venerdì 29 luglio 2016

Bari 28 luglio 1943

Cold case. 
73 anni, una strage e cinque domande


Pietra d'inciampo per Graziano Fiore. Andava con gli altri
manifestanti verso il carcere, per accogliere il padre,
il grande intellettuale liberal socialista Tommaso Fiore,
che sarebbe stato liberato quel giorno.
  
Il 28 luglio 1943 un corteo attraversava Bari festeggiando la fine del regime mussoliniano e dirigendosi verso il carcere dove sarebbero stati liberati i prigionieri antifascisti. Il nuovo governo Badoglio vietava le manifestazioni, una circolare del capo di stato maggiore Roatta ordinava all’esercito di sparare contro i dimostranti senza preavviso «come contro truppe nemiche». In via Niccolò dell’Arca, sotto la sede della federazione del PNF, i manifestanti – insegnanti, studenti, apprendisti per lo più giovanissimi – trovarono la strada sbarrata da un reparto di soldati che aprì il fuoco uccidendo 20 dimostranti e ferendone 36. Sono i numeri accertati di un bilancio che in realtà fu ancora più pesante.
Si trattò del più grave fra gli eccidi compiuti in Italia nei giorni successivi alla caduta del duce.
E fu il più sanguinoso eccidio politico della storia contemporanea a Bari.

Nonostante ciò, tenerne viva la memoria è sempre stata un’impresa problematica. Come se questa fosse un’appartenenza esclusiva di piccole minoranze, o perfino di una fazione. Nei primi decenni il ricordo del 28 luglio rimase affidato in particolare all’Anppia*, poi, dopo l’esaurimento dell’associazione dei perseguitati antifascisti, il testimone è stato preso in consegna dall’Anpi, con l’ausilio scientifico dell’Ipsaic, cui si sono unite via via la Camera del Lavoro Cgil e l’Arci. 
È ormai uso che il Comune commemori annualmente l’evento con una cerimonia pubblica; Bari ha ricevuto la medaglia d’oro per i fatti del ’43; nei pressi del luogo del massacro sono state installate venti “pietre d’inciampo” con i nomi dei caduti.
I fatti sono stati raccontati e studiati più volte; la personalità delle vittime, dei feriti, dei loro compagni, è stata giustamente ricostruita nel contesto dell’opposizione antifascista cresciuta a Bari e in Puglia durante la dittatura. Vi sono testimoni viventi – fra gli altri Umberto Cassano, Paolo Laterza e Pasquale Mininni – cui è stato dato spazio nel racconto pubblico. Può sembrare dunque che tutto si sappia sul tragico evento.
Invece rimangono cinque domande fondamentali.  

Monumento ai caduti del 28.7.1943
in Piazza Umberto I
La prima. Molte testimonianze messe a verbale e gli stessi rapporti dei carabinieri affermano che ignoti civili spararono sui manifestanti dalla sede della federazione del PNF. Perché nessuna procura, né règia, né repubblicana, né militare, li ha mai cercati? Non sono noti finora documenti che attestino tali ricerche o il motivo per cui vennero omesse.
La seconda. Le autorità militari spiegarono così la dinamica dei fatti: una scarica di fucileria partì per sbaglio da un plotone di 24 soldati, senza ordine di aprire il fuoco, per trascinamento dello sparo effettuato da un sergente di marina non in servizio (ambiguamente collocato fra manifestanti e militari). La domanda è: una scarica casuale di 24 fucili può provocare venti morti e una cinquantina di feriti? O non è necessario per ottenere tante vittime che vi siano ripetute e successive scariche o raffiche, che quindi escludono lo sbaglio e implicano la intenzionalità? Si è mai pensato di svolgere studi comparativi con altre stragi avvenute nel mondo in circostanze simili?
Terza domanda. Perché di quelli spari micidiali nessuno è stato chiamato a rispondere? Non lo furono né il sergente di marina (che pure, si disse, aveva dato il via alla sparatoria), né il tenente che comandava il reparto, né i singoli soldati che, secondo la ricostruzione ufficiale, avevano aperto il fuoco senza ordini, né i carabinieri che pare si siano uniti agli sparatori, né alcuna autorità superiore. 
Quarta domanda, conseguente. Se nessuno fu colpevole per avere sparato, la responsabilità sarebbe dovuta ricadere sui manifestanti che con la loro insubordinazione avevano causato la strage. Perché allora furono anch’essi prosciolti dalla procura militare? Insomma, erano colpevoli di aver contravvenuto a un ordine, e quindi responsabili di essere stati presi a fucilate, o erano innocenti, e quindi quelli che li fucilarono commisero un crimine?
Infine. Perché un plotone del regio esercito fu messo a presidiare la federazione del PNF? Se le manifestazioni erano rigorosamente proibite, come da ordini del governo e dei vertici militari, perché quella manifestazione non fu impedita al suo nascere? Perché non fu sciolta un’ora prima davanti alla sede del Corpo d’Armata, dove i manifestanti poterono liberamente fare irruzione in una sezione rionale del PNF, situata di fronte?

Clamorose contraddizioni, che vennero archiviate. Le domande sono tuttora senza risposta.

Monumento ai caduti del 28.7.1943
Cimitero di Bari
L’iscrizione sul monumento memoriale nel cimitero cittadino afferma che le vittime caddero sotto «piombo fraterno». Una sentenza surreale, forse la più icastica spiegazione del silenzio: la santificazione istituzionale ha celato per molti anni un sostanziale consenso all’oblio. Ma non può esserci pacificazione senza verità e giustizia.
L’unica “memoria condivisa” riconduceva insomma all’idea del tragico errore, finendo perfino col negare ai caduti lo statuto di vittime antifasciste. Esse però, se non furono vittime del fascismo di governo, lo furono certamente del fascismo sopravvivente nella continuità del regime monarchico-dittatoriale; e furono vittime forse anche di un’attiva complicità – su cui si è voluto stendere il velo – fra vertici del partito fascista spodestato e autorità monarchiche in loco. L’equivoco sulla presunta natura non-fascista dell’eccidio ha fatto sentire una tarda eco nella gaffe della Presidenza della Repubblica, la cui prima stesura delle motivazioni per la medaglia d’oro alla città di Bari ometteva il riferimento alla strage del 28 luglio**; medaglia – si badi - al merito civile e non militare (ma in ciò hanno pesato probabilmente anche altre considerazioni, relative alla battaglia del 9 settembre al porto, di cui non possiamo qui occuparci).   
In realtà l’eccidio del 28 luglio è ancora in massima parte da studiare e da indagare, nella sua dinamica e nelle specifiche responsabilità, ma soprattutto è da investigare il ruolo di quanti contribuirono in vario modo a mettere la sordina a un caso di tale enormità.

Torniamo ai monumenti e alle epigrafi. È difficile monumentalizzare la verità; tuttavia la lapide in piazza Umberto e specialmente le pietre d’inciampo sono state un passo in avanti.
Resta l’amara e involontaria ironia degli squilli di una tromba militare che commemorano le vittime civili di un eccidio compiuto dall’esercito italiano, che non ha mai ammesso la propria responsabilità.

Resta una grande indagine incompiuta: una sfida ardua e ineludibile. Un dovere morale per una giovane generazione di storici. 

Pasquale Martino
28 luglio 2016

La prima epigrafe commemorativa fu apposta sul muro del palazzo della ex federazione fascista, nel tratto di strada dove avvenne la strage. La lapide andò perduta quando l’edificio venne demolito per fare posto all’attuale sede del Monte dei Paschi di Siena, né fu mai ricollocata.

** Si legga qui la prima stesura delle motivazioni, come riportata dalla stampa il 14 settembre 2006, il giorno dopo la cerimonia di conferimento (durante la quale i familiari dei caduti del 28 luglio protestarono pubblicamente), e qui invece la stesura definitiva e ufficiale del 2007, riportata nel sito della Presidenza della Repubblica.  

sabato 9 luglio 2016

Ratline nel porto barese

Criminali nazisti.
La via di fuga che passava per Bari

L'imboccatura del porto di Bari, veduta serale
Per due anni dopo la Seconda guerra mondiale, nel ’45-47, Il porto di Bari fu uno snodo cruciale nella fuga dei criminali nazisti dall’Europa. Ad affermarlo autorevolmente è Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, nel suo libro più noto, Gli assassini sono fra noi (1967). In proposito, l’uomo che fece catturare Adolf Eichmann è estremamente preciso: esisteva una linea di fuga principale, denominata in codice «asseB-B, Brema-Bari», che raccoglieva i fuggiaschi dalle varie città tedesche e li convogliava verso Memmingen in Baviera; da qui la «linea dei ratti» (Rattenlinie in tedesco, Ratline in inglese, così definita dagli anglo-americani) si volgeva a Innsbruck in Austria, quindi penetrava in Italia attraverso il Brennero, percorrendo infine la costa adriatica sino a Bari. Una variante – si apprende da altra fonte – era il passaggio attraverso il Territorio Libero di Trieste, allora controllato dagli Alleati, con prosecuzione verso il capoluogo pugliese. 
Per quanto riportata in un testo di quasi mezzo secolo fa, questa notizia non è mai stata ripresa né ha dato spunto a ricerche storiche specifiche, tanto meno nella città direttamente coinvolta. Vero è che verso la fine degli anni ’40 e nei primi ’50 l’asse B-B era in disuso: le partenze dei gerarchi in incognito avvenivano soprattutto da Genova. Si era ormai strutturata la cosiddetta «Odessa», l’organizzazione clandestina di protezione delle ex SS, resa celebre da un romanzo di Frederick Forsyth (cui Wiesenthal fece da consulente). Da Genova si levava l’ancora verso il Sud America, dove specialmente l’Argentina peronista dava ospitalità ai rifugiati del Terzo Reich. Gli studi sulle Ratlines prendono in esame per lo più il porto ligure oltre che la rete di appoggi supportata dal Vaticano e da varie strutture conventuali. Lo stesso centro di documentazione di Vienna, possessore dell’archivio di Wiesenthal – ci scrive Michaela Vocelka che lo dirige e alla quale ci siamo rivolti – contiene «alcuni materiali sulla via di fuga nazista e sulle Ratlines, ma nessun documento su Bari».
Simon Wiesenthal
Ma i riscontri ci sono, e sembrano pervenire dagli ambienti dei servizi segreti anglo-americani. Il volume di David Talbot su Allen Dulles e sulla nascita della Cia, The Devil’s Chessboard («La scacchiera del diavolo», New York, 2015), racconta le attenzioni riservate ai pezzi grossi delle SS da parte del capo dell’Oss (Office of Strategic Services) in Europa e negoziatore della resa germanica in Italia. Dulles era lungimirante: tornava utile arruolare i nazisti sconfitti, per la nuova guerra che si andava profilando contro l’Unione sovietica. Un simile calcolo ispirava il Vaticano o quanto meno importanti settori ecclesiastici, che non dimenticavano il nemico di sempre, la Russia atea. Del resto nell’anno convulso seguito al maggio ’45 il Vecchio Continente era un immenso campo profughi di tutte le nazionalità: c’erano molti ex prigionieri di guerra tedeschi, e molte SS che era praticamente impossibile trattenere in detenzione; il dileguamento era facile se si godeva di appoggi efficaci. Fra i criminali cui fu riservato dai servizi americani un trattamento di favore vi fu Walter Rauff, tenente colonnello delle SS in Italia, che partì da Bari per Alessandria in Egitto; lo afferma Talbot, comprovando così che Bari era il porto privilegiato per il Vicino e Medio Oriente. 
Rauff visse in Siria e in Libano, ma operò anche per i servizi segreti israeliani – lo rivelò nel 2007 il quotidiano israeliano «Haaretz» basandosi su fonti Cia – e si guadagnò il viaggio verso il Cile dove concluse la sua carriera come consigliere della Dina, la polizia politica del dittatore Pinochet. Clamorosa poi (ma priva di controprove) è la testimonianza di Ian Bell, agente inglese – la si può ascoltare anche su Youtube – che afferma di aver rintracciato a Bari nientemeno che Martin Bormann, il braccio destro del Führer, e di averlo visto salire su una nave senza poter intervenire, a causa di ordini superiori. Ma la sparizione di Bormann fa parte della mitologia del post-nazismo, che si nutre di supposizioni suggestive. Fiction dichiarata è il romanzo Eva (1984) di Ib Melchior, scrittore danese-statunitense, che immagina il salvataggio di Eva Braun, consorte di Hitler, incinta, lungo l'asse B-B fino al porto pugliese. Melchior è stato un membro dell'Oss e del Cic (Counter Intelligence Corps) e sulle vie di fuga dei nazisti mostra di saperne parecchio. 
Walter Rauff
Un tassello importantissimo e inesplorato si congiunge, dunque, al mosaico della Bari di quegli anni: città internazionale dove vivono e agiscono inglesi, americani, neozelandesi, iugoslavi, polacchi, oltre agli immigrati dalle colonie; dove sorge un campo profughi per gli ebrei, che vengono dall'Europa sconvolta nella speranza di partire per la Terra promessa. È l'amara ironia della Storia: dallo stesso porto (con le stesse navi?) salpano le vittime e i carnefici. Toccata non di rado dalla Grande Storia, Bari è spesso smemorata, incuriosa del proprio passato, o incline a leggerlo in chiave celebrativa e acritica. Ma questa è un'indagine doverosa, da farsi: come e grazie a chi funzionava il terminale della Ratline in Puglia? Occorrerebbe cercare negli archivi vaticani, suggerisce Enzo Collotti, con il quale abbiamo avuto la possibilità di confrontarci. e innanzitutto  aggiunge il grande studioso della Germania nazista e dei suoi rapporti con l'Italia  si dovrebbe passare al setaccio la letteratura su Odessa e le vie di fuga. Da parte nostra, sappiamo che alcuni ricercatori indipendenti e part time della "diaspora barese" sono già all'opera in Germania. E siamo convinti che tracce di questo traffico giacciano anche in fondo a qualche polveroso archivio locale. Questa ricerca è appena all'inizio. 


Pasquale Martino  
 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 luglio 2016