giovedì 15 ottobre 2020

Processi per ricostituzione del partito fascista

 Una norma costituzionale da osservare e applicare

    




Il processo per ricostituzione del partito fascista, intentato dal procuratore aggiunto Roberto Rossi ad esponenti di CasaPound a Bari, ha rari precedenti. Il suo fondamento è nelle «disposizioni transitorie e finali» della Costituzione italiana, articolo XII: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Disposizione da intendersi non già come «transitoria», bensì come «finale» (ordinanza 325 della Corte costituzionale, 1988). Durante i lavori della Costituente era stato Palmiro Togliatti a proporre che il divieto fosse collocato in sede separata, per non diminuire la solennità dell’art. 49, che sancisce la libertà di associarsi in partiti. Nel dibattito della commissione preparatoria l’interpretazione più esplicita e netta era venuta da Lelio Basso: «Si sappia che tutto ciò che è stato fascista è condannato. Bisogna fare in modo che il popolo abbia la sensazione precisa che la Repubblica segna una data nuova nella storia d'Italia». 

     La legge attuativa arriva nel 1952 sotto il nome del ministro dell’Interno Mario Scelba. La maggioranza centrista guidata dalla Democrazia cristiana ha come principale avversaria l’opposizione di sinistra, ma vuol coprirsi le spalle a destra dove il partito fascista ricostituito esiste già da anni: il Movimento sociale italiano è composto da reduci della repubblica di Salò e non nasconde né i richiami, né i programmi, né la simbologia del fascismo. La legge Scelba intende “tenere a bada” il Msi configurando in maniera articolata il reato di ricostituzione del partito fascista (comprendente l’uso e l’esaltazione della violenza, la denigrazione della Resistenza, il razzismo, l’apologia e le manifestazioni esteriori di carattere fascista). In realtà il Msi, pur controllato a distanza, resta una riserva del centrismo tanto da essere chiamato nel 1960 ad appoggiare l’effimero governo Tambroni. 

     La questione si pone drammaticamente negli anni ’70, al tempo della strategia della tensione. Nel 1973 incomincia a emergere chiaramente il ruolo che in quella escalation di stragi sta svolgendo il movimento neofascista extraparlamentare Ordine Nuovo, in un rapporto ambiguo da un lato col Msi, dall’altro con i servizi segreti italiani e con alcuni settori dei partiti di maggioranza. Trenta dirigenti di Ordine Nuovo vengono condannati per violazione della legge Scelba; subito dopo, il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani decreta lo scioglimento di quel gruppo per ricostituzione del partito fascista. Taviani – ex partigiano, spesso però criticato per aver autorizzato la mano dura della polizia contro manifestanti di sinistra – provava così, con un decisione non priva di coraggio, a mettere al riparo il governo e la Dc dalle accuse di connivenza con gli stragisti che venivano rilanciate da Pasolini sulle colonne del «Corriere della Sera». In quegli anni è invocato da più parti anche lo scioglimento del Msi: lo chiede, nel 1977, un gruppo di personalità fra cui Umberto Terracini, già presidente dell’Assemblea costituente, dopo l’assassinio del giovane antifascista barese Benedetto Petrone, quando la magistratura chiude per qualche tempo la sede del Msi di Bari dove è stata rinvenuta l’arma del delitto. Proprio a Bari si tiene un anno dopo un altro processo per ricostituzione del partito fascista, imputazione formulata dal sostituto procuratore Nicola Magrone contro esponenti della sezione Passaquindici del Msi, autori di aggressioni sistematiche. Gli imputati vengono assolti per il reato più grave, ma condannati a pene miti per «attività fasciste».

     Nei decenni successivi l’accusa – rafforzata dalla legge Mancino del 1993 – è mossa ulteriormente contro altri soggetti, come il movimento Fascismo e Libertà di Giorgio Pisanò; la risposta difensiva si trincera dietro il “reato di opinione”. Ma il crinale fra opinione, propaganda e incitamento a mettere in atto quanto propagandato è assai sottile. Il neofascismo e il neonazismo sono diffusi in Europa – come denunciato da una risoluzione del parlamento europeo del 2018 – e negli Usa, e fungono oggi da ala estrema dell’odio nazional-populista che si nutre di demagogia contro migranti e profughi. In Grecia il movimento neonazista Alba Dorata è stato condannato pochi giorni fa in quanto «organizzazione criminale» responsabile di un omicidio, due tentati omicidi e una serie infinita di violenze.

     In Italia, CasaPound nasce circa a metà anni ’90; si fa conoscere per le violenze commesse in varie città – fra cui l’eccidio di due senegalesi a Firenze nel 2011 – , per le prolungate occupazioni di immobili pubblici ingiustificatamente tollerate, nonché per qualche amicizia politica di troppo. Fino a poco tempo fa nel proprio sito web ha dichiarato matrici ideali che includono Gentile, Mussolini e perfino il fanatico repubblichino Pavolini, capo delle brigate nere; nomi che compaiono anche nel programma elettorale del 2013, depositato al ministero dell’Interno. Oggi, nel sito web si leggono frasi come questa: «la forza quando scaturita da un ordine verticale e da un principio gerarchico è destinata a dominare le barbarie, anche se in numero inferiore»; e si insiste, inoltre, sul «ritorno» della nazione a un’epoca mitizzata ed esaltata: «Per la sua storia e per il suo destino, l’Italia deve tornare a esercitare una funzione avanguardista nel mondo, tornare ad essere faro di civiltà, esempio». Il lessico e i concetti rimandano alla presunta gloria dell’impero mussoliniano. La magistratura giudicherà sui fatti accaduti a Bari nel 2018 e sui reati ascritti a CasaPound. Da parte nostra, dovremmo cogliere l’occasione per comprendere il fenomeno e affinare le armi della critica contro i fascismi che in forme molteplici si ripresentano.

 Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 15 ottobre 2020