venerdì 7 dicembre 2018

Benedetto Petrone, una storia italiana


Qualche messa a punto quaranta anni dopo il delitto

 
Gigantografia di Benedetto Petrone, muro esterno della ex Caserma Rossani occupata
(si ringrazia Kasamatta disobbediente per la fotografia)  

Nota (dicembre 2017). Ho fatto leggere questo testo ad alcuni amici e compagni che conoscono bene le vicende raccontate. Mi hanno dato suggerimenti dei quali li ringrazio. 
     Com’è ovvio, la responsabilità di quanto affermato è solo mia.

Nota (dicembre 2018). Questa comunicazione è stata presentata durante il seminario di studi Benedetto Petrone. Gli anni ’70 e la città di Bari, promosso dal Comune di Bari, Assessorato alle Culture, organizzato da Fondazione Gramsci di Puglia e IPSAIC e tenutosi a Bari il 28 novembre 2017, nel quarantennale, presso il Palazzo ex Poste.  La stesura è stata approntata subito dopo ed è apparsa nel volume degli atti da poco pubblicato (Edizioni dal Sud, Bari, 2018).
     Fra gli amici e compagni che l’hanno letta in anteprima esprimendo il loro parere c’era il compianto Raffaele Licinio. È stato il mio ultimo contatto con lui: egli ci ha lasciati dopo un mese.
     Perciò questo resoconto sia ora dedicato alla sua memoria.


È motivo di soddisfazione poter ragionare all’interno della traccia delineata da Peppino Cotturri. Essa ci invita – in armonia con l’impostazione stessa del convegno – a intendere correttamente i giorni di Benedetto Petrone nella complessità di un contesto storico nazionale. Possiamo riaffermare con argomenti condivisi ciò che abbiamo sempre ritenuto a dispetto di ogni tentazione riduzionista: che non si tratta di una pagina di “storia locale”. Il significato di quell’episodio non può essere riassorbito nella spiegazione rassicurante di una anomalia fortuita esplosa dentro una dinamica cittadina e provinciale, quale repentina frattura di un equilibrio poi fortunatamente ricomposto. È la vicenda di un delitto politico che accade nel 1977, anno cruciale della storia italiana, quando muoiono di morte violenta nel Paese quattro giovani di sinistra in circostanze diverse di cui va però indagata la disposizione in un quadro di insieme, unitario. Il filo conduttore apparve chiaro, allora, alle forze democratiche del Paese, che risposero alla morte di Petrone con manifestazioni di protesta in tutte le principali città, mentre un insieme variegato di personalità della cultura e della Resistenza (da Bobbio a Lombardi, da Foa a Terracini) rivolse al parlamento un appello per lo scioglimento del MSI, manifestando orrore per il «barbaro assassinio del giovane militante comunista Benedetto Petrone», che si univa alla «schiera dei giovani militanti di tutti gli schieramenti della sinistra» vittime della violenza neofascista.  
     La situazione politica segna in quel momento il precipitare degli anni ’70 verso una svolta e una conclusione: la stagione delle amplissime lotte sociali, la tensione accumulata in un decennio, il processo di cambiamento e il conflitto politico sembrano approssimarsi rapidamente a uno sbocco e a un punto risolutivo. Il PCI è sulla soglia del governo, come mai è stato nel trentennio dopo il ’47: pericolosamente vicino alla stanza dei bottoni, dal punto di vista delle forze conservatrici che in tutti quegli anni si sono adoperate sia per scongiurare questo esito deprecato sia per frenare l’avanzamento della società; vicino, ma fuori dell’esecutivo, in condizioni tali da non potere incidere a fondo, ingabbiato nella posizione di “non sfiducia”, bersaglio di un tiro incrociato da più direzioni. L’ostilità del “movimento del ’77” nei confronti di un PCI la cui manovra di accostamento al governo è interpretata come normalizzazione repressiva, è una leva che può essere utilizzata da chiunque lavori per divaricare ulteriormente le posizioni, per acuire il contrasto fra il movimento di massa nelle sue varie forme e quella che resta la massima espressione della sinistra politica, indebolendo così entrambi e spingendoli verso la sconfitta.
     
2 dicembre 1977: Benedetto Petrone è ricordato nella manifestazione
nazionale del metalmeccanici a Roma.
 La violenza è l’arma utilizzata per far saltare o deviare i processi politici: e non si tratta soltanto della strategia occulta, dello stragismo nero e del terrorismo nero o rosso, che vanno sviluppando ognuno per proprio conto i loro disegni sanguinosi e destabilizzanti; c’è una escalation della violenza politica diffusa, nelle manifestazioni di piazza e nello scontro di strada. Si registra nel ’77 una rinnovata propensione delle forze di polizia all’uso delle armi da fuoco in servizio di ordine pubblico: colpiti da pallottole di carabinieri o di agenti di polizia in borghese, cadono due giovani, Francesco Lorusso a Bologna e Giorgiana Masi a Roma. Anche nella manifestazione del 29 novembre a Bari, il giorno dopo il delitto, furono esplosi colpi d’arma da fuoco provenienti da reparti schierati nei pressi della sede della CISNAL che veniva assalita da un gruppo di manifestanti; sul terreno furono trovati numerosi bossoli: dalle forze dell’ordine si spiegò che si era sparato in aria, ma diversi testimoni affermarono di aver visto agenti mirare ad altezza d’uomo. In altre città alcuni gruppi del movimento, nell’area della “autonomia”, fecero la scelta aberrante di rispondere «alzando il livello dello scontro» come si usava dire, cioè prendendo l’iniziativa di sparare contro le forze dell’ordine in occasione di manifestazioni e scontri: morirono così i poliziotti Settimio Passamonti a Roma e Antonio Custra a Milano.   
     Il medesimo contesto spiega la recrudescenza dello squadrismo neofascista, peraltro sempre vivo in quegli anni. C’è una condizione politica difficile del MSI, che dal ’72 al ’76 ha perso molti consensi per la polarizzazione di voti a vantaggio della DC individuata dall’elettorato conservatore e reazionario come maggiore baluardo contro la paventata vittoria del PCI nei seggi. Il partito neofascista rilancia una sua presenza di piazza finalizzata a tenere sotto pressione le forze moderate e a giocare un ruolo negli sviluppi di una crisi di sistema. È sotto gli occhi di tutti il ricorso alla violenza da parte del MSI, del Fronte della Gioventù e di altre formazioni di estrema destra che vedono comunque nel partito erede della Repubblica sociale il loro retroterra e presidio difensivo. La corrente radicale di Pino Rauti acquista un peso determinante nel MSI e incalza la leadership non certo moderata di Giorgio Almirante. Nello squadrismo neofascista di questa fase sembra potersi leggere una strategia esplicitamente omicida: più precisamente, la scelta di una gestione di azioni violente nel territorio che contemplano la possibilità di un esito omicida. Come risultato si hanno due giovani vittime a distanza di un paio di mesi: Walter Rossi a Roma e Benedetto Petrone a Bari. La dinamica dei due fatti presenta somiglianze che non devono essere trascurate.
Manifestazione dopo l'assassinio di Walter Rossi, Roma 1977
(archivio de l'Unità)
     Entrambi i delitti maturano nel contesto di prolungate imprese squadristiche compiute da giovani del MSI per affermare il proprio controllo del territorio, per provocare e punire chi si oppone a questa pretesa. A Roma si tratta della Balduina, quartiere semicentrale che rappresenta una storica roccaforte del partito neofascista: nei giorni precedenti si verificano aggressioni e intimidazioni; una ragazza viene ferita da colpi di pistola durante una incursione dei neofascisti contro una vicina piazza che è ritrovo di giovani di sinistra. Il giorno dopo, 30 settembre, un gruppo di militanti di Lotta continua organizza un volantinaggio per le strade, spostandosi in prossimità della sezione MSI della Balduina; dai locali esce una squadra di neofascisti che assale i volantinatori: muore il ventenne Walter Rossi colpito da una pallottola. Tutto avviene sotto gli occhi della polizia che presidia la sede con una camionetta. Il resoconto di Michele Laforgia, che abbiamo appena ascoltato, dimostra che il 28 novembre pure i fascisti baresi erano armati di pistole, anche se non le usarono. La somiglianza fra le due vicende, di Roma e di Bari, appariva evidente già all’epoca e ne erano consapevoli gli stessi compagni che subirono l’aggressione: nella sua intervista poco dopo il ferimento, pubblicata dal giornale della FGCI «La Città Futura», Franco Intranò si augurava che presto fosse fatta luce sull’omicidio di Benedetto contrariamente a ciò che stava accadendo per la morte di Walter Rossi. 
     A Bari, la questione del controllo del territorio riguarda addirittura la federazione provinciale del MSI, quasi adiacente al palazzo di Città, vicinissima alla prefettura e alla questura; è il partito che ha la federazione più contigua ai centri del potere. Senza dubbio un ruolo provocatorio e intimidatorio è stato svolto per tutto il ’77 dalla sezione Passaquindici nei quartieri San Pasquale e Carrassi, dove si trovano molti istituti superiori che vedono presenze attive di giovani di sinistra. La serie impressionante di imboscate, attentati, intimidazioni compiuta dai militanti della Passaquindici sarà documentata dalla sezione Ruggero Grieco del PCI il cui segretario* rilascerà la più importante testimonianza nel processo per ricostituzione del partito fascista che si celebrerà poco dopo il delitto Petrone. Ma è decisiva soprattutto la posta in gioco nel centro della città, per il valore politico, simbolico, elettorale che esso riveste nella storia del neofascismo barese in tutto il dopoguerra. Nella tradizione e nella memoria dei neofascisti, Bari e in particolare la Bari “nuova” borghese e affaristica è un prodotto del fascismo e resta cosa sua anche dopo la fine del ventennio mussoliniano e dopo l’avvento della DC e del centro-sinistra. Via Sparano, nella parte prossima alla piazza San Ferdinando che ne è il cuore, è una zona “nera” dalla quale è pericoloso passare se si hanno sembianze “rosse”. Certo, dall’altro capo di via Sparano vi sono i giardini di piazza Umberto I, c’è l’Ateneo, territorio ostile frequentato da giovani di estrema sinistra verso il quale i fascisti si avventurano raramente. Ma il vero confronto è dato dalla presenza di Bari Vecchia dove il fascismo non ha mai potuto mettere radici, che non è mai stata fascista, e la cui antica storia popolare e proletaria sfida la centralità di Bari Nuova. La città vecchia respinse nel ’22 l’assedio fascista alla Camera del Lavoro difesa da Di Vittorio; nel ’43 ricacciò indietro i tedeschi che tentavano di occupare il porto; bacino elettorale dei partiti di sinistra, ha impedito di recente al MSI l’apertura di una sezione all’interno del quartiere. Soltanto il corso Vittorio Emanuele II divide Bari Vecchia dal centro del potere e dalla federazione del MSI. Bari Vecchia è insomma un bersaglio quasi naturale, con in sé gli elementi di una doppia memoria storica che si tramanda parallelamente da entrambe le parti assumendo – per la parte che il quartiere antico ha respinto come corpo estraneo – il valore simbolico di un nodo irrisolto e di un vecchio conto da saldare.   
     Il manipolo che quella sera si raduna nella federazione di via Piccinni per muovere verso una impresa violenta e – se le circostanze gli saranno favorevoli – sanguinosa e mortale, è un gruppo che sa di potersi avvalere di una larga rete di protezioni, simpatie e complicità. Sono giovani borghesi, della Bari bene e delle borghesia delle professioni, affiancati da sottoproletari e da veri e propri avventurieri legati a traffici illegali e ad ambienti criminali, in un caratteristico mix che ha imperversato a lungo in città, anche dopo il delitto Petrone e almeno fino all’omicidio del dj Traversa (1980). Per inciso, proprio la decentrata Passaquindici è il luogo più adatto per la verifica pratica di questi ambigui incroci, delle “doppie militanze” (MSI e Terza Posizione) e del connubio fascismo-criminalità; nel contempo, la Passaquindici è anche il serbatoio di manovalanza per le imprese che hanno obiettivi politici più alti. E quella del 28 novembre è una operazione studiata e preparata, con un obiettivo alto da conseguire nel centro della città. Quanto alla rete delle protezioni influenti, questa si manifesta chiarissima fin da subito, nella operazione riuscita – e condotta a più mani – che ha il fine di attribuire la responsabilità dell’omicidio a un personaggio marginale ed equivoco e di scagionare i ragazzi “perbene”. Perfino la mancata connessione fra due processi che dovevano essere strettamente collegati – quello per ricostituzione del partito fascista e quello per l’omicidio – appare il prodotto di un intenso lavorio di disinnesco che nasce da coperture ben accreditate ma è pure l’effetto di preoccupazioni politiche di ordine generale. E qui convergono, e si saldano nuovamente, le intenzioni del MSI, del suo notabilato “in doppiopetto” che riprende in mano la situazione dopo l’exploit dell’ala estremistica, e le intenzioni della DC che nella sua maggioranza non vuole concedere spazi significativi ad accordi col PCI.
     
1978: giovani antifascisti collocano una epigrafe sulla abitazione
di Benedetto Petrone (l'epigrafe fu in seguito rimossa)
Fra i compagni di Benny nella sezione Pappagallo del PCI di Bari Vecchia emerse anche l’ipotesi che i mandanti dell’azione omicida fossero da ravvisare negli ambienti interessati a una grande manovra speculativa e immobiliare su Bari Vecchia, e intenzionati a spaventare chi contrastava quella manovra; ambienti che poi dettero un contributo attivo all’insabbiamento del processo. Una ipotesi suggestiva che meriterebbe di essere approfondita. È certo che Benedetto si batteva per difendere Bari Vecchia, ed è certo che quella operazione di svuotamento del quartiere era in corso ed ebbe un parziale successo negli anni seguenti. Ma ciò non deve far perdere di vista la trama propriamente politica dello scontro e la sua pertinenza rispetto a un contesto più nazionale che locale; un contesto nel quale si distinguono peraltro chiaramente i collegamenti regionali. L’apice della tragica avventura neofascista ha avuto inizio con la presenza di Rauti a Lecce, che nel giugno precedente è stata occasione di scontri violenti (nei quali, pure, la polizia ha sparato contro gli antifascisti). Ancora a Lecce, il 12 novembre, un corteo non autorizzato di giovani del MSI viene tollerato dalla polizia, che alla fine arresterà due fascisti ma nel frattempo carica il corteo di protesta della estrema sinistra, sparando colpi d’arma da fuoco ed effettuando 11 arresti in questa cerchia. Il giorno dopo, il 13 novembre, a Bari, a sole due settimane dal delitto, una manifestazione già preannunciata e autorizzata, che prevede un comizio finale di Pino Romualdi, uno dei capi del MSI, viene proibita dalla questura dopo la protesta espressa in un pubblico documento firmato da numerosissime sigle antifasciste. Quel giorno i neofascisti si radunano in massa nella sede di via Piccinni, minacciando di uscire ugualmente per tenere comunque la manifestazione; ma, diversamente che a Lecce, non lo faranno. Nelle stesse ore, gli antifascisti presidiano non a caso Bari Vecchia. Queste sono le premesse di una tragica dimostrazione di forza che è ormai nell’aria.  
     E a tale proposito non è inopportuno spendere qualche parola per smontare ancora una volta la falsa storia della “guerra tra bande” (tra “opposti estremismi”, tra “fascisti e comunisti”) che si sarebbe combattuta a Bari a in quel periodo; falsa storia non innocente, che trova tuttora una tarda eco. Non c’erano “bande”: c’erano movimenti di lotta per rivendicazioni sociali e per diritti collettivi, che toccavano in molti casi un coinvolgimento di massa notevole (basti dire della innegabile partecipazione operaia, studentesca e popolare alla manifestazione del 29 novembre), e c’era di contro un uso cinico dello squadrismo di destra che vi si contrapponeva per chiudere gli spazi di agibilità politica. Il documento approvato pochi giorni prima del delitto dal consiglio comunale – col voto favorevole della DC e quello contrario del MSI – indicava nei covi fascisti la fonte della violenza che le forze dell’ordine avrebbero dovuto reprimere. C’era nei movimenti, fra i giovani di sinistra e della stessa FGCI, una comprensibile disposizione alla autodifesa, a rintuzzare a muso duro gli assalti intimidatori; una scelta difensiva, appunto, laddove la scelta vera, strategica, era il movimento rivendicativo, la lotta, la manifestazione di massa, l’assemblea, e non certo la scaramuccia con i fascisti. D’altra parte l’antifascismo era un principio profondamente sentito, che il recente Trentennale della Liberazione aveva contribuito a riscoprire e valorizzare (in quella circostanza, fra l’altro, proprio all’eroe ragazzo della difesa di Bari Vecchia, Michele Romito, il Comune aveva conferito una medaglia)**. Nella decisione di tanti giovani che rifiutavano di lasciarsi intimidire, il coraggio poteva a volte ingenerare una logica militarista (che però non fece mai presa a Bari) o poteva semplicemente sconfinare nella temerarietà: e questo avvenne forse quella terribile sera, quando la pattuglia di ragazzi della Pappagallo camminò lungo il corso Vittorio Emanuele per dimostrare che i fascisti non facevano paura a nessuno, e si trovò di fronte all’imprevisto di una truppa organizzata che aveva teso la trappola.
     
Benedetto secondo da sinistra dietro lo striscione, Bari 1977
Va anche ricordato e raccontato come a Bari Vecchia si fosse creata una feconda trasversalità fra giovani del quartiere, grazie a un affiatamento fra l’ambiente della Cattedrale, i ragazzi della FGCI e della sezione Pappagallo, i loro coetanei della sinistra extraparlamentare, del Movimento lavoratori per il socialismo e di Lotta continua. Una consonanza che li faceva convergere anche in lotte e iniziative comuni. Fra le poche immagini filmate di Benedetto ve n’è una che lo ritrae alla testa di un corteo, mentre regge uno striscione con la scritta «Contro l’aumento dei prezzi, contro la disoccupazione, per il risanamento di Bari Vecchia»; dietro lo striscione, accanto a lui, si vedono ragazzi del MLS, anch’essi proletari del quartiere. Petrone era considerato e sentito come proprio compagno da tutti i giovani di sinistra della città vecchia, e da quanti altri, esterni al quartiere, vi erano stati accolti e vi avevano sperimentato il primo contatto e la prima conoscenza diretta di una condizione di vita proletaria. E qui sta probabilmente la peculiarità che distingue il caso di Benny dagli altri omicidî di giovani di sinistra commessi in quegli anni: il carattere unitario della sua figura altamente rappresentativa, capace di produrre un immediato coinvolgimento emotivo in un arco molto vasto abbattendo d’un colpo steccati che avevano segnato distanze e preclusioni politiche; il che è frutto della particolarità irripetibile di Bari Vecchia dal punto di vista sociale e culturale. E ciò induce a un’altra considerazione: quella sera il gruppo aggredito e le vittime sarebbero potuti appartenere non al PCI, ma ad altre formazioni della sinistra che con i ragazzi della Pappagallo condividevano attività e amicizie. 
      Non sappiamo in che modo sarebbero andate le cose se a restare ucciso fosse stato come a Roma un giovane della sinistra extraparlamentare. Questo avrebbe sicuramente comportato maggiori problemi per la federazione del PCI, che già visse una notte drammatica e una discussione interna sul che fare, mentre i compagni della Pappagallo dimostravano che Benedetto era un iscritto e lo riconoscevano come proprio compagno; ma si può essere quasi certi che la FLM – sindacato unitario dei metalmeccanici e vero propulsore della manifestazione del giorno dopo, contraddistinta dal colore delle tute blu – si sarebbe ugualmente mobilitata. Probabilmente la fertile rottura provocata dentro il moderatismo egemone nella città da quei giorni di rabbia e di lotta – giorni che una generazione di democratici e antifascisti considera fondativi della propria identità civile – si sarebbe richiusa prima e più facilmente; il che avrebbe tranquillizzato il gruppo dirigente democristiano (che in ogni caso sarebbe andato incontro di lì a poco a un trauma ben più sconvolgente: il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro) e avrebbe causato un minore travaglio nel PCI, la cui direzione a Bari e in Puglia, incline a una lettura poco problematica della linea di “solidarietà nazionale”, era preoccupata dalle possibili ricadute negative della vicenda nei rapporti con una DC locale peraltro riluttante a stabilire intese.  
     Forse la memoria di Benny sarebbe stata meno corale negli anni e nei decenni. Corale, intendo dire, nell’ambito della sua parte, quella dell’antifascismo consapevole, che però non si identifica come è noto con tutta la città. Ma questa è un’altra storia, un altro capitolo che dovrà essere scritto – la storia della memoria di Benedetto Petrone, delle memorie divise e delle memorie false. Per quanto riguarda la parte di Benny – quella della democrazia e della Costituzione – il ricordo è caratterizzato da una immagine e da una idea che resta l’autentica lezione di quel giovane appassionato: l’unità antifascista, intesa non come valore astratto, ma come unità nelle lotte, nell’impegno sociale e civile, nelle speranze e negli ideali di giustizia.


Pasquale Martino

* Raffaele Licinio.
** Per l’esattezza, l’onorificenza della civica amministrazione venne conferita a Romito il 25 aprile 1974 dal sindaco Nicola Vernola alla presenza del presidente nazionale dell’ANPI Arrigo Boldrini.