mercoledì 28 luglio 2021

Il tragico 28 luglio italiano del 1943

 Bari, Reggio Emilia, Italia. 

Quando Badoglio sparò sugli antifascisti 


    Le Officine Reggiane a Reggio Emilia

C’è un “altro” 28 luglio accanto a quello di Bari – quel tragico 28 luglio 1943, quando venti giovani che manifestavano esultando per la caduta del fascismo vennero uccisi in via Niccolò dell’Arca dalla fucileria di un reparto militare italiano. Ma in un’altra città, a Reggio Emilia, nelle stesse ore, un altro plotone dell’esercito sparò contro gli operai che uscivano dalle Officine Reggiane per il medesimo scopo: festeggiare la fine della dittatura e – si sperava – della guerra. Morirono nove lavoratori fra cui una donna incinta, Domenica Secchi. Le due città furono affratellate nel dolore, il loro lutto segnò oscuramente quell’inizio del dopo-fascismo che avrebbe voluto essere gioioso e benaugurante, e in cui il giubilo si trasformò subitamente in strazio e disperazione. «A Bari e a Reggio Emilia avvengono gli episodi più sanguinosi», scrivono Marcello Flores e Mimmo Franzinelli nella più recente storia della Resistenza (Laterza, 2019) ricostruendo, appunto, le premesse della futura lotta di Liberazione. Perché, in qualche modo, quegli studenti, maestri, apprendisti di Bari – fra cui il diciottenne Graziano Fiore, figlio del grande Tommaso – e quegli operai e operaie di Reggio Emilia furono gli inconsapevoli protagonisti di un prologo; perché una ancor più dura e lunga prova dovrà essere affrontata di lì a poche settimane per liberare davvero l’Italia dal fascismo, rinato grazie ai battaglioni tedeschi. E la Resistenza sarà fatta in massima parte da operai e operaie, apprendisti, maestri, studenti.


Reggio Emilia e Bari, dunque; ma non solo. Fra il 26 e il 28 luglio cadono uccisi  manifestanti a Roma, La Spezia, Savona, Milano, Travagliato. E a Sesto Fiorentino, Monfalcone, Genova, Canegrate, Desio, Sestri Ponente, Pozzuoli. “Piccoli eccidi” di due, tre, una persona, dei quali non c’è ancora una mappatura definitiva, un «atlante» simile a quello realizzato da Anpi e Istituto Parri per le stragi nazifasciste. Eccidi che assommano – secondo lo storico Luciano Casali, che ne ha scritto su «Patria indipendente» – a 65 morti e 269 feriti, seguiti da oltre 1.200 arresti. Secondo ricostruzioni diverse, il numero dei caduti è più alto. A puntare le armi contro i dimostranti è spesso la polizia, a volte è la milizia fascista ancora attiva, a Bari si spara anche dal balcone della federazione fascista, a Reggio Emilia sparano pure le guardie giurate della fabbrica. Ma soprattutto a far fuoco sugli antifascisti sono le Forze armate delle varie specialità, i bersaglieri a Reggio, gli alpini a Cuneo, la fanteria a Milano, gli autieri a Bari, dove partecipano alla sparatoria carabinieri e un sottufficiale di marina. «Piombo fraterno», lo definisce l’epigrafe sul monumento ai caduti del 28 luglio nel cimitero di Bari. L’esercito è pesantemente coinvolto nella repressione da Pietro Badoglio, il successore di Mussolini nominato dal re. E qui è la chiave di lettura dei giorni successivi alla deposizione del “duce”: il ferreo progetto di continuità affidato dalla monarchia a una dittatura militare, che del fascismo sopprime solo alcune espressioni ufficiali (il partito fascista viene sciolto) ma conserva – oltre alla guerra e all’alleanza coi nazisti – l’apparato statale, la milizia, quasi tutte le leggi comprese quelle razziali e per giorni e settimane non libera i prigionieri politici e nemmeno gli ebrei. È ancora negata la libertà politica, sindacale, di stampa, la nascita della democrazia è vista come il nemico, più che gli Alleati, molto più che i tedeschi.

Simbolo della continuità di regime è il generale Mario Roatta, capo di stato maggiore prima e dopo il 25 luglio, già alla guida dei servizi segreti che hanno assassinato i fratelli Rosselli, distintosi per spietatezza nelle guerre fasciste in Spagna e in Iugoslavia; con Badoglio, è il massimo responsabile dei massacri di fine luglio, scientemente predeterminati dalla circolare che, emanata la sera del 26 luglio quando il capo del governo si spaventa per l’estendersi delle manifestazioni popolari, impone ai militari di aprire il fuoco contro i dimostranti senza preavviso per «colpire come in combattimento». Soltanto a Spilamberto e a Reggio Emilia i soldati sparano in aria, contravvenendo agli ordini; a Reggio però l’ufficiale imbraccia l’arma personalmente, fa fuoco e comanda una seconda scarica, che stavolta falcia gli operai.

La “riconciliazione”, se così si può dire, fra soldati e popolo avverrà l’8 settembre, senza e contro gli ordini degli alti comandi: a Bari, nella difesa del porto dall’attacco tedesco; nell’Italia del Nord, quando nello sbandamento di un esercito senza più gerarchie migliaia di “figli di mamma” saranno protetti dalle famiglie contadine. Sarà l’alba di un’altra Italia, di cui il sacrificio del 28 luglio era stato il presagio.

Pasquale Martino 

Questo articolo è stato in parte pubblicato ne «La Gazzetta del Mezzogiorno», pagina di cultura, 28 luglio 2021