domenica 13 maggio 2018

Mauthausen Memorial


Memoria e Liberazione.
La manifestazione internazionale del 6 maggio


Lettura del giuramento nella Appelplatz
Il bel sole di domenica 6 maggio accoglie nel Mauthausen Memorial i partecipanti all’incontro internazionale che ogni anno commemora la liberazione del Lager nazista avvenuta il 5 maggio 1945. La piana antistante l’ingresso del pauroso recinto è diventata un parco dei monumenti nazionali – imponente quello sovietico, il memoriale dell’Italia è maestoso nella sua semplicità – davanti ai quali si raccolgono oggi le nutrite delegazioni, una folla variopinta e apparentemente caotica che assomma ad alcune migliaia di persone. La delegazione italiana è forse la più numerosa: una ventina di gonfaloni di enti locali – in testa La Spezia, Empoli, molta Toscana – i labari dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati) e dell’Anpi, tante scolaresche dal Nord Italia; molti hanno al collo fazzoletti a strisce bianche e azzurre come la casacca dei deportati, con al centro il triangolo rosso: lo stigma dei detenuti politici internati a Mauthausen domina dap-pertutto nei simboli di questa incredibile manifestazione.

Anataoi Malevannyi, russo, fra i
più giovani internati di Mauthausen
Certi aspetti enfatici propri della ufficialità – militari di nazionalità diverse in alta uniforme, saluti, squilli di tromba – non offuscano il carattere essenzialmente popolare e informale del grande raduno, in cui gli stendardi arcobaleno della pace si mescolano ai cartelli per Giulio Regeni, agli striscioni della «gioventù contro l’oblio» (Jugendliche gegen das Vergessen), dietro cui sfilano ragazze delle quali parecchie indossano il velo o hijab, alle bandiere dei curdi che ricordano come le lotte di liberazione siano ancora all’ordine del giorno. La manifestazione diventa un lungo corteo, che si snoda attraverso il Lager. Nel vasto piazzale al centro del campo, l’Appelplatz dove le SS eseguivano l’appello e la selezione dei prigionieri, oggi i rappresentanti di vari paesi fra cui anziani ex deportati rileggono ad alta voce in molte lingue il «giuramento di Mauthausen»: pronunciato collettivamente in quella piazza, dopo l’arrivo delle truppe americane e in occasione della partenza degli ex prigionieri russi, i primi a rimpatriare, il giuramento si conclude con la promessa solenne di non dimenticare i «milioni di fratelli assassinati dal nazifascismo» e di promuovere la libertà e la solidarietà internazionale. Non si resta indifferenti sentendo queste parole risuonare in quel luogo, in italiano, spagnolo, francese, tedesco, ungherese, russo, polacco, ceco, serbo-croato e via dicendo. È come se per un solo giorno si fosse ricostituita la grande alleanza antinazista di popoli e di Stati che nel secolo scorso segnò un momento altissimo di lotta per la libertà. Ma, ammonisce un oratore nel corso della giornata, «questo non è più il tempo del ricordo: è il tempo dell’impegno».
Mauthausen è un luogo impressionante, rimasto pressoché intatto: si sono conservati i grigi muraglioni di cinta, le torrette, la «scala della morte», molte baracche, camere a gas e crematori. Sembra inconcepibile che il dolce paesaggio di colline verdi e villaggi armoniosi nella valle danubiana sia stato il teatro di una mostruosa industria di schiavitù e sterminio le cui propaggini tentacolari si diramavano per tutta l’Austria. Era uno dei centri nodali del sistema concentrazionario nazista: un Lager per gli «irrecuperabili» – oppositori politici e partigiani di tutta l’Europa, e inoltre ebrei e prigionieri di guerra russi – destinati a sfiancarsi nelle cave di granito e per la produzione di armi, a morire di sfinimento, denutrizione e malattie, fucilati, gasati, gettati giù dalle rupi. Si conta che fra il 1938 e il 1945 vi siano stati internati 200.000 esseri umani, di cui 10.000 donne, e che almeno 103.000 vi siano stati uccisi. Gli italiani furono circa 8000 di cui la metà morì nel campo.


Antifascisti e partigiani pugliesi a Mauthausen

     
La delegazione italiana davanti al proprio memoriale
C’è un cospicuo drappello di pugliesi deportati e uccisi a Mauthasen, le cui vicende dovrebbero essere raccontate, e che citiamo qui in un elenco provvisorio e incompleto. Ai nomi più noti – l’avvocato Alfredo Violante, socialista liberale nato a Rutigliano; il sindacalista comunista Filippo D’Agostino, di Gravina – si affianca ora il nome dell’antifascista cattolico barese Giuseppe Zannini, la cui memoria il Comune di Bari ha onorato il 9 maggio, in una delle pietre d’inciampo per il quarantennale del suo amico Aldo Moro. Fra i triangoli rossi del Lager austriaco si annoverano cinque antifascisti di vecchia data, schedati nel Casellario politico centrale: due socialisti (Francesco Re, nato a Oria, e Antonio Brunetti, di Spinazzola, entrambi operai Fiat a Torino) e tre comunisti (Vincenzo Aulisio di Ascoli Satriano, partigiano delle Brigate Garibaldi, il ruvese Michele Rossini, operaio Fiat e partigiano, e l’elettricista tarantino Mario De Pasquale, il solo che sopravvisse). Operai Fiat erano anche il barlettano Pasquale Valente e il coratino Felice Scaringella, partigiano; lavoravano a Milano come operai o impiegati Giovanni Compagnone di Sansevero, Vladimiro Fratini di Taranto, Nicola Gangale e Giuseppe Rinella di Andria, Rocco Riefolo di Barletta e Pietro Carucci di Martina Franca (gli ultimi due sono sopravvissuti). 

      Trova conferma in questi dati la numerosa emigrazione meridionale nelle fabbriche del Nord rappresentata anche negli scioperi del marzo ’44 che dettero impulso alla Resistenza cui i tedeschi reagirono intensificando la deportazione di operai. Fra gli internati troviamo figure borghesi: il commerciante Pietro Civitano di Grumo Appula, arrestato in provincia di Siena; l’artista Girolamo Lopez, nato e residente a Bari, catturato a Milano; l’ufficiale dell’esercito e partigiano garibaldino Antonio Salcito, di Casalnuovo Monterotaro (Foggia), arrestato a Foligno. Sangue pugliese, versato unitamente a quello d’Italia e d’Europa, per la liberazione e per la fede in un mondo migliore.

Pasquale Martino
"La Gazzetta del Mezzogiorno", 12 maggio 2108   
Le fotografie sono state scattate da Maria Vittoria De Padova il 6 maggio 2018.

venerdì 11 maggio 2018

Bicentenario di Karl Marx


Il Capitale, Cafiero, 
i rivoluzionari meridionali


Il «ritorno a Marx» è una costante ciclica del dibattito filosofico, economico e politico. Un pensiero la cui inesausta forza analitica resta attrattiva anche quando gli eredi politici della sua tradizione sembrano scomparsi. Tanto più si vorrebbe riscoprirne la prorompente freschezza degli albori, della nascita e divulgazione, in quella seconda metà dell’Ottocento che fu età di rivoluzioni borghesi ancora in corso e di insorgenti lotte di classe capaci di incrinare le certezze del capitalismo trionfante. Nell’Italia appena unificata erano proprio i primi apostoli del movimento operaio a credere che le plebi del Nord e del Sud potessero associarsi nella ribellione contro l’ingiustizia, ispirate di volta in volta dal mazzinianesimo, dal radicalismo di Pisacane, dalla anarchia di Bakunin e dal socialismo scientifico di Marx ed Engels. 
      Molti intellettuali meridionali militavano nella nuova impresa, e fra questi alcuni pugliesi che rinunciarono a facili carriere perseguendo il riscatto delle classi lavoratrici. Il più generoso e culturalmente vivace fu Carlo Cafiero, nato nel 1846 da una ricca famiglia di Barletta, amico del pittore Giuseppe De Nittis suo concittadino, formatosi nel seminario di Molfetta e poi a Napoli: a lui, espressione di un “proto-marxismo libertario” (la definizione è di Gian Mario Bravo), va il merito di aver fatto conoscere per primo a un largo pubblico italiano la dottrina di Marx.
     Recatosi a Londra, Cafiero stabilì un legame soprattutto con Friedrich Engels, col quale restò in corrispondenza epistolare. Tornato in Italia, si adoperò con due conterranei, il tranese Enrico Covelli suo compagno di studi e Carmelo Palladino di Cagnano Varano, per riorganizzare a Napoli la prima sezione che sotto la guida di un altro pugliese, il sarto Stefano Caporusso di Modugno, aveva aderito alla Associazione internazionale dei lavoratori (la Prima Internazionale). È il 1871, il tempo della Comune di Parigi, quando la rivoluzione proletaria sembra incombere sull’Europa. Marx ed Engels guardano con interesse alle potenzialità dell’Italia, ma lo stesso fa l’ormai rivale Bakunin, che ha vissuto nella penisola e vi annovera numerosi seguaci. Pure Cafiero abbandona la linea marxista per abbracciare l’idea bakuniniana: finanzia l’acquisto della Baronata, una villa presso Locarno dove vive con la moglie Olimpia Kutuzova  e che mette a disposizione di Bakunin, ma in seguito prende le distanze dal leader anarchico; la vicenda è narrata nel romanzo di Riccardo Bacchelli Il diavolo al Pontelungo (1927). 
     Dopo aver promosso sfortunate insurrezioni a Castel del Monte e nel Matese, Cafiero si dedica alla sua opera più importante: la riduzione in agile compendio del libro I di Das Kapital, la grande summa teorica di Marx. Il volumetto esce nel 1879, rivolto non solo a lavoratori e a borghesi illuminati, ma, con lungimiranza, anche alla «prima gioventù delle scuole». Karl Marx in persona scrive a Cafiero per lodare la superiore qualità della nuova epitome rispetto a precedenti tentativi altrui e non solo in Italia. Efficacia e chiarezza connotano l’excursus come in questo passo: «La nascita del capitale si risolve nell'altra questione […]: trovare una merce che ci dia più di quanto ci è costata; […] la quale […] possa crescere di valore […] Questa merce tanto singolare esiste davvero e si chiama potenza del lavoro, o forza del lavoro». Opera mai tramontata: Il Capitale compendiato da Cafiero in edizione del 1913 è fra i libri di Gramsci, che nei Quaderni auspica possa realizzarsi una sintesi di pari utilità per le giovani generazioni; l’edizione Samonà e Savelli del 1970 rifornisce le biblioteche dei sessantottini; il compendio è stato sempre ripubblicato ed è disponibile come ebook. 

     Prima di morire proprio nell’anno di fondazione del partito socialista (1892), Cafiero – che ha scritto saggi non irrilevanti su comunismo e anarchia – fa in tempo a maturare posizioni pragmatiche, sulla scia di Andrea Costa staccatosi dall’insurrezionalismo anarchico per sostenere il movimento socialista organizzato. Contribuisce alla diffusione dei testi marxisti anche il socialista beneventano Pasquale Martignetti, lui pure corrispondente di Engels (al quale inoltre pervengono lettere da semplici militanti e simpatizzanti di Trani e Molfetta); tuttavia, mentre Il Capitale viene pubblicato a dispense a Torino, sulla rivista borghese «Bilbioteca dell’Economista», nel socialismo italiano l’assimilazione della teoria di Marx è superficiale e venata di positivismo. Toccherà al pensatore napoletano Antonio Labriola dare impulso alla fine del secolo a una rigorosa conoscenza del marxismo e dello stesso Manifesto di Marx ed Engels. La traduzione e pubblicazione delle opere dei due tedeschi sarà intrapresa nel 1899 da un altro valoroso intellettuale delle nostre terre, il “professore socialista” cioè il potentino Ettore Ciccotti, in collaborazione con la moglie Ernestina D’Errico. E siamo ormai alla prima delle – anch’esse cicliche – “crisi del marxismo”, addirittura alla “morte del marxismo teorico” proclamata da Benedetto Croce al sorgere del Novecento. 
     Invece il “secolo breve” segna l’avventura drammatica di un movimento storico di grandi masse che in tutto il pianeta ha nelle idee di Marx il proprio vessillo. Concluso quel secolo con dolorosi fallimenti ma con una inevasa domanda di eguaglianza e libertà, rimane il fascino di un pensatore radicalmente critico, che nel Bicentenario della nascita è forse ancora il più studiato nel mondo, e grazie a un intelligente regista haitiano (Raoul Peck) fa ora discutere il pubblico del grande schermo.   

Pasquale Martino   
"La Gazzetta del Mezzogiorno", 5 maggio 2018