Ricordare Benedetto, un antidoto contro i nuovi fascismi
Il
modo migliore per ricordare oggi Benedetto Petrone, il giovane ucciso 41 anni or
sono a Bari dai neofascisti, crediamo sia quello di fare i conti senza retorica
con la pratica reale della solidarietà, della pace, del rispetto dei diritti:
quei valori che Porzia Petrone, l’indomita sorella di Benny, non si stanca di
additare ai ragazzi come il sostanzioso messaggio lasciato in eredità dal
diciottenne comunista barbaramente accoltellato quella tragica sera del 1977. Sul
versante della memoria e della consapevolezza storica, infatti, si può constatare
con parziale soddisfazione che sono stati compiuti passi in avanti; il
quarantennale della morte è stato celebrato degnamente. Sopravvive, è vero, in
alcuni il luogo comune dello scontro tra fazioni, degli stereotipati “anni di
piombo”, il rifiuto di prendere atto che quella morte fu l’esito di una
aggressione unilaterale e premeditata. Resta, soprattutto, l’ingiustificabile dimenticanza
della vicenda Petrone in molte ricostruzioni riguardanti il 1977 in Italia,
anche le più recenti: forse perché è una vicenda “meridionale”? perché è
“anomala”, irriducibile rispetto allo stereotipo di cui sopra?
Ma
torniamo all’assunto iniziale: onoriamo l’antifascista barese parlando del
presente. Sì, perché l’esistenza o meno di un pericolo fascista in Italia, in
Europa e nel mondo è diventata un tema rilevante del dibattito
politico-cullturale odierno. Un tema che a nessuno, tanto meno a noi italiani,
è consentito di sbrigare con leggerezza: visto che, se non altro, un romanzo
come M di Scurati (Bompiani), in
testa alle classifiche di vendita, dovrebbe ricordare a molti che un italiano
fu l’inventore del fascismo nel mondo. A proposito di libri, sembra che sia in
corso una sorta di confronto a distanza, se non una battaglia virtuale, tra
volumi apparsi quest’anno: da un lato Istruzioni
per diventare fascisti di Michela Murgia (Einaudi), altro best seller, ironica
trattazione sul riemergere in Italia di modelli e luoghi comuni che sono
retaggio e relitto del fascismo; dall’altro Neofascismo
e neoantifascismo di uno storico del calibro di Franco Cardini (La Vela),
che all’opposto afferma nello stile del pamphlet l’inservibilità di entrambe le
categorie contrapposte, in quanto obsolete, e per altri versi il saggio di
impianto storiografico Fascismo e
antifascismo del contemporaneista Alberto De Bernardi (Donzelli), che si
interroga sulla inopportunità di evocare in modo ricorrente quella dicotomia
storica e simbolica applicandola alla attualità politica. Noi proponiamo qui
poche considerazioni.
A
suo tempo, nonostante la raffinatezza culturale del famoso saggio di Umberto
Eco Il Fascismo Eterno (1995), ci lasciò perplessi la tesi di un “idealtipo”
fascista che sfida il tempo della storia. I sistemi fascista e nazista furono
il prodotto di un’epoca ben definita, anche se le loro matrici ideologiche preesistevano.
D’altra parte, è vero che dopo la catastrofe nazifascista del 1945 sono nati in
Occidente movimenti di varia consistenza – secondo il luogo e il tempo – che si
è convenuto di chiamare neofascisti e neonazisti perché eredi dichiarati di
quella nefasta esperienza. È innegabile poi che il modello fascista abbia
ispirato alcuni nazionalismi arabi e certi regimi militari sudamericani, fino
all’Europa dei colonnelli greci e alle dittature di lunga durata in Spagna e
Portogallo. Insomma il fascismo, abbattuto nella sua forma primigenia e più
devastante, ha continuato a fare scuola in “sottoprodotti” che non si può dire
abbiano avuto breve fortuna. Esso ha stabilito una sorta di forma storica
esemplare dalla quale non hanno potuto prescindere – pur adattandola e assumendo
nomi variegati – le successive esperienze che hanno voluto rimescolare con diverse
gradazioni gli stessi ingredienti di base: paternalismo e assistenzialismo di
Stato, nazionalismo, razzismo, violazione dei diritti umani e sociali,
subalternità delle donne presentata come esaltazione della funzione materna, omofobia,
criminalizzazione della solidarietà, propaganda demagogica e metodi polizieschi,
e infine manipolazione e condizionamento dei meccanismi democratici in chiave
autoritaria e plebiscitaria. Senza contare che da quasi 80 anni pure il
linguaggio comune bolla come “fascista” chiunque sia prevaricatore e
autoritario in ambito lavorativo, sociale, familiare: anche questo
“antifascismo popolare”, spontaneo e non meditato, è un dato storico inoppugnabile.
Ed è vero che molti degli ingredienti citati sono variamente assunti nel XXI
secolo da movimenti di destra o destroidi che vengono definiti populisti e (con
termine ambiguo che preferiremmo evitare) “sovranisti”. Le punte estreme di
quest’area sono sistematicamente violente, come è denunciato in quella sorta di
dossier che è la risoluzione contro la violenza neofascista approvata
dall’europarlamento il 25 ottobre scorso; estremisti neri che spesso hanno
ottimi rapporti con le maggioranze governative dei rispettivi paesi, tanto da costituirne
una testa d’ariete, data la condivisione di politiche xenofobe, discriminatorie
e intolleranti. In Italia si aggiunge il non ingenuo richiamo di esponenti del
governo alla sloganistica del Ventennio (“molti nemici molto onore”, “tiriamo
dritto”, “me ne frego”). In qualunque modo si voglia chiamare tutto ciò – anticamera
di un fascismo metamorfico oppure pinco pallino – esso è preoccupante e
pericoloso per la democrazia, per la convivenza civile, per i diritti e le
garanzie costituzionali.
Ecco,
quando ricorderemo Benedetto non dobbiamo eludere un sano sentimento di allarme
democratico, cui non sappiamo dare nome più giusto che antifascismo.
Pasquale Martino
La
Gazzetta del Mezzogiorno, 28 novembre 2018
Fotografia: una manifestazione del 1977 a Bari; Benedetto Petrone regge lo striscione, terzo da sinistra.