Qualche messa a punto quaranta anni dopo
il delitto
Gigantografia di Benedetto Petrone, muro esterno della ex Caserma Rossani occupata (si ringrazia Kasamatta disobbediente per la fotografia) |
Nota (dicembre 2017). Ho
fatto leggere questo testo ad alcuni amici e compagni che conoscono bene le
vicende raccontate. Mi hanno dato suggerimenti dei quali li ringrazio.
Com’è
ovvio, la responsabilità di quanto affermato è solo mia.
Nota (dicembre 2018). Questa comunicazione è stata presentata durante il
seminario di studi Benedetto Petrone. Gli
anni ’70 e la città di Bari, promosso dal Comune di Bari, Assessorato alle
Culture, organizzato da Fondazione Gramsci di Puglia e IPSAIC e tenutosi a Bari
il 28 novembre 2017, nel quarantennale, presso il Palazzo ex Poste. La stesura è stata approntata subito dopo ed è apparsa nel volume degli atti da
poco pubblicato (Edizioni dal Sud, Bari, 2018).
Fra gli amici e compagni che l’hanno letta in anteprima
esprimendo il loro parere c’era il compianto Raffaele Licinio. È stato il mio
ultimo contatto con lui: egli ci ha lasciati dopo un mese.
Perciò questo
resoconto sia ora dedicato alla sua memoria.
È motivo di soddisfazione poter
ragionare all’interno della traccia delineata da Peppino Cotturri. Essa ci invita
– in armonia con l’impostazione stessa del convegno – a intendere correttamente
i giorni di Benedetto Petrone nella complessità di un contesto storico nazionale.
Possiamo riaffermare con argomenti condivisi ciò che abbiamo sempre ritenuto a
dispetto di ogni tentazione riduzionista: che non si tratta di una pagina di
“storia locale”. Il significato di quell’episodio non può essere riassorbito nella
spiegazione rassicurante di una anomalia fortuita esplosa dentro una dinamica cittadina
e provinciale, quale repentina frattura di un equilibrio poi fortunatamente
ricomposto. È la vicenda di un delitto politico che accade nel 1977, anno
cruciale della storia italiana, quando muoiono di morte violenta nel Paese
quattro giovani di sinistra in circostanze diverse di cui va però indagata la
disposizione in un quadro di insieme, unitario. Il filo conduttore apparve chiaro,
allora, alle forze democratiche del Paese, che risposero alla morte di Petrone
con manifestazioni di protesta in tutte le principali città, mentre un insieme variegato
di personalità della cultura e della Resistenza (da Bobbio a Lombardi, da Foa a
Terracini) rivolse al parlamento un appello per lo scioglimento del MSI,
manifestando orrore per il «barbaro assassinio del giovane militante comunista
Benedetto Petrone», che si univa alla «schiera dei giovani militanti di tutti
gli schieramenti della sinistra» vittime della violenza neofascista.
La situazione politica segna in quel
momento il precipitare degli anni ’70 verso una svolta e una conclusione: la
stagione delle amplissime lotte sociali, la tensione accumulata in un decennio,
il processo di cambiamento e il conflitto politico sembrano approssimarsi rapidamente
a uno sbocco e a un punto risolutivo. Il PCI è sulla soglia del governo, come
mai è stato nel trentennio dopo il ’47: pericolosamente vicino alla stanza dei
bottoni, dal punto di vista delle forze conservatrici che in tutti quegli anni si
sono adoperate sia per scongiurare questo esito deprecato sia per frenare l’avanzamento
della società; vicino, ma fuori dell’esecutivo, in condizioni tali da non
potere incidere a fondo, ingabbiato nella posizione di “non sfiducia”,
bersaglio di un tiro incrociato da più direzioni. L’ostilità del “movimento del
’77” nei confronti di un PCI la cui manovra di accostamento al governo è
interpretata come normalizzazione repressiva, è una leva che può essere utilizzata
da chiunque lavori per divaricare ulteriormente le posizioni, per acuire il
contrasto fra il movimento di massa nelle sue varie forme e quella che resta la
massima espressione della sinistra politica, indebolendo così entrambi e
spingendoli verso la sconfitta.
2 dicembre 1977: Benedetto Petrone è ricordato nella manifestazione nazionale del metalmeccanici a Roma. |
Il medesimo contesto spiega la
recrudescenza dello squadrismo neofascista, peraltro sempre vivo in quegli anni.
C’è una condizione politica difficile del MSI, che dal ’72 al ’76 ha perso
molti consensi per la polarizzazione di voti a vantaggio della DC individuata dall’elettorato
conservatore e reazionario come maggiore baluardo contro la paventata vittoria
del PCI nei seggi. Il partito neofascista rilancia una sua presenza di piazza
finalizzata a tenere sotto pressione le forze moderate e a giocare un ruolo negli
sviluppi di una crisi di sistema. È sotto gli occhi di tutti il ricorso alla
violenza da parte del MSI, del Fronte della Gioventù e di altre formazioni di
estrema destra che vedono comunque nel partito erede della Repubblica sociale il
loro retroterra e presidio difensivo. La corrente radicale di Pino Rauti
acquista un peso determinante nel MSI e incalza la leadership non certo
moderata di Giorgio Almirante. Nello squadrismo neofascista di questa fase
sembra potersi leggere una strategia esplicitamente omicida: più precisamente, la
scelta di una gestione di azioni violente nel territorio che contemplano la
possibilità di un esito omicida. Come risultato si hanno due giovani vittime a
distanza di un paio di mesi: Walter Rossi a Roma e Benedetto Petrone a Bari. La
dinamica dei due fatti presenta somiglianze che non devono essere trascurate.
Manifestazione dopo l'assassinio di Walter Rossi, Roma 1977 (archivio de l'Unità) |
A Bari, la questione del controllo del
territorio riguarda addirittura la federazione provinciale del MSI, quasi
adiacente al palazzo di Città, vicinissima alla prefettura e alla questura; è
il partito che ha la federazione più contigua ai centri del potere. Senza
dubbio un ruolo provocatorio e intimidatorio è stato svolto per tutto il ’77
dalla sezione Passaquindici nei quartieri San Pasquale e Carrassi, dove si
trovano molti istituti superiori che vedono presenze attive di giovani di
sinistra. La serie impressionante di imboscate, attentati, intimidazioni
compiuta dai militanti della Passaquindici sarà documentata dalla sezione
Ruggero Grieco del PCI il cui segretario* rilascerà la più importante
testimonianza nel processo per ricostituzione del partito fascista che si
celebrerà poco dopo il delitto Petrone. Ma è decisiva soprattutto la posta in
gioco nel centro della città, per il valore politico, simbolico, elettorale che
esso riveste nella storia del neofascismo barese in tutto il dopoguerra. Nella
tradizione e nella memoria dei neofascisti, Bari e in particolare la Bari
“nuova” borghese e affaristica è un prodotto del fascismo e resta cosa sua
anche dopo la fine del ventennio mussoliniano e dopo l’avvento della DC e del
centro-sinistra. Via Sparano, nella parte prossima alla piazza San Ferdinando
che ne è il cuore, è una zona “nera” dalla quale è pericoloso passare se si
hanno sembianze “rosse”. Certo, dall’altro capo di via Sparano vi sono i
giardini di piazza Umberto I, c’è l’Ateneo, territorio ostile frequentato da
giovani di estrema sinistra verso il quale i fascisti si avventurano raramente.
Ma il vero confronto è dato dalla presenza di Bari Vecchia dove il fascismo non
ha mai potuto mettere radici, che non è mai stata fascista, e la cui antica
storia popolare e proletaria sfida la centralità di Bari Nuova. La città vecchia
respinse nel ’22 l’assedio fascista alla Camera del Lavoro difesa da Di
Vittorio; nel ’43 ricacciò indietro i tedeschi che tentavano di occupare il
porto; bacino elettorale dei partiti di sinistra, ha impedito di recente al MSI
l’apertura di una sezione all’interno del quartiere. Soltanto il corso Vittorio
Emanuele II divide Bari Vecchia dal centro del potere e dalla federazione del
MSI. Bari Vecchia è insomma un bersaglio quasi naturale, con in sé gli elementi
di una doppia memoria storica che si tramanda parallelamente da entrambe le
parti assumendo – per la parte che il quartiere antico ha respinto come corpo
estraneo – il valore simbolico di un nodo irrisolto e di un vecchio conto da
saldare.
Il manipolo che quella sera si raduna
nella federazione di via Piccinni per muovere verso una impresa violenta e – se
le circostanze gli saranno favorevoli – sanguinosa e mortale, è un gruppo che
sa di potersi avvalere di una larga rete di protezioni, simpatie e complicità. Sono
giovani borghesi, della Bari bene e delle borghesia delle professioni, affiancati
da sottoproletari e da veri e propri avventurieri legati a traffici illegali e
ad ambienti criminali, in un caratteristico mix che ha imperversato a lungo in
città, anche dopo il delitto Petrone e almeno fino all’omicidio del dj Traversa
(1980). Per inciso, proprio la decentrata Passaquindici è il luogo più adatto per
la verifica pratica di questi ambigui incroci, delle “doppie militanze” (MSI e
Terza Posizione) e del connubio fascismo-criminalità; nel contempo, la
Passaquindici è anche il serbatoio di manovalanza per le imprese che hanno
obiettivi politici più alti. E quella del 28 novembre è una operazione studiata
e preparata, con un obiettivo alto da conseguire nel centro della città. Quanto
alla rete delle protezioni influenti, questa si manifesta chiarissima fin da
subito, nella operazione riuscita – e condotta a più mani – che ha il fine di
attribuire la responsabilità dell’omicidio a un personaggio marginale ed
equivoco e di scagionare i ragazzi “perbene”. Perfino la mancata connessione
fra due processi che dovevano essere strettamente collegati – quello per
ricostituzione del partito fascista e quello per l’omicidio – appare il
prodotto di un intenso lavorio di disinnesco che nasce da coperture ben
accreditate ma è pure l’effetto di preoccupazioni politiche di ordine generale.
E qui convergono, e si saldano nuovamente, le intenzioni del MSI, del suo
notabilato “in doppiopetto” che riprende in mano la situazione dopo l’exploit
dell’ala estremistica, e le intenzioni della DC che nella sua maggioranza non
vuole concedere spazi significativi ad accordi col PCI.
1978: giovani antifascisti collocano una epigrafe sulla abitazione di Benedetto Petrone (l'epigrafe fu in seguito rimossa) |
E a tale proposito non è inopportuno
spendere qualche parola per smontare ancora una volta la falsa storia della “guerra
tra bande” (tra “opposti estremismi”, tra “fascisti e comunisti”) che si
sarebbe combattuta a Bari a in quel periodo; falsa storia non innocente, che
trova tuttora una tarda eco. Non c’erano “bande”: c’erano movimenti di lotta
per rivendicazioni sociali e per diritti collettivi, che toccavano in molti
casi un coinvolgimento di massa notevole (basti dire della innegabile
partecipazione operaia, studentesca e popolare alla manifestazione del 29
novembre), e c’era di contro un uso cinico dello squadrismo di destra che vi si
contrapponeva per chiudere gli spazi di agibilità politica. Il documento
approvato pochi giorni prima del delitto dal consiglio comunale – col voto
favorevole della DC e quello contrario del MSI – indicava nei covi fascisti la
fonte della violenza che le forze dell’ordine avrebbero dovuto reprimere. C’era
nei movimenti, fra i giovani di sinistra e della stessa FGCI, una comprensibile
disposizione alla autodifesa, a rintuzzare a muso duro gli assalti intimidatori;
una scelta difensiva, appunto, laddove la scelta vera, strategica, era il
movimento rivendicativo, la lotta, la manifestazione di massa, l’assemblea, e
non certo la scaramuccia con i fascisti. D’altra parte l’antifascismo era un
principio profondamente sentito, che il recente Trentennale della Liberazione
aveva contribuito a riscoprire e valorizzare (in quella circostanza, fra
l’altro, proprio all’eroe ragazzo della difesa di Bari Vecchia, Michele Romito,
il Comune aveva conferito una medaglia)**. Nella decisione di tanti giovani che
rifiutavano di lasciarsi intimidire, il coraggio poteva a volte ingenerare una
logica militarista (che però non fece mai presa a Bari) o poteva semplicemente sconfinare
nella temerarietà: e questo avvenne forse quella terribile sera, quando la
pattuglia di ragazzi della Pappagallo camminò lungo il corso Vittorio Emanuele
per dimostrare che i fascisti non facevano paura a nessuno, e si trovò di
fronte all’imprevisto di una truppa organizzata che aveva teso la trappola.
Benedetto secondo da sinistra dietro lo striscione, Bari 1977 |
Non
sappiamo in che modo sarebbero andate le cose se a restare ucciso fosse stato
come a Roma un giovane della sinistra extraparlamentare. Questo avrebbe
sicuramente comportato maggiori problemi per la federazione del PCI, che già
visse una notte drammatica e una discussione interna sul che fare, mentre i
compagni della Pappagallo dimostravano che Benedetto era un iscritto e lo
riconoscevano come proprio compagno; ma si può essere quasi certi che la FLM –
sindacato unitario dei metalmeccanici e vero propulsore della manifestazione
del giorno dopo, contraddistinta dal colore delle tute blu – si sarebbe
ugualmente mobilitata. Probabilmente la fertile rottura provocata dentro il moderatismo
egemone nella città da quei giorni di rabbia e di lotta – giorni che una
generazione di democratici e antifascisti considera fondativi della propria
identità civile – si sarebbe richiusa prima e più facilmente; il che avrebbe tranquillizzato
il gruppo dirigente democristiano (che in ogni caso sarebbe andato incontro di
lì a poco a un trauma ben più sconvolgente: il rapimento e l’assassinio di Aldo
Moro) e avrebbe causato un minore travaglio nel PCI, la cui direzione a Bari e
in Puglia, incline a una lettura poco problematica della linea di “solidarietà
nazionale”, era preoccupata dalle possibili ricadute negative della vicenda nei
rapporti con una DC locale peraltro riluttante a stabilire intese.
Forse la memoria di Benny sarebbe stata
meno corale negli anni e nei decenni. Corale, intendo dire, nell’ambito della
sua parte, quella dell’antifascismo consapevole, che però non si identifica come
è noto con tutta la città. Ma questa è un’altra storia, un altro capitolo che
dovrà essere scritto – la storia della memoria di Benedetto Petrone, delle
memorie divise e delle memorie false. Per quanto riguarda la parte di Benny –
quella della democrazia e della Costituzione – il ricordo è caratterizzato da
una immagine e da una idea che resta l’autentica lezione di quel giovane
appassionato: l’unità antifascista, intesa non come valore astratto, ma come
unità nelle lotte, nell’impegno sociale e civile, nelle speranze e negli ideali
di giustizia.
Pasquale Martino
* Raffaele Licinio.
** Per l’esattezza, l’onorificenza della civica amministrazione venne conferita a Romito il 25 aprile 1974 dal sindaco Nicola Vernola alla presenza del presidente nazionale dell’ANPI Arrigo Boldrini.
** Per l’esattezza, l’onorificenza della civica amministrazione venne conferita a Romito il 25 aprile 1974 dal sindaco Nicola Vernola alla presenza del presidente nazionale dell’ANPI Arrigo Boldrini.