Aristotele

La nascita della tragedia

Dalla Poetica di Aristotele, 1447a-1449a, traduzione inedita di Pasquale Martino



Introduzione

1447a     L’arte poetica in se stessa, i generi in cui si esplica, la proprietà di ciascuno di questi; e inoltre, come si debbano comporre le storie se si vuole che la creazione poetica abbia buona riuscita; e ancora, quali e quante siano le sue parti e, allo stesso modo, gli ulteriori argomenti  che concernono la trattazione al riguardo: questa è la materia del nostro discorso, e incominceremo com’è naturale dai primi elementi.


La poesia come imitazione

L’epica, la tragedia, la commedia, come anche la poesia ditirambica e la maggior parte della poesia auletica e citaristica, sono in generale forme di imitazione. Differiscono fra loro sotto tre aspetti:  i mezzi con cui imitano; gli oggetti dell’imitazione; i modi diversi con cui procedono nell’imitare. Come alcuni artisti imitano una pluralità di oggetti mediante i colori e le figure, seguendo principi tecnici o in modo empirico, e altri artisti lo fanno mediante la voce, così avviene anche per le arti sopra citate. I mezzi con cui  perseguono l’imitazione sono: il ritmo, la parola, l’armonia; elementi che vengono usati separatamente oppure mescolati. Per esempio, l’auletica e la citaristica adoperano soltanto il ritmo e l’armonia, e così anche altre arti che hanno la medesima proprietà, come l’arte della zampogna. La danza invece si avvale del ritmo senza l’armonia; i danzatori infatti attraverso una gestualità ritmica mimano caratteri, passioni e azioni.  
1447b   Le arti che si avvalgono della sola parola, in prosa o in versi – e questi, in metro unico o misto – sono rimaste finora senza nome. E davvero non sapremmo quale nome comune dare ai mimi di Sofrone e Senarco e ai dialoghi Socratici, neppure se l’imitazione fosse stata effettuata in trimetri o in versi elegiaci o in qualche altro metro consimile. Nondimeno, la gente associa il poetare con l’uso dei versi, e in tal modo dà il nome di poeti elegiaci o poeti epici non soltanto a chi pratica l’imitazione, ma, senza distinzioni, a tutti coloro che compongono in versi. Si è soliti chiamare così chi compone in versi un’opera di medicina o di scienza naturale. Ma fra Omero ed Empedocle non c’è niente in comune, se non la composizione in versi; per cui sarebbe giusto definire il primo come poeta, il secondo non come poeta, ma piuttosto come scrittore scientifico. Allo stesso modo, se qualcuno realizza un’opera di imitazione mettendo insieme tutti i metri, come ha fatto Cheremone componendo Il Centauro, rapsodia polimetrica, anche questo deve essere definito poeta.  Su questo argomento valga dunque questa distinzione.
Vi sono poi alcune arti che s’avvalgono di tutti gli elementi suddetti – il ritmo, la melodia, il metro – quali la poesia ditirambica e quella dei nòmi, da un lato, la tragedia e la commedia dall’altro. Differiscono nel fatto che le prime li adoperano tutti contemporaneamente, le seconde singolarmente, in parti distinte. 
Queste sono dunque le differenze fra le arti, dico, riguardo ai mezzi con cui producono l’imitazione.


Oggetto dell’imitazione

1448a Chi imita, simula l’agire di determinate persone. Queste non possono che essere nobili o ignobili, poiché i caratteri si adeguano quasi sempre a queste due sole tipologie; tutti i caratteri infatti si distinguono in base al vizio e alla virtù. I personaggi che sono prodotto dell’imitazione risulteranno migliori di noi, o peggiori di noi, o uguali a noi. Ciò avviene nella pittura: Polignoto raffigura le persone migliori rispetto alla realtà, Pausone le fa peggiori, Dionisio le ritrae come sono realmente. È chiaro perciò che anche ciascuna delle forme di imitazione di cui abbiamo parlato sopra avrà tali differenze, e sarà diversa in quanto imiterà oggetti diversi nel senso che abbiamo detto.   
Anche nella danza, nell’auletica e nella citaristica possono verificarsi tali dissomiglianze, come pure nei componimenti in prosa e nei versi non musicati: Omero, per esempio, ha rappresentato personaggi migliori della realtà; Cleofonte li ha fatti simili; Egemone di Taso, il primo autore di parodie, li ha fatti peggiori, come anche Nicocare che ha scritto la Deliade. Lo stesso dicasi per il ditirambo e per i nòmoi, dove si possono rappresentare i personaggi in vario modo come fecero Timoteo (nei Ciclopi) e Filosseno. È la stessa differenza  che c’è fra tragedia e commedia: l’intento dell’una e dell’altra è di simulare, rispettivamente, personaggi migliori e peggiori delle persone reali.   


I generi poetici

La terza differenza riguarda il modo in cui si possono imitare i singoli oggetti. Fermi restando gli stessi mezzi e gli stessi oggetti, si può imitare o in forma narrativa – parlando d’altri in maniera impersonale, come fa Omero, o parlando in prima persona senza cambiare il punto di vista – oppure in forma drammatica, quando l’imitazione è affidata totalmente a chi simula l’azione e l’esecuzione.
Questi sono i tre aspetti in cui l’imitazione presenta differenze, come abbiamo detto all’inizio: i mezzi, gli oggetti, i modi.  Ne consegue che, per esempio, Sofocle sia un imitatore simile da un lato a Omero, perché entrambi imitano persone nobili, dall’altro ad Aristofane, perché entrambi imitano persone agenti e operanti.  Di qui, secondo alcuni, la definizione di «dramma» (drama) data a queste opere: dramma è infatti «l’azione» (drân) che esse imitano. È perciò che i Dori rivendicano la primogenitura nella tragedia e nella commedia: questa seconda la reclamano i Megaresi, sia quelli della madrepatria, in quanto avrebbe avuto origine nell’epoca in cui vigeva presso di loro il regime democratico, sia quelli della Sicilia, perché il poeta Epicarmo, nato in quella regione, visse molto prima di Chionide e Magnete; la tragedia la rivendicano alcuni in Peloponneso. Tutti questi adducono prove etimologiche: è in Peloponneso – dicono – che i borghi limitrofi vengono chiamati kòmai,  mentre ad Atene si chiamano dèmoi (e ciò presupporrebbe che il nome non derivi da komàzein, «festeggiare», ma dal fatto che gli attori comici andavano in giro per kòmai, perché in città erano disprezzati); 1448 b  in Peloponneso, poi, «agire» si dice drân, mentre ad Atene si dice pràttein.
Sulle differenze nell’imitazione, quante e quali siano, valga quel che si è detto finora.


Nascita della poesia

Due sembrano essere, in generale, le cause che hanno dato origine alla poesia; ed entrambe sono di ordine naturale. L’imitare è connaturato fin dall’infanzia all’essere umano, che in ciò si distingue dagli altri viventi, in quanto è massimamente portato all’imitazione, e dall’imitare ricava i suoi primi apprendimenti. Inoltre, i prodotti dell’imitazione sono universalmente fonte di diletto. Ne abbiamo una prova pratica: vi sono realtà incresciose a vedersi; ma se si guarda la raffigurazione di quelle stesse realtà, quanto più essa è accurata, si ricava un diletto. Si pensi alle immagini di belve orripilanti, o di persone morte. La causa di ciò è il fatto che l’apprendere risulta piacevolissimo non solo ai filosofi ma ugualmente a tutti gli altri esseri umani, per quanto possano essere partecipi di tale piacere con minore intensità. Essi si dilettano vedendo le raffigurazioni perché, nel guardare, accade che imparino e pongano mente a ciascun oggetto, come quando si riconosce che «questo» è proprio «quello». E se per caso non hanno mai visto prima l’oggetto imitato, non da ciò deriverà il piacere, ma dall’esecuzione, dal colore, o da un’altra causa.
Poiché dunque l’imitare è connaturato a noi, come lo sono l’armonia e il ritmo (e i metri sono chiaramente parti del ritmo), in origine coloro che avevano maggiore predisposizione naturale fecero nascere la poesia, improvvisando e progredendo poco alla volta. La poesia si divise poi secondo i caratteri propri: gli uomini più severi incominciarono a imitare azioni nobili, compiute da personaggi di pari qualità, e gli uomini più comuni invece, azioni compiute da personaggi ordinari; e componevano invettive, come altri invece componevano inni ed encomi. Non abbiamo nessun componimento poetico di questo tipo che sia di autore precedente a Omero, sebbene sia verosimile che gli autori fossero molti; ne abbiamo a partire da Omero, per esempio il Margite che è proprio suo, e gli altri simili.
In queste opere fu introdotto il metro giambico, adatto a quel genere; ed è chiamato giambico ancor oggi, perché era questo il metro in cui si componevano canti di scherno reciproci (iambìzein). E così fra gli antichi alcuni poetavano in versi eroici, altri in versi giambici.  Quanto a Omero, non fu soltanto il massimo poeta di argomento elevato – unico per eccellenza di stile e per la  drammaticità della mimesi – ma fu anche il primo a presentare il modello della commedia, dando forma drammatica non all’invettiva ma al riso. Il Margite infatti sta alla commedia come l’Iliade e l’Odissea stanno alla tragedia.



Origine della tragedia


1449a Quando comparvero la tragedia e la commedia, coloro che si sentivano portati per l’una o per l’altra ispirazione poetica si misero a comporre opere comiche al posto dei giambi e opere tragiche al posto dei versi epici, perché questi nuovi modelli erano superiori e più apprezzati rispetto a quegli altri.   
Quanto a indagare se la tragedia si sia ormai sviluppata compiutamente in tutte le sue forme, e a valutare ciascuna di esse in se stessa e in rapporto alla rappresentazione teatrale, questa sarebbe materia di un altro discorso.
Nata dalla primitiva improvvisazione – sia essa, sia anche la commedia: l’una dai cantori dei ditirambi, l’altra dai cantori dei canti fallici che ancora oggi sono usuali in molte città – la tragedia crebbe a poco a poco a opera di autori che ne svolgevano gli elementi man mano che questi venivano alla luce. Dopo aver attraversato molti cambiamenti, la tragedia si fissò nella sua costituzione naturale quando l’ebbe raggiunta. Per primo Eschilo portò il numero degli attori da uno a due, diminuì le parti corali e dette il primato al dialogo. Sofocle portò gli attori a tre e introdusse la scenografia.
Si pensi poi all’estensione. La tragedia prese le mosse da storie brevi, e inoltre da uno stile giocoso, come mutazione del dramma satiresco, e solo dopo lungo tempo acquistò un tono serio. Il metro diventò, da tetrametro, giambico. In origine si adoperava  il tetrametro perché la composizione era satirica ed era basata soprattutto sulla danza; quando si sviluppò la recitazione verbale, la natura stessa dell’opera trovò il metro confacente: il giambo infatti è il metro più adatto alla recitazione.  Ne è prova il fatto che nella conversazione ordinaria pronunciamo molto spesso dei giambi, raramente degli esametri, e solo quando ci allontaniamo dall’intonazione colloquiale.             
C’è poi il numero degli episodi. E vi sono altri aspetti che si narra abbiano via via apportato ciascuno il suo abbellimento. Ma siano come già detti: sarebbe forse troppo impegnativo trattarli uno per uno.


Testo: R. Kassel, Oxford Classical Texts.
Immagini: ritratti di Aristotele, di Raffaello (particolare de La scuola di Atene), di anonimo in un manoscritto medievale, e di F. Hayez.