L'antifascismo che salvò la giovane repubblica
La nostra
repubblica non ha avuto vita facile. La democrazia non è stata acquisita una
volta per tutte dopo la guerra e la Liberazione. Sessanta anni fa l’appena
quattordicenne repubblica italiana, che si era data una carta costituzionale
democratica da soli dodici anni, visse una grave crisi che avrebbe potuto
metterne in pericolo la sopravvivenza. Furono i giorni del luglio ’60, quando
il neofascismo stava andando al governo e la protesta antifascista l’ebbe vinta
non senza un nuovo sacrificio di giovani vite.
L’Italia
viveva il miracolo economico, usciva dal decennio della ricostruzione e del
rilancio; s’intravvedevano il benessere e segnali di sviluppo del Mezzogiorno;
ma il sistema politico non rispondeva. La formula di governo centrista non
reggeva di fronte alle urgenze delle società. Nel partito di maggioranza, la
Democrazia cristiana, si faceva strada l’idea di una necessaria apertura a
sinistra, verso il Partito socialista fino a quel momento alleato
all’opposizione con i comunisti. Un’idea avversata dalla gran parte più conservatrice
dello stesso partito cattolico, oltre che dalla classe imprenditoriale e agraria,
perché ciò avrebbe comportato il rischio delle sempre odiate riforme sociali e
del riconoscimento di alcuni diritti dei lavoratori. In questo frangente
critico viene escogitata a marzo del ’60 una soluzione che non risolve, che
anzi va nel senso opposto: un governo monocolore democristiano, presieduto da
Fernando Tambroni e retto dal voto parlamentare del partito neofascista, il
Msi, mentre tutti gli altri partiti (compresi gli ex alleati della Dc) votano
contro. Per la prima volta (e unica, fino al 1994) gli eredi politici di
Mussolini entrano nella maggioranza di governo, e con un peso determinante.
Il
tentativo suscita nel Paese l’opposizione di tutte le forze antifasciste, ma il
governo resta in piedi qualche mese finché non è proprio il Msi a compiere il
passo più lungo della gamba: sfida l’antifascismo annunciando il proprio
congresso nazionale il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro della
Resistenza. Memore di aver costretto i tedeschi alla resa nel ‘45, Genova
insorge; il 25 giugno incominciano gli scioperi, che si allargano. La risposta
del governo è insensata: vengono opposti intralci e divieti alle manifestazioni
antifasciste, un corteo di giovani viene caricato dalle camionette della
polizia. Genova resiste e il 28 è il partigiano Sandro Pertini, futuro
presidente della repubblica, a pronunciare dal palco parole di sdegno dinanzi a
una folla di decine di migliaia di persone. La rivolta si estende nel Paese, si
intreccia con le proteste sindacali e soprattutto con la vertenza nazionale dei
braccianti, che in Puglia arriva al culmine di un anno di conflittualità; a San
Ferdinando la polizia spara e ferisce tre braccianti, facendo temere il tragico
ripetersi dell’eccidio ivi perpetrato nel 1948 per mano di squadristi fascisti
che assalirono lavoratori dei partiti di sinistra. Ancora spari e una vittima a
Licata, in Sicilia; a Roma (dove fervono i preparativi per le Olimpiadi) i
carabinieri a cavallo guidati dall’olimpionico Raimondo D’Inzeo caricano i
manifestanti, come nell’Ottocento, la polizia arresta il deputato comunista
Ingrao. La tragedia arriva il 7 luglio, a Reggio Emilia, dove la sparatoria
delle forze dell’ordine falcia cinque dimostranti; e si ripete a Palermo e a
Catania, con altre tre vittime. A questo punto il movimento di opposizione
diventa generale. Il congresso del Msi salta, nel parlamento il ministro
dell’Interno Spataro è duramente criticato, le federazioni giovanili di tutti i
partiti antifascisti (Dc compresa) chiedono le dimissioni di Tambroni e lo
scioglimento del Msi in quanto ricostituito partito fascista. A Bari il
consiglio comunale viene interrotto in segno di lutto, a Napoli durante il
comizio di protesta prende la parola Eduardo De Filippo. E finalmente, il 27
luglio, Tambroni cade. L’irresponsabile esperimento fallisce, la presidenza del
consiglio passa a Fanfani il quale, con l’astensione socialista, prepara il
centro-sinistra “organico” (Psi nel governo) che si realizzerà con Moro nel
1963 dopo essere stato “anticipato” al comune di Bari nel 1962. E sarà l’inizio
di un’altra storia, non priva di aspre contraddizioni, e tuttavia in consonanza
con il rafforzamento dei diritti, con l’allargamento della partecipazione,
grazie anche agli spazi che l’opposizione politica e sociale poté
conquistarsi.
Quella del luglio ’60 fu la vittoria a caro prezzo di una
ricostituita unità antifascista («la Resistenza continua», proclamava uno
striscione genovese), che vide fra i protagonisti l’Anpi, l’associazione
partigiana (il cui presidente Arrigo Boldrini ebbe l’abitazione incendiata dai
neofascisti in quei giorni), non solo custode della memoria, ma attiva
propugnatrice della Costituzione. Soprattutto, fu il momento rivelatore di una
nuova generazione, i giovani dalle “magliette a strisce”, operai e studenti che nella eredità della lotta di Liberazione credettero
sul serio. Fiorì il canto sociale: dal gruppo di Cantacronache (cui collaboravano
scrittori come Calvino, Fortini, Eco) nacque nel 1960 la canzone Per i morti di Reggio Emilia di Fausto
Amodei, che diventò l’inno antifascista dei giovani del ‘68 («Di nuovo come un tempo sopra l’Italia intera / urla il vento e soffia la
bufera /… Uguale è la canzone che abbiamo da cantare: / Scarpe rotte eppur
bisogna andare!»). Nei decenni seguenti, gli attentati contro la democrazia si
ripeterono, dal “piano Solo” del 1964 alla bomba di piazza Fontana, dal
disegno stragista e terrorista degli
anni ’70 alla loggia P2. La democrazia ha resistito. Poi ha avuto inizio una
storia diversa e complicata, quella recente, che non dobbiamo raccontare qua.
Pasquale
Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 luglio
2020