martedì 11 settembre 2018

Ubaldo Diciotti


Nel nome della nave salvatrice.
Storia di un toscano che amava la Puglia

Ubaldo Diciotti con Pasquale Andriani nel 1940
Conviene a questo punto raccontarla per bene, la storia di Ubaldo Diciotti: l’uomo a cui è intitolato il pattugliatore della Guardia costiera italiana che ha salvato migliaia di naufraghi per lo più migranti, e che è stato nel mese scorso al centro di un caso politico tanto surreale quanto grave. Conviene raccontarla adesso, quando l’acme della crisi è finita (per il momento) e questo racconto non può apparire diminuito da finalità contingenti. E tocca a me farlo: perché Diciotti era zio di mia madre, avendo sposato la sorella di mio nonno materno, e io l’ho conosciuto. E ho un personale dovere della memoria: il figlio e la figlia di zio Ubaldo sono deceduti senza eredi, e così siamo rimasti solo in cinque, i figli delle sue due nipoti, a poter testimoniare su un uomo scomparso nel 1963, a poterlo descrivere come figura viva e vitale, al di là della pur rigorosa nota biografica redatta dalla Marina militare.  
Ubaldo Diciotti era nato nel 1878 a Lucca: della sua toscanità cordiale e arguta ho un vivido ricordo, arricchito da aneddoti e battute vernacolari. Le sue villeggiature giovanili nella vicina Barga gli fecero conoscere di persona Giovanni Pascoli, che vi risiedeva dall’inizio del ‘900; spesso parlava del poeta, e sarà stato per questo che mia madre tenne a lungo sul comodino I canti di Castelvecchio. Nella nostra famiglia allargata zio Ubaldo rappresentava una indiscussa autorità culturale e morale, perfino più di mio nonno: i due grandi vecchi i cui ritratti dominavano il salotto della dimora patriarcale a Bari. Diciotti era – non è azzardato dirlo – un pugliese di adozione: dopo la Grande Guerra comandò le capitanerie di porto di Molfetta e Barletta. A Molfetta, la città marinara per eccellenza, conobbe e sposò Lucrezia Andriani, figlia e sorella di marinai; strinse una amicizia fraterna e duratura con il cognato di poco più giovane, Pasquale Andriani – mio nonno – ufficiale e poi comandante di navi della marina civile per le società di navigazione Puglia e Adriatica. Ne è prezioso documento la prolungata corrispondenza epistolare fra i due, della quale purtroppo si è conservata solo una parte. Andriani è socialista, sindacalista e amico personale del fondatore della Federazione lavoratori del mare, Giuseppe Giulietti; conosce anche il grande concittadino Gaetano Salvemini. Diciotti è monarchico, e sarà fedele al re anche nel ventennale sostegno di casa Savoia al fascismo. Ciononostante, proprio il cognato tutela Andriani contro i tentativi di rovinarne la carriera a causa della sua fede antifascista. Promosso maggior generale di porto (grado equivalente a quello di ammiraglio e di generale dell’esercito), Diciotti è al vertice delle importanti capitanerie di Livorno e Napoli, e durante la Seconda guerra è inviato a Tripoli, dove organizza le difese del porto contro gli attacchi inglesi, proteggendo i civili dai bombardamenti e guadagnandosi la medaglia d’argento al valor militare. Dopo l’8 settembre 1943 non aderisce alla Repubblica sociale mussoliniana, ma resta deluso anche dagli intrighi e dalla fuga del re: è una amarezza che resterà in lui, negli anni successivi, trapelando nelle ricorrenti e burrascose discussioni con il cognato – impresse nella mia memoria familiare – sempre concluse da riconciliazioni e amorevoli abbracci. Nell’Italia «tagliata in due» (anche dopo l’entrata degli Alleati nella Capitale), continuano a scriversi l’uno da Bari, l’altro da Roma, confidandosi dolori del presente e speranze per il futuro. Un altro fratello di Lucrezia, Sabino, uomo di mare anche lui, è a Trieste dove pure si vivono tempi drammatici. Negli anni ’50 Diciotti viene spesso a Bari, ospite dei cognati, e riserva ai parenti generosa accoglienza nella sua bella e austera casa di via Flaminia a Roma. Tiene molto alla mia educazione di decenne e mi regala sistematicamente i libri di Jules Verne, insistendo che io legga quasi soltanto quelli, poiché vede in essi la letteratura per ragazzi più “scientifica”, meno inverosimile e più formativa. Conservo molti di quei volumi. Nasce così, soprattutto, e grazie a lui, la passione per la lettura che non mi ha abbandonato un solo giorno nella vita. La sua figura imponente e severa poteva suscitare timore reverenziale, ma come quella di un burbero benefico che non riesca a nascondere la bontà.   

Il guardacoste Diciotti
Nel 2002, quando viene intitolato a zio Ubaldo un guardacoste della Marina – intitolazione che precede quella dal pattugliatore varato nel 2013 – alla cerimonia partecipano commosse la figlia di Diciotti e mia sorella con i rispettivi coniugi. È vano ipotizzare quale opinione il vecchio generale avrebbe della situazione odierna, distante oltre mezzo secolo dalla sua epoca. Di una cosa sono certo: sarebbe orgoglioso e felice di continuare a vivere nel nome di una nave che non uccide, ma salva vite umane. Ne sono certo perché lui, mio nonno, la mia famiglia mi hanno trasfuso fin da piccolo valori profondi, condivisi da quella che amava definirsi «gente del mare»: prima di tutto la solidarietà incondizionata, il dovere di soccorrere, l’eguaglianza degli esseri umani di fronte al mare a cui si affidano, alla vita e alla morte. Non so se questa filosofia abbia un senso politico; penso di sì, perché non riesco a concepire la politica se non come attuazione pratica di valori. Ritrovo un po’ di mio zio nelle parole di Francesco Lanera, il velista e armatore barese della imbarcazione Euz II che il 27 agosto, dopo aver conquistato il suo quinto titolo mondiale nella regata in Lettonia, ha dedicato la vittoria «a chi va per mare, ai migranti che cercano salvezza e a tutta la nave Diciotti».

Pasquale Martino   
»La Gazzetta del Mezzogiorno», 11 settembre 2018

venerdì 7 settembre 2018

Il '68 in Puglia/3


La lunga rivolta delle campagne 
Occupazione, diritti, collocamento pubblico: conquiste che sembrarono irreversibili


Corteo di braccianti in sciopero nel Foggiano, 1971

Nelle campagne pugliesi il Sessantotto durò a lungo: iniziato nel 1967, culminò nel 1969 con una coda nel ’71. Nonostante la sua tradizione, il movimento bracciantile e contadino mostrò indubbie analogie con i nuovi movimenti, studentesco e operaio: perché oltre alla giusta richiesta di reddito da parte di lavoratori bisognosi e precari, dette voce anche alla loro rivendicazione di maggior potere, di diritti e tutele nel mercato del lavoro. 
Regione ancora massicciamente agricola, a dispetto dei recenti poli industriali, la Puglia presentava una struttura produttiva assai articolata, comprendente l’azienda agraria capitalistica, i vecchi feudi latifondistici, la miriade di piccoli poderi a coltivazione diretta. La figura del bracciante era a sua volta molto variegata: includeva una minoranza di salariati fissi, una maggioranza di lavoratori a giornata e stagionali e una serie di figure miste come piccoli contadini, coloni e mezzadri che lavoravano anche a salario per altri, o che a loro volta assumevano uno o due braccianti a giornata. Forse per la prima volta nel ’68 pugliese, tutte queste figure – fino a quel momento divise dalla imperante capacità di controllo degli agrari rappresentati dalla Confagricoltura – riuscirono a unificarsi in un fronte comune. Fu merito di un movimento sindacale che faticosamente superò le divisioni raggiungendo momenti inediti di unità, ma fu soprattutto l’effetto di una spinta dal basso, di un contesto generale, di un’onda di ribellione che pareva volersi estendere a ogni piega della società. 

Nell’estate del ’67 lo sciopero dura 17 giorni, più degli scioperi precedenti incluso quello importante del ’62. Non intendo esaltare lo sciopero fine a se stesso, ma evidenziare quanto sia difficile la situazione di partenza, quanto necessariamente duro il conflitto, il braccio di ferro con un padronato arrogante e tornato baldanzoso dopo i ripiegamenti subiti negli anni di Di Vittorio. Una associazione datoriale che non vuol neppure sedersi a trattare. Si capisce che, quando i sindacati su richiesta del prefetto di Bari propongono di sospendere lo sciopero in cambio della apertura di trattative, scoppino proteste dei lavoratori in molti comuni, numerosi comizi vengano interrotti, perché si teme una ennesima astuzia padronale. Così il mito della radicalità bracciantile, non disposta a compromessi, contagia le avanguardie giovanili del ’68. Spesso interi paesi solidarizzano ed è vistosa la partecipazione delle donne, come lavoratrici e non soltanto nella dimensione “popolare” del movimento. Raffaele Cavalluzzi – italianista, studioso del rapporto fra letteratura e cinema, militante e dirigente politico – mi dà la sua testimonianza a partire da Grumo Appula, dove vive: in quel ciclo di lotte – dice – non si muovono solo le zone di tradizione rossa, ma altresì la moderata conca barese, dove prevale la figura ambivalente del contadino-bracciante; è un moto generalizzato, nel quale secondo Cavalluzzi incide pure una memoria collettiva risalente sia alle burrascose rivolte contadine sia a movimenti coscienti e organizzati come gli “scioperi alla rovescia” (negli anni ’10 a Grumo i contadini di propria iniziativa completano una strada di campagna, da allora detta “strada dei socialisti”). A fianco di sindacalisti esperti, alcuni dei quali pubblicheranno saggi e memorie su quella esperienza (Vitantonio Abbatista, Giuseppe Gramegna, Antonio Mari) si cimentano a vari livelli le nuove leve, di cui è espressione Mimmo D’Onchia, cresciuto nel Pci (il più giovane dirigente della Federbraccianti nel ’69) come lo sono anche giovani del Circolo Lenin, il gruppo della sinistra extraparlamentare presente in molti comuni pugliesi e attivo fra i braccianti, nel quale fanno “gavetta” fra gli altri Pietro Alò, futuro senatore comunista, e Angelo Leo, una vita nella Cgil, entrambi fra i protagonisti della battaglia contro il caporalato negli anni seguenti. 

Contadini e studenti in corteo nel Barese.
Dopo aver ottenuto risultati utili con la vertenza del ‘67, i braccianti aderiscono nel ’68 al movimento contro le gabbie salariali, e i loro elementi più sindacalizzati danno man forte ai primi scioperi degli operai della zona industriale. Nel ’69 una ulteriore e veemente lotta contrattuale scompagina il fronte padronale, ottenendo l’accordo separato con la Coldiretti, poi 140 accordi aziendali, e piegando infine anche la Confagricoltura: si conquistano i delegati aziendali e il diritto d’assemblea, cui si aggiunge la contrattazione collettiva dei patti colonici, finora lasciati ai singoli. Nel ’71 si perviene all’orario di 40 ore settimanali, al rapporto di lavoro a tempo indeterminato dopo 180 giorni, alle qualifiche specializzate oltre che alla estensione dei diritti sindacali ai coloni (che apre la strada alla trasformazione della colonia in affitto). 
Due questioni care ai braccianti sembrano avviate a soluzione: la salvaguardia degli elenchi anagrafici (dove sono iscritti i lavoratori destinatari di interventi assistenziali e previdenziali) che gli agrari vogliono “sfoltire”, e la fine del “mercato di piazza” con l’obbligo di ricorrere al collocamento pubblico (sancito per legge nel 1970). Di fatto il mercato di piazza sopravvivrà, e tornerà in auge negli anni recenti della deregulation, della intermediazione privata e del nuovo caporalato, nonché dei migranti che lavorano in condizioni spaventose, e intraprendono da capo una difficile lotta per i diritti. «I braccianti, italiani e stranieri – mi dice Anna Lepore, segretaria provinciale della Flai-Cgil di Bari (la Federbraccianti di oggi) – continuano ad essere reclutati attraverso il caporale, non necessariamente in piazza, magari col cellulare. È lui che decide chi, dopo una giornata che ancora adesso inizia alle tre del mattino, porterà a casa il pane, sulla base di una selezione che tiene conto esclusivamente di quanto il lavoratore ‘si adatta’ alle condizioni di lavoro offerte dal datore». 


Forme di lotta, partecipazione, repressione giudiziaria

Negli anni 1967-71 gli studenti assistono e talvolta partecipano alle forme della lotta bracciantile nei comuni: blocchi stradali e ferroviari, occupazioni di masserie, sequestro di trebbiatrici, in qualche caso abbattimento di alberi e vigneti, occupazioni di municipi e uffici del lavoro, blocco dei mercati, cortei, manifestazioni intercomunali, assemblee in piazza, dove si svolgono consigli comunali e si riscuote la solidarietà istituzionale, di associazioni, scuole e partiti compresa in molti casi la DC locale. È un conflitto duro ma nel complesso disciplinato, maturo, che non conosce le rabbiose esplosioni di violenza incontrollata del passato. È questa coralità impressionante che sconsiglia alle forze dell’ordine un drastico intervento immediato (ma ad Avola, in Sicilia, nel dicembre ’68 esse sparano sui braccianti in sciopero facendo due vittime); poco dopo arriva però la repressione di una magistratura ancora incrostata di mentalità punitiva, che nella sola provincia di Bari – riferisce il procuratore generale nel 1970 – ha aperto procedimenti giudiziari (per blocco stradale e picchettaggio) a carico di 188 braccianti e 85 studenti. I giuristi democratici protestano, i legali del comitato di solidarietà riescono in parte a limitare il danno.


Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 18 agosto 2018