giovedì 27 novembre 2014

L'ultradestra europea


Neofascismi, nazionalismi, xenofobia
Il gigante Europa fa i conti a destra


Quando consideriamo il panorama politico dell’Europa – immaginando i volti propositivi che il «gigante economico» assumerà negli scenari mondiali – non dovremmo trascurare la presenza strutturata di una destra estrema che si pone oltre i conservatori di Juncker e Merkel e offre un mix ideologico capace di aver presa sugli strati popolari. Non ci riferiamo soltanto a forze euroscettiche e discretamente xenofobe come l’Ukip di Nigel Farage, vincitore delle recenti elezioni europee in Gran Bretagna (27,7%, primo partito), che ha costituito il gruppo parlamentare con il M5S italiano. Pensiamo soprattutto a una destra che ha radici neofasciste e neonaziste, o che dialoga con i neofascisti, li assimila, ne condivide i motivi ispiratori, dal nazionalismo all’antieuropeismo, alle teorie del complotto, alla xenofobia con esplicite venature razziste. Nel parlamento di Strasburgo siedono nove di tali partiti, senza contare gli altri che, non rappresentati nell’assise europea, hanno rilievo nei rispettivi paesi.
Si suole opportunamente distinguere fra l’estrema destra dell’Europa occidentale e quella dei paesi ex sovietici. La prima ha attuato un’operazione di restyling per prendere le distanze dal neofascismo storico pur inglobandone i temi e arruolandone i seguaci. In questo senso il capolavoro riuscito è quello del Front National di Marine Le Pen (24% alle europee, primo partito in Francia) che ha le radici fra i nostalgici del regime di Vichy e gli ex coloni d’Algeria, ma adesso si racconta come forza-guida di una lotta «dal basso contro l’alto», conquistando ampi consensi in tutte le classi sociali. Manovra simmetrica e inversa rispetto a quella della Lega Nord, che dopo essere stata alleata di governo dei post-fascisti (handicap non da poco, rispetto al curriculum di opposizione del Front National), oggi si riqualifica paladina dei territori contro l’“invasione”e converge nelle piazze con i mussoliniani dichiarati di CasaPound. L’ultradestra occidentale in crescita di consensi si è liberata da retaggi imbarazzanti quali l’antisemitismo – che resta tuttavia sullo sfondo e nel retropensiero di tanta parte della “base”, attiva nei social network – e inoltre approva il governo israeliano.

Neonazisti ucraini col ritratto di Stepan Bandera
Viceversa, l’estrema destra dell’Europa orientale non dissimula le nostalgie nazionalsocialiste. Il caso più recente riguarda la formazione ucraina Svoboda (Libertà) i cui militanti sono stati decisivi nella sommossa di Kiev che ha abbattuto il presidente filorusso. Comprimaria nel nuovo governo filo-occidentale con il vicepresidente e il ministro della Difesa, ridimensionata dal voto politico di un mese fa ma ancora in ballo nelle trattative per la costituenda compagine ministeriale, Svoboda dichiara di battersi contro la «mafia ebreo-moscovita» e onora come proprio eroe il collaborazionista Stepan Bandera che appoggiò i nazisti contro i russi. In generale, l’ultradestra est-europea – dalla Bulgaria alle repubbliche baltiche – celebra i vari «Quisling» che aiutarono i tedeschi (anche nello sterminio degli ebrei) come combattenti per l’indipendenza nazionale contro i sovietici. Per loro il pericolo attuale non è l’Europa dei banchieri, ma l’ingerenza della vicina Russia. Una parziale eccezione è costituita dall’Ungheria, dove lo Jobbik o Movimento per l’Ungheria migliore (15% alle europee, secondo partito del paese) pur essendo all’opposizione fiancheggia il premier di destra Orban nelle sue politiche autoritarie, antieuropeiste e di apertura verso Putin. La destra di Budapest non teme il nazionalismo russo che si proietta esclusivamente sui paesi slavi; anzi, sogna a sua volta la «Grande Ungheria» che dovrebbe includere le minoranze magiare di Romania, Serbia, Slovacchia. Già legato alla disciolta formazione paramilitare della Guardia Magiara, Jobbik dimentica il sostegno dato dalle Frecce uncinate ungheresi all’Olocausto nazista e chiede che invece siano gli ebrei magiari a scusarsi per le vittime della rivoluzione comunista di Bela Kun nel 1919, appoggiata dagli ebrei stessi.

Manifestazione di Jobbik in Ungheria
Ma ciò che accomuna tutta l’estrema destra europea, dalla Danimarca all’Austria, dalla Grecia alla Finlandia, è il richiamo a valori tradizionalisti declinati secondo una malintesa identità dell’Occidente cristiano; ed è soprattutto la visione apocalittica del fenomeno migratorio, l’ostilità contro stranieri e immigrati in quanto tali, in nome dell’integrità delle culture nazionali-locali e di una gerarchia dei bisogni sociali che dà la priorità ai nativi. Al razzismo biologico del XX secolo – bianchi contro neri, ariani contro semiti – è subentrato un razzismo etnico-culturale, che teme più d’ogni cosa il «multiculturalismo»: sinonimo odiato, un tempo, di marxismo ed ebraismo, equivalente oggi di integrazione, di tolleranza verso i Rom e specialmente verso gli immigrati di fede musulmana. L’islamofobia è il dato emergente – già in auge dopo l’11 settembre, rilanciato ora come reazione agli eccidi dell’Isis – tanto più preoccupante in quanto, se l’ultradestra ne è il portabandiera, l’opinione pubblica se ne mostra comunque largamente permeabile. Ma qui non c’entra la legittima critica all’islamismo politico come esperienza storicamente determinata. Ciò che si demonizza è la presunta “essenza” immutabile dell’Islam, per cui il musulmano è sempre un potenziale terrorista e uno che comunque non potrà mai integrarsi nella “nostra” civiltà; si cede al pregiudizio e si perde il valore del dialogo, della relazione come cambiamento reciproco. Si perde anche la fede umanistica nella solidarietà fra lavoratori, quantunque di diversissima condizione, e nella scuola, che possono trasformare gli esseri umani, avvicinarli al di là di nazionalità e religione. Nascono le cosiddette guerre fra poveri, quasi mai spontanee, innescate da agitatori politici che strumentalizzano il disagio sociale.

Pasquale Martino    
 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 novembre 2014   


L’articolo è accompagnato dall’agenda di manifestazioni ufficiali per il 37° anniversario dell’assassinio di Benedetto Petrone (28.11.2014) 

mercoledì 5 novembre 2014

Livio 2

I processi degli Scipioni
La lotta politica a Roma negli anni 187-184 a.C.


Con l’espressione «processi degli Scipioni» gli storici si riferiscono alla prolungata battaglia giudiziaria che fu scatenata contro Scipione l’Africano e suo fratello Lucio, e che, al di là degli specifici esiti processuali, provocò la caduta, o per lo meno il ridimensionamento, della potenza scipionica. I termini e i passaggi di questa vicenda non sono completamente chiari, né il racconto di Livio, che in proposito è il piú ampio e dettagliato, appiana tutti i punti controversi. Tuttavia si tratta di una delle pagine piú interessanti dell’Ab Urbe condita per l’obiettiva importanza dell’evento esaminato, per il respiro narrativo che ne rende accattivante la lettura, e infine per lo sguardo che apre sul metodo di lavoro di Livio.
Nella ricostruzione del Nostro, il fatto si svolge in due tempi. In un primo momento, è chiamato in causa Scipione l’Africano, nell’anno 187 a.C. Gli accusatori sono due tribuni della plebe, i Petillii (altre fonti fanno il nome di un singolo tribuno, Nevio); gli addebiti sembrano generici: l’imputato viene accusato di aver avuto rapporti troppo disinvolti con Antioco III di Siria e di avere intascato parte di un’ingente somma versata dal re allo Stato romano. È subito chiaro che questa responsabilità riguarda principalmente il fratello L. Scipione (l’Asiatico), il comandante che ha condotto la guerra contro Antioco; ma tutti sanno che l’Africano, luogotenente del fratello, era il vero capo delle operazioni. La natura politica di questo scontro è evidente: dietro i Petillii – spiegherà Livio (XXXVIII 54, 1-2) – c’è Marco Porcio Catone, l’avversario politico che già diciassette anni prima ha tentato di trascinare Scipione in giudizio. Catone dà voce a quella parte della classe dirigente che si oppone all’imperante egemonia del clan scipionico: nobilitatem et regnum in senatu Scipionum accusabant, «accusavano l’egemonia e il regime regio imposto dagli Scipioni in senato»: (ivi 54,6).
Scipione si presenta in giudizio il giorno fissato dai tribuni, ma non si lascia mettere sotto accusa; anzi, col suo imbattibile carisma, trascina con sé il popolo in una processione religiosa sul Campidoglio, interrompendo il processo (che, essendo «comiziale», si svolgeva davanti al popolo). Dopo questa effimera vittoria personale (che peraltro non annulla il procedimento), Scipione sdegnato abbandona Roma e si ritira nella sua villa di campagna a Literno. Nuovamente convocato dai tribuni, non si presenta; il fratello lo dice ammalato. Apertasi quindi la disputa sull’accoglimento o meno delle motivazioni addotte per giustificare la mancata comparizione, interviene in difesa delle ragioni di Scipione un altro tribuno della plebe, il giovane Tiberio Gracco, che diventerà genero dell’Africano
e padre dei fratelli Gracchi. Livio conclude questa prima parte riportando la morte di Scipione avvenuta nel volontario esilio: adirato con la sua ingrata città, egli rifiuta perfino di farsi seppellire a Roma.
Il secondo tempo della vicenda dei processi scipionici si apre dunque dopo la morte dell’Africano (184 a.C.). Stavolta è chiamato in causa il fratello Lucio, insieme ad altri personaggi che costituiscono una vera e propria associazione a delinquere, rea di peculato e concussione ai danni di Antioco e di altri monarchi orientali. Questa volta il rito giudiziario è piú complicato: gli avversari degli Scipioni fanno approvare dal senato l’istituzione di una commissione inquirente guidata da un pretore, Culleone, che, pur essendo stato amico personale del defunto Africano, manda sotto processo l’Asiatico e lo condanna. In questa parte Livio cita pure l’entità delle somme che gli Scipioni avrebbero percepito illecitamente (nel racconto parallelo di Polibio, frammentario, pare di capire che essi si sarebbero serviti della “tangente” versata da Antioco III per distribuire paghe supplementari ai soldati), e recupera un episodio famoso (lo si può leggere in piú fonti)
che ha come protagonista l’Africano, ma che lo storico ha omesso di citare a suo tempo, nel resoconto del suo processo: richiesto di presentare il rendiconto del denaro avuto personalmente dal re di Siria, Scipione si fa portare il registro dei conti ma lo straccia in pubblico gettandone via i pezzi.
Sempre in questa parte del suo racconto, Livio – che ha finora seguito la ricostruzione dei fatti proposta dall’annalista Valerio Anziate – dà conto dell’esistenza di altre versioni, fra le quali si districa con difficoltà. In particolare, la morte di Scipione potrebbe essere avvenuta a Roma, ed egli potrebbe essere stato sepolto con tutti gli altri Scipioni nel cimitero di famiglia, fuori Porta Capena.

Pasquale Martino

Da Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina, volume 2, D’Anna, Firenze, 2012, pp. 391-392

Le immagini del sepolcro degli Scipioni sono tratte dal sito 
http://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/roma_antica/monumenti/sepolcro_degli_scipioni

martedì 4 novembre 2014

Stieg Larsson

Contro il nero del Nord.
Il giornalista che scrisse romanzi



L’autore dell’acclamata trilogia di Millennium, pietra miliare del filone scandinavo che ha rinnovato il thriller letterario, non aveva smesso di esercitare il mestiere di giornalista. Coi suoi romanzi – dei quali non prevedeva lo strepitoso successo – voleva comunque assicurarsi «la pensione» (sono parole sue). Stieg Larsson non fece in tempo a diventare ricco grazie ai milioni di copie vendute. Il 9 novembre di dieci anni fa, a Stoccolma, salì di corsa fino al quinto piano del palazzo senza ascensore dove aveva sede la rivista per cui lavorava, «Expo», e subito si accasciò colpito mortalmente da un attacco cardiaco.
Il giallista cinquantenne aveva appena consegnato all’editore i manoscritti dei suoi tre romanzi. Inoltre aveva abbozzato un progetto per altri sette volumi di un ciclo complessivo di dieci, e sviluppato materiali per i volumi quarto e quinto. Un lascito promettente che, al di là delle controversie di eredità tuttora in corso, ha consentito all’editore svedese di affidare a un altro scrittore la stesura di un quarto romanzo, la cui uscita è preannunciata per l’estate 2015.
Molti lettori hanno ammirato l’innovativa protagonista delle storie di Larsson, la detective free lance e disadattata Lisbeth Salander: vittima della brutalità di un padre psicopatico, trattata dal sistema socio-educativo come un soggetto psichiatrico a rischio, è cresciuta sola e costretta a inventare le proprie autodifese quotidiane; spinosa, ribelle, apparentemente incapace di relazione e ripiegata su se stessa fino a manifestare una sintomatologia autistica, vestita da punk e tatuata, è in effetti una geniale investigatrice, una hacker provetta e una vendicatrice delle donne che subiscono violenza sessuale. Il tema è posto con impressionante vigore nel primo romanzo: Uomini che odiano le donne. Uscito nel 2005, esso è una discesa negli inferi della schiavitù sessuale, imposta soprattutto alle anonime prostitute immigrate dall’est, e del femminicidio seriale praticato da maniaci allievi del nazismo svedese d’anteguerra.
Un sottosuolo che il seguito della trilogia esplora nelle sue ramificazioni nascoste, dentro le viscere di una Svezia dall’apparenza ingannevolmente prospera, in realtà incrinata nelle sue certezze socialdemocratiche dopo l’oscuro omicidio del premier Olof Palme. Nuove povertà, immigrazione e, per converso, reati finanziari e corruzione, razzismo e neonazismo, criminalità diffusa e intrigo politico sono la materia dei romanzi di Larsson; i quali rivendicano d’altra parte la funzione critica del giornalismo d’inchiesta, delle piccole riviste indipendenti come «Millennium», che assomiglia moltissimo a «Expo» così come il giornalista Mikael Blonqvist legato a Lisbeth da una travagliata collaborazione è in qualche modo un alter ego di Stieg Larsson.
Marxista eterodosso, critico letterario, appassionato di fiction popolare (dal poliziesco al fumetto, dalla fantascienza a Pippi Calzelunghe, della quale l’eroina di Millennium è nelle intenzioni dell’autore una sorta di replica cresciuta e aggiornata), Larsson è arrivato alla sua grande invenzione romanzesca dopo una ventennale esperienza di giornalista militante. Le inchieste da lui condotte sui collegamenti internazionali e sulle implicazioni terroristiche dell’estrema destra neonazista hanno indotto il ministero della Giustizia svedese ad avvalersi della sua consulenza. Nel 1995 è stato fra i fondatori di «Expo», trimestrale dichiaratamente impegnato contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza. Ha scritto una quantità ingente di articoli e interventi per denunciare l’omofobia, la violenza sulle donne, il ritorno dell’antisemitismo, il revisionismo storico, l’insorgere della islamofobia, analizzando inoltre le proiezioni politiche e istituzionali della nuova destra populista nel contesto svedese. Piccola parte di questa produzione è accessibile in Italia grazie al volume La voce e la furia, pubblicato nel 2012 da Marsilio, l’editore italiano di Larsson. Vi si legge fra l’altro un passo premonitore del 1999: «Le autorità hanno la tendenza a liquidare i terroristi di estrema destra come “pazzi solitari”. […] Sembra esserci una resistenza intrinseca all’idea che i neonazisti parlino sul serio quando minacciano di distruggere la società democratica. La spiegazione è semplice: un “pazzo solitario” è meno preoccupante e più facile da spiegare dell’ipotesi che i neonazisti si dedichino al terrorismo organizzato internazionale». Anders Breivik, lo stragista di Oslo del 2011, prima di uccidere 77 persone fra cui 69 giovani del partito laburista, aveva espresso nel suo sito web opinioni largamente condivise da vari esponenti e gruppi politici in ogni parte di Europa, inclusa l’Italia. Un personaggio che ha concepito l’eccidio nell’ombra di un delirio assolutamente reale. Lo stesso  indagato da Stieg Larsson.

Pasquale Martino 

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 4 novembre 2014

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