sabato 11 luglio 2020

Luglio '60, la Resistenza continua



L'antifascismo che salvò la giovane repubblica

La nostra repubblica non ha avuto vita facile. La democrazia non è stata acquisita una volta per tutte dopo la guerra e la Liberazione. Sessanta anni fa l’appena quattordicenne repubblica italiana, che si era data una carta costituzionale democratica da soli dodici anni, visse una grave crisi che avrebbe potuto metterne in pericolo la sopravvivenza. Furono i giorni del luglio ’60, quando il neofascismo stava andando al governo e la protesta antifascista l’ebbe vinta non senza un nuovo sacrificio di giovani vite.  
     L’Italia viveva il miracolo economico, usciva dal decennio della ricostruzione e del rilancio; s’intravvedevano il benessere e segnali di sviluppo del Mezzogiorno; ma il sistema politico non rispondeva. La formula di governo centrista non reggeva di fronte alle urgenze delle società. Nel partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, si faceva strada l’idea di una necessaria apertura a sinistra, verso il Partito socialista fino a quel momento alleato all’opposizione con i comunisti. Un’idea avversata dalla gran parte più conservatrice dello stesso partito cattolico, oltre che dalla classe imprenditoriale e agraria, perché ciò avrebbe comportato il rischio delle sempre odiate riforme sociali e del riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori. In questo frangente critico viene escogitata a marzo del ’60 una soluzione che non risolve, che anzi va nel senso opposto: un governo monocolore democristiano, presieduto da Fernando Tambroni e retto dal voto parlamentare del partito neofascista, il Msi, mentre tutti gli altri partiti (compresi gli ex alleati della Dc) votano contro. Per la prima volta (e unica, fino al 1994) gli eredi politici di Mussolini entrano nella maggioranza di governo, e con un peso determinante. 
     Il tentativo suscita nel Paese l’opposizione di tutte le forze antifasciste, ma il governo resta in piedi qualche mese finché non è proprio il Msi a compiere il passo più lungo della gamba: sfida l’antifascismo annunciando il proprio congresso nazionale il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Memore di aver costretto i tedeschi alla resa nel ‘45, Genova insorge; il 25 giugno incominciano gli scioperi, che si allargano. La risposta del governo è insensata: vengono opposti intralci e divieti alle manifestazioni antifasciste, un corteo di giovani viene caricato dalle camionette della polizia. Genova resiste e il 28 è il partigiano Sandro Pertini, futuro presidente della repubblica, a pronunciare dal palco parole di sdegno dinanzi a una folla di decine di migliaia di persone. La rivolta si estende nel Paese, si intreccia con le proteste sindacali e soprattutto con la vertenza nazionale dei braccianti, che in Puglia arriva al culmine di un anno di conflittualità; a San Ferdinando la polizia spara e ferisce tre braccianti, facendo temere il tragico ripetersi dell’eccidio ivi perpetrato nel 1948 per mano di squadristi fascisti che assalirono lavoratori dei partiti di sinistra. Ancora spari e una vittima a Licata, in Sicilia; a Roma (dove fervono i preparativi per le Olimpiadi) i carabinieri a cavallo guidati dall’olimpionico Raimondo D’Inzeo caricano i manifestanti, come nell’Ottocento, la polizia arresta il deputato comunista Ingrao. La tragedia arriva il 7 luglio, a Reggio Emilia, dove la sparatoria delle forze dell’ordine falcia cinque dimostranti; e si ripete a Palermo e a Catania, con altre tre vittime. A questo punto il movimento di opposizione diventa generale. Il congresso del Msi salta, nel parlamento il ministro dell’Interno Spataro è duramente criticato, le federazioni giovanili di tutti i partiti antifascisti (Dc compresa) chiedono le dimissioni di Tambroni e lo scioglimento del Msi in quanto ricostituito partito fascista. A Bari il consiglio comunale viene interrotto in segno di lutto, a Napoli durante il comizio di protesta prende la parola Eduardo De Filippo. E finalmente, il 27 luglio, Tambroni cade. L’irresponsabile esperimento fallisce, la presidenza del consiglio passa a Fanfani il quale, con l’astensione socialista, prepara il centro-sinistra “organico” (Psi nel governo) che si realizzerà con Moro nel 1963 dopo essere stato “anticipato” al comune di Bari nel 1962. E sarà l’inizio di un’altra storia, non priva di aspre contraddizioni, e tuttavia in consonanza con il rafforzamento dei diritti, con l’allargamento della partecipazione, grazie anche agli spazi che l’opposizione politica e sociale poté conquistarsi.   
     Quella del luglio ’60 fu la vittoria a caro prezzo di una ricostituita unità antifascista («la Resistenza continua», proclamava uno striscione genovese), che vide fra i protagonisti l’Anpi, l’associazione partigiana (il cui presidente Arrigo Boldrini ebbe l’abitazione incendiata dai neofascisti in quei giorni), non solo custode della memoria, ma attiva propugnatrice della Costituzione. Soprattutto, fu il momento rivelatore di una nuova generazione, i giovani dalle “magliette a strisce”, operai e studenti che nella eredità della lotta di Liberazione credettero sul serio. Fiorì il canto sociale: dal gruppo di Cantacronache (cui collaboravano scrittori come Calvino, Fortini, Eco) nacque nel 1960 la canzone Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei, che diventò l’inno antifascista dei giovani del ‘68 («Di nuovo come un tempo sopra l’Italia intera / urla il vento e soffia la bufera /… Uguale è la canzone che abbiamo da cantare: / Scarpe rotte eppur bisogna andare!»). Nei decenni seguenti, gli attentati contro la democrazia si ripeterono, dal “piano Solo” del 1964 alla bomba di piazza Fontana, dal disegno  stragista e terrorista degli anni ’70 alla loggia P2. La democrazia ha resistito. Poi ha avuto inizio una storia diversa e complicata, quella recente, che non dobbiamo raccontare qua.

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 luglio 2020