mercoledì 8 ottobre 2014

Raniero Panzieri

I giovani operai dei Quaderni Rossi
Il tempo del "Socrate socialista"

Ad agosto era morto Togliatti. Il 9 ottobre 1964 toccò a Raniero Panzieri. Il suo apporto innovativo alla cultura della sinistra sarebbe apparso in piena luce nel decennio seguente. 
A lui, ebreo romano, nato nel 1921, le leggi razziali avevano vietato di compiere studi universitari (frequentava lezioni in Vaticano, dove leggeva… i classici del marxismo!). Dopo la guerra poté laurearsi in filosofia e, in pari tempo, aderì al Partito socialista. Verrà descritto come l’“operaista”, apparentemente chiuso nel mondo delle fabbriche torinesi; invece ebbe la sua formazione politica nel Sud, in Puglia e in Sicilia, nelle lotte contadine: un’attiva partecipazione che gli procurò denunce e processi, ma  lo promosse ai vertici del Psi. Rodolfo Morandi, vicesegretario nazionale e capo organizzativo del partito, fa di Panzieri il suo braccio destro e lo avvia a diventare un dirigente. E qui va notata la qualità dei politici di sinistra dell’epoca – oggi inconcepibile – i quali erano prima di tutto intellettuali di altissima cultura e di livello superiore alla media dei cattedratici (si pensi proprio a Togliatti e a Morandi). Profondo conoscitore dei testi di Marx, che leggeva in lingua originale, negli anni ’50 Panzieri pubblicò la traduzione del  libro II del Capitale  cui collaborò la moglie Giuseppina Saija (figura a sua volta notevole di germanista, nonché traduttrice per Einaudi e per Utet).
A capo della sezione nazionale Stampa e Propaganda, poi della sezione Cultura, Panzieri avrebbe potuto succedere a Morandi quando questi morì nel 1955. Non fu così; tuttavia collaborò strettamente col segretario Pietro Nenni, che affiancò come condirettore (in realtà, direttore effettivo) della rivista di cultura «Mondo operaio».  Eppure – altro aspetto degno di nota – egli non era un funzionario di partito. Nel 1959 si trasferì a Torino per lavorare come redattore per Einaudi. Qui dedicò l’ultimo quinquennio di vita a tessere un nuovo progetto politico-culturale. Aveva ormai preso le distanze sia dai socialisti indirizzati verso l’accordo con la Dc, sia dai comunisti  attardati nei postumi dello stalinismo e distanti dalla concreta dinamica della lotta operaia.
Propugnava il ritorno a Marx: al Marx economista e sociologo, l’acuto indagatore dei meccanismi capitalistici (del quale oggi si riscopre l’attualità). Su questo punto, infatti, Panzieri misurava tutta l’arretratezza della sinistra. Fu tra i primi ad analizzare quello che venne chiamato il «neocapitalismo»:  la fase di sviluppo che, dopo la ricostruzione postbellica, interessava l’Europa e si manifestava nell’Italia del boom, del “benessere”, del consumo di automobili ed elettrodomestici.  Il che significava meccanizzazione del processo produttivo, modernizzazione degli impianti, tecnologia, organizzazione del lavoro, sapere incorporato nelle macchine; e significava espansione del modello capitalistico nell’agricoltura e nell’industria culturale; cosicché i contadini da un lato, gli intellettuali dall’altro, diventavano lavoratori dipendenti, proletari.  Ed era questo il vero centro di interesse di Panzieri: la nuova classe operaia, specie quella della grande industria, composta da giovani e meridionali immigrati. Egli seppe scommettere sulla propensione dei giovani operai a rivendicare i propri diritti a muso duro, senza timori reverenziali verso il padronato. E dopo il letargo degli anni ‘50 un nuovo ciclo di lotte gli dette ragione: fino alla rivolta di Piazza Statuto nel 1962, a Torino (seguita, nello stesso anno, dalla ribellione degli edili baresi). La rivista «Quaderni Rossi» (1961-66), da lui fondata, è insieme centro studi, sede di dibattito e soggetto politico informale, che si raccorda con gli operai attraverso lo strumento dell’inchiesta in fabbrica – un altro caposaldo della lezione panzieriana – e tenta di stimolare una dialettica tra le posizioni più aperte nei partiti e soprattutto nel sindacato.  È allora che la Fiom assume quel ruolo politico che tuttora la caratterizza sia pure in un contesto del tutto diverso. E nei primi anni ’70 i consigli di fabbrica furono i nuovi organismi che ridefinivano il ruolo del sindacato e lo spazio di autonomia dei lavoratori nel luogo di lavoro, il «potere operaio» (un'altra espressione di derivazione panzieriana). Più difficile era modificare i partiti, tant’è che l’eredità di Panzieri sarà accolta soprattutto dai gruppi della nuova sinistra post-68  (e non solo da quelli etichettati come operaisti); ma lascerà un’impronta nella sinistra socialista, fondatrice del Psiup, e nello stesso Pci (si pensi al debito di Asor Rosa e di Mario Tronti verso di lui). Fu profetico nel delineare la capacità del capitalismo di scomporre il fronte operaio disperdendo la produzione, parcellizzandola, creando rapporti di lavoro indiretti, individuali, precari, persino inscenando la presunta “fine della classe operaia”.
A mezzo secolo di distanza, appare stupefacente l’ampiezza dei suoi contatti e delle corrispondenze epistolari (da Giovanni Pirelli a Renato Solmi, da Calvino a Fortini a Vittorio Foa) e delle personalità intellettuali che devono non poco al suo magistero di pensiero e d’azione (da Goffredo Fofi a Edoarda Masi a Toni Negri, fino ai più fedeli eredi, Pino Ferraris e Vittorio Rieser, scomparsi entrambi di recente). Chi lo conobbe ne ricorda il tratto di simpatia e di cordialità dialogica, il fascino di un filosofo compagno di operai, di un «Socrate socialista» (la definizione è di Stefano Merli) che ha educato senza enfasi una generazione politica.  Licenziato da Einaudi nel 1963, isolato dalla sinistra maggioritaria per la sostanza eretica delle sue idee, Panzieri morì a soli 43 anni. La cerimonia funebre, a Torino, fu sobria, con pochi presenti. Ma quello che se ne andava era un maestro esemplare nella storia della sinistra italiana.

Pasquale Martino     

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 8 ottobre 2014

Fotografia in alto: Panzieri a Messina nel 1949 con la moglie Giuseppina Sajia (dal sito di Salvatore Lo Leggio).