Bari, Reggio Emilia, Italia.
Quando Badoglio sparò sugli antifascisti
Le Officine Reggiane a Reggio Emilia
C’è un “altro” 28 luglio accanto a quello
di Bari – quel tragico 28 luglio 1943, quando venti giovani che manifestavano
esultando per la caduta del fascismo vennero uccisi in via Niccolò dell’Arca dalla
fucileria di un reparto militare italiano. Ma in un’altra città, a Reggio
Emilia, nelle stesse ore, un altro plotone dell’esercito sparò contro gli
operai che uscivano dalle Officine Reggiane per il medesimo scopo: festeggiare
la fine della dittatura e – si sperava – della guerra. Morirono nove lavoratori
fra cui una donna incinta, Domenica Secchi. Le due città furono affratellate
nel dolore, il loro lutto segnò oscuramente quell’inizio del dopo-fascismo che
avrebbe voluto essere gioioso e benaugurante, e in cui il giubilo si trasformò subitamente
in strazio e disperazione. «A Bari e a Reggio Emilia avvengono gli episodi più
sanguinosi», scrivono Marcello Flores e Mimmo Franzinelli nella più recente
storia della Resistenza (Laterza, 2019) ricostruendo, appunto, le premesse
della futura lotta di Liberazione. Perché, in qualche modo, quegli studenti,
maestri, apprendisti di Bari – fra cui il diciottenne Graziano Fiore, figlio
del grande Tommaso – e quegli operai e operaie di Reggio Emilia furono gli
inconsapevoli protagonisti di un prologo; perché una ancor più dura e lunga
prova dovrà essere affrontata di lì a poche settimane per liberare davvero
l’Italia dal fascismo, rinato grazie ai battaglioni tedeschi. E la Resistenza
sarà fatta in massima parte da operai e operaie, apprendisti, maestri,
studenti.
Reggio Emilia e Bari, dunque; ma non solo. Fra il 26 e il 28 luglio cadono uccisi manifestanti a Roma, La Spezia, Savona, Milano, Travagliato. E a Sesto Fiorentino, Monfalcone, Genova, Canegrate, Desio, Sestri Ponente, Pozzuoli. “Piccoli eccidi” di due, tre, una persona, dei quali non c’è ancora una mappatura definitiva, un «atlante» simile a quello realizzato da Anpi e Istituto Parri per le stragi nazifasciste. Eccidi che assommano – secondo lo storico Luciano Casali, che ne ha scritto su «Patria indipendente» – a 65 morti e 269 feriti, seguiti da oltre 1.200 arresti. Secondo ricostruzioni diverse, il numero dei caduti è più alto. A puntare le armi contro i dimostranti è spesso la polizia, a volte è la milizia fascista ancora attiva, a Bari si spara anche dal balcone della federazione fascista, a Reggio Emilia sparano pure le guardie giurate della fabbrica. Ma soprattutto a far fuoco sugli antifascisti sono le Forze armate delle varie specialità, i bersaglieri a Reggio, gli alpini a Cuneo, la fanteria a Milano, gli autieri a Bari, dove partecipano alla sparatoria carabinieri e un sottufficiale di marina. «Piombo fraterno», lo definisce l’epigrafe sul monumento ai caduti del 28 luglio nel cimitero di Bari. L’esercito è pesantemente coinvolto nella repressione da Pietro Badoglio, il successore di Mussolini nominato dal re. E qui è la chiave di lettura dei giorni successivi alla deposizione del “duce”: il ferreo progetto di continuità affidato dalla monarchia a una dittatura militare, che del fascismo sopprime solo alcune espressioni ufficiali (il partito fascista viene sciolto) ma conserva – oltre alla guerra e all’alleanza coi nazisti – l’apparato statale, la milizia, quasi tutte le leggi comprese quelle razziali e per giorni e settimane non libera i prigionieri politici e nemmeno gli ebrei. È ancora negata la libertà politica, sindacale, di stampa, la nascita della democrazia è vista come il nemico, più che gli Alleati, molto più che i tedeschi.
Simbolo della continuità di regime è il
generale Mario Roatta, capo di stato maggiore prima e dopo il 25 luglio, già alla
guida dei servizi segreti che hanno assassinato i fratelli Rosselli, distintosi
per spietatezza nelle guerre fasciste in Spagna e in Iugoslavia; con Badoglio,
è il massimo responsabile dei massacri di fine luglio, scientemente
predeterminati dalla circolare che, emanata la sera del 26 luglio quando il
capo del governo si spaventa per l’estendersi delle manifestazioni popolari, impone
ai militari di aprire il fuoco contro i dimostranti senza preavviso per «colpire
come in combattimento». Soltanto a Spilamberto e a Reggio Emilia i soldati
sparano in aria, contravvenendo agli ordini; a Reggio però l’ufficiale
imbraccia l’arma personalmente, fa fuoco e comanda una seconda scarica, che
stavolta falcia gli operai.
La “riconciliazione”, se così si può
dire, fra soldati e popolo avverrà l’8 settembre, senza e contro gli ordini
degli alti comandi: a Bari, nella difesa del porto dall’attacco tedesco;
nell’Italia del Nord, quando nello sbandamento di un esercito senza più
gerarchie migliaia di “figli di mamma” saranno protetti dalle famiglie
contadine. Sarà l’alba di un’altra Italia, di cui il sacrificio del 28 luglio
era stato il presagio.
Pasquale Martino
Questo articolo è stato in parte pubblicato ne «La Gazzetta del Mezzogiorno», pagina di cultura, 28 luglio 2021