua destra
Per converso, l’antifascismo italiano si getta nel cimento, vincendo la demoralizzazione causata tra le sue file dal successo africano del regime (si pensi al disorientamento che traspare nel ’36 dall’infelice appello comunista ai «fratelli in camicia nera»). Molti esuli italiani si arruolano subito nelle brigate internazionali, formatesi per combattere contro i franchisti, seguendo l’intuizione ben espressa dallo slogan del leader di Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Fra questi c’è Ilio Barontini, il “garibaldino” comunista che due anni dopo sarà con alcuni compagni in Etiopia a dar man forte alla guerriglia e poi prenderà parte alla Resistenza italiana. A uomini e a donne di tal fatta – inclusi quelli che, anonimi, resistettero in patria con la muta testimonianza e con qualche forma di disobbedienza – si deve se l’Italia del 1936 non fu soltanto quella delle imprese belliche fasciste, della retorica antipacifista e degli osannanti raduni di massa; se, in quell’anno sanguinoso, furono comunque preservati e difesi un pensiero e una moralità che nel ’46 si sarebbero tradotti in un fatto: la nostra pur difettosa democrazia.  

Pasquale Martino    

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 4 giugno 2016

domenica 24 aprile 2016

Sinti e rom nella Resistenza



C'è una Liberazione che racconta gli zingari

Non è vero che su alcuni capitoli storici – la Seconda guerra mondiale, i lager, la Resistenza – si sa già tutto, e il resto è noia. C’è un vasto territorio da esplorare, se si hanno domande nuove e se si aprono le molte pagine poco conosciute. Una di queste, ancora ignota al largo pubblico, riguarda l’odissea degli zingari nell’Europa nazista. Da un po’ di tempo, in verità, lo sterminio di rom e sinti è oggetto di un certo interesse, sebbene i lavori storiografici fondamentali siano introvabili nelle librerie. 
Fortunatamente c’è ora il romanzo di Dario Fo Razza di zingaro (Chiarelettere, 2016) che narra la vita di Johann Trolmann, sinto tedesco, campione di boxe assassinato in un campo di concentramento. 
Mancano invece studi complessivi – a quanto sappiamo – sulla partecipazione di rom e sinti alla Resistenza europea: un dato tuttavia inoppugnabile, di cui esistono numerosi riscontri e testimonianze. Hemingway in Per chi suona la campana? raccontava dei gitani attivi nella guerra di Spagna dalla parte repubblicana. Nell’Est europeo e nei Balcani è documentata l’attività partigiana di raggruppamenti zingari che si guadagnarono anche decorazioni al valore, mentre in Francia i rom dettero un contributo importante all’avanzata angloamericana infiltrandosi oltre le linee nemiche e facilitando le comunicazioni. 
Sparse e frammentarie sono tuttora le notizie sull’Italia. Dove, va ricordato, numerosi zingari furono internati dai fascisti in campi di concentramento da cui vennero liberati dopo il 25 luglio ’43. Alcuni di essi si unirono alla lotta partigiana. Fra i «dieci martiri di Vicenza», partigiani fucilati dai tedeschi l’11 novembre ’44, si conta un gruppo di quattro sinti, tutti cittadini italiani, musicisti, circensi e giostrai: Walter Catter (Vampa), Lino Festini (Ercole), Renato Mastini, Silvio Paina. Il ventunenne Giuseppe Catter (Tarzan), cugino di Walter, cadde ad Aurigo (Imperia) e fu decorato alla memoria; nel 2014 l’Arci e l’Istituto storico imperiese lo hanno onorato con una targa. Presenze zingare sono attestate nel movimento partigiano a Genova, in Trentino, nella Divisione Osoppo in Friuli, nella Divisione Modena Armando in Emilia. Una scarna testimonianza orale fornisce elementi per ricostruire la singolare vicenda dei «Leoni di Breda Salini» (una località presso Rivarolo in provincia di Modena, che prende il nome dal vicino stabilimento). Era così chiamata una banda di sinti, professionisti dello spettacolo ambulante, i quali di notte si trasformavano in combattenti mettendo a segno efficaci azioni contro i tedeschi. Peraltro i musicisti di strada erano malvisti e bistrattati, e una sera proprio alcuni di loro furono costretti a improvvisare un concertino a beneficio dei militari germanici, in compagnia – racconta il testimone – del malcapitato maestro Gorni Kramer.

Amilcare Debar
La storia più nota, assai interessante e straordinaria per molti versi, è quella del piemontese Amilcare Debar, detto familiarmente Taro. Nato nel 1927, avendo perso entrambi i genitori viene allevato con la sorellina in un orfanotrofio, dimenticando la propria origine zingara. Nel '44, a 17 anni, si arruola come staffetta partigiana e diventa poi combattente col nome di battaglia di Corsaro nella 48a Brigata Garibaldi al comando di Pompeo Colajanni. L'Istituto piemontese per la storia della Resistenza conserva una scheda a lui dedicata, nella quale si legge fra l'altro: «Figura molto valida. Un uomo naturalmente capo. Notevole la sua capacità di risolvere i problemi da quelli quotidiani della sopravvivenza alimentare alle decisioni operative di guerra». Taro ha modo di conoscere anche Sandro Pertini, che quarant'anni dopo lo riceverà in Quirinale con un gruppo di ex partigiani, riabbracciandolo calorosamente. 
Dopo la Liberazione, Debar entra in polizia come altri reduci del partigianato. Ed è proprio in veste di poliziotto che gli capita, controllando i documenti di alcuni nomadi, di ritrovare i parenti perduti. Si riappropria della identità sinta, va a vivere in un campo con la sua gente, adottandone i mestieri, impegnandosi nella difesa dei diritti del popolo rom e sinto e parlando a suo nome in varie assise internazionali, fra cui le Nazioni Unite.
Partigiano fino alla morte, che lo coglie nel 2010 a 83 anni, Amilcare Debar ci ricorda che la Costituzione italiana, nata anche grazie al suo contributo e al sacrificio di tanti, recita all'art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». E che la repubblica dovrebbe rimuovere tutto ciò che ostacola l’uguaglianza e limita la libertà. 

Pasquale Martino 

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 aprile 2016  

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