domenica 8 dicembre 2013

Livio


La fine dei duellanti
Il lungo confronto fra Annibale e Scipione


Il libro XXXIX di Tito Livio include il racconto della morte di Annibale: un personaggio che, protagonista della decade riservata alla seconda guerra punica (libri XXI-XXX), ricompare nei libri successivi come figura per cosí dire eccentrica, ritratta nel mezzo di singoli e rapsodici episodi. Battuto a Zama, esule da Cartagine per sottrarsi alla vendetta dei Romani, appare nel ventennio successivo alla sconfitta cartaginese come una individualità irregolare: un sopravvissuto e un profugo “militante”, un nemico di Roma non rassegnato ma ormai ramingo e senza patria, un avventuriero, consigliere militare e agente al servizio di regni “antimperialisti”, almeno potenzialmente (prima la Siria di Antioco III, poi – dopo la sconfitta di questa – la Bitinia dell’ambiguo Prusia I). Ma nel momento della morte Livio ripropone il confronto fra Annibale e Scipione, stimolato anche da una tradizione storiografica che ama trovare le coincidenze, in questo caso la scomparsa quasi contemporanea, nello stesso anno, dei due grandi antagonisti, il Cartaginese e il Romano. Vale la pena, dunque, raggruppare e leggere contestualmente alcuni passi liviani che forniscono elementi per alimentare il confronto fra le due personalità e le due vicende umane.
Il primo brano (Ab Urbe condita XXXV, 14), raccoglie quello che si presenta come un aneddoto, di veridicità discutibile, ma per certi versi interessante. Sono raccontati, infatti, un incontro e una conversazione che sarebbero avvenuti fra Annibale e Scipione, in Asia, circa nel 193 a.C., prima della guerra siriaca. I due antagonisti in verità si erano già incontrati faccia a faccia nel 202 a.C., in Africa, per vane trattative di pace alla vigilia della battaglia di Zama. Il dialogo svoltosi in quella prima occasione è riferito da Livio con forte risalto, attraverso la presentazione di due discorsi, vere e proprie orazioni (XXX, 30-31). Già in tale circostanza lo storico aveva scritto: «si incontrarono quei due condottieri, i piú grandi non solo del loro tempo, ma di valore pari a qualunque re o condottiero di ogni altra nazione in tutte le età precedenti» (XXX, 30, trad. B. Ceva). Il parallelo Annibale-Scipione – che sottintende l’interrogativo su chi dei due massimi condottieri sia stato il primo in assoluto – è inevitabilmente sotteso a tutta la vicenda che li vede fronteggiarsi, nelle armi come nel contrasto verbale.

Lo stesso parallelo torna, in chiave aneddotica e quasi umoristica, nell’episodio qui riportato. Nove anni dopo Zama i due nemici si incontrano di nuovo in Asia, a Efeso. Annibale è consigliere del re Antioco III e l’Africano fa parte di una delegazione senatoria incaricata di valutare il rischio di guerra da parte del re seleucide. In un clima di cordialità, Scipione chiede ad Annibale chi sia stato a suo giudizio il migliore di tutti i generali. Lo stile narrativo è molto diverso da quello oratorio e paludato del primo incontro: la conversazione è brevemente riassunta mediante una colloquiale oratio obliqua. In un rapido «botta e risposta», il Cartaginese offre una graduatoria di merito, che colloca al primo posto Alessandro Magno, al secondo Pirro, al terzo lo stesso Annibale. A questo punto arrivano le due battute finali, in discorso diretto, che concentrano lo humour della storia. Incredulo e divertito per la presunzione del Cartaginese, Scipione gli domanda: «E che diresti di te se mi avessi sconfitto?» Risposta: «Allora mi sarei guadagnato il primo posto!».

Il senso della battuta conclusiva, secondo Livio – ma anche secondo Plutarco (Flaminino 21) e Appiano (Storia siriaca 10), i quali pure riferiscono l’aneddoto – sarebbe stato di rivolgere un implicito e tortuoso elogio a Scipione, quasi innalzandolo al rango di "fuori classe" tra i comandanti militari di tutti i tempi. Le radici di questa scena dialogica affondano forse nel gusto ellenistico dei «canoni» di grandi uomini, nel topos inevitabile della comparazione fra Greci e Romani, e nel ricorrente raffronto, in particolare, tra i geniali strateghi del mondo ellenico – Alessandro, il migliore di tutti (IX, 17), ma anche Pirro – cui l’autostima di Annibale lo induce ad associarsi, e i vincenti parvenus romani, un po’ faziosamente (e snobisticamente) retrocessi dai primi posti. 

Allo scoppio della guerra siriaca, i duellanti sono di nuovo avversari in armi, sia pure per interposta persona: Annibale è consulente di Antioco, Scipione di suo fratello Lucio che comanda le legioni. Conclusa la pace di Apamea (188 a.C.), la scena del racconto liviano si trasferisce a Roma, per rappresentare il dramma degli Scipioni e della loro caduta politica (vicenda, questa, narrata nel libro XXXVIII). L. Cornelio Scipione l’Asiatico, vincitore della Siria con l’aiuto determinante di suo fratello, è incriminato per appropriazione indebita nel quadro di un’aspra lotta interna contro l’egemonia del clan scipionico: gli si chiede conto delle ingenti somme versate da re Antioco privatamente nelle sue mani. Anche l’Africano è chiamato in causa e duramente accusato dai tribuni della plebe: risponde con un discorso pubblico vibrante di sdegno, riuscendo ancora una volta a conquistare il cuore del popolo romano. Ma «questo fu l’ultimo giorno luminoso per Scipione» (XXXVIII, 52, 1); da quel momento, adirato con la sua città, si ritirò in campagna, nella villa di Literno. Era l’anno 184 a.C., e all’Africano poco piú che cinquantenne, provato dalla devastante battaglia giudiziaria iniziatasi tre anni prima, restava poco da vivere: fu come se la sua resistenza psico-fisica si fosse spezzata.

Nel secondo passo (XXXVIII, 52-53) Livio riferisce il volontario esilio del grande generale, la morte, le ultime volontà di non tornare a Roma neppure defunto: «L’ingrata patria non avrà le mie ossa». E fa un bilancio della sua vita, dividendola nettamente in due parti: la prima splendida, coronata dall’immensa vittoria punica, di cui egli porta il merito da protagonista esclusivo; la seconda mediocre, vissuta da modesto comprimario (Livio deprezza ingiustamente il contributo dell’Africano alla vittoria siriaca), avvilito infine dalle contestazioni giudiziarie, dall’inimicizia politica e dal confino inflitto a se stesso. Uomo grande nella guerra, insignificante nella pace. Col che sembra chiudersi il cerchio della lettura liviana, a luci e ombre, di una tale personalità: Scipione audace, carismatico, ingannatore (XXVI, 19), moralmente irreprensibile e freddo calcolatore (XXX, 14), giovane glorioso e vecchio condannato a un oscuro declino.

Se non che, a epigrafe – per cosí dire – già dettata, si riparla di Scipione nel libro XXXIX, quando tocca ad Annibale andarsene da questo mondo. E Livio riprende – in realtà per confutarla – la notazione condivisa a suo dire da storici greci e latini, secondo cui nel medesimo anno 183 a.C. morirono i due nemici, nonché un terzo stratega, il generale greco Filopemene, animatore della Lega Achea (XXXIX, 50 e 52). La rilevazione di tale concomitanza s’intravede nei pur frammentari resconti di Polibio (Storie XXII, 12) – citato, questo, da Livio – e di Diodoro (Biblioteca storica XXIX, 18-20); ma lo storico romano dedica quasi un intero capitolo (Ab Urbe condita XXXIX, 52) a dimostrare – con risultati invero poco convincenti – che il decesso di Scipione dovrebbe essere avvenuto un anno prima. Però accetta l’accostamento dei duellanti e del Greco, in quanto morirono tutti in esilio e in stato di decadenza, e non furono sepolti in patria (XXXIX, 52). Subito prima di questo capitolo si colloca il breve e intenso racconto della fine di Annibale (XXXIX, 51).

Il vecchio combattente (sessantatreenne o, secondo Cornelio Nepote, settantenne) è ancora in fuga: dopo la sconfitta della Siria seleucide si è ritirato presso il re Prusia I di Bitinia, e ha offerto a lui  la sua preziosa consulenza militare nella guerra contro la filo-romana Pergamo. Ma Prusia non intende scontrarsi frontalmente con la potenza di Roma: ne accetta la mediazione per comporre il contenzioso con il re pergameno Eumene II. A questo punto l’ora del Cartaginese è scoccata.  

È Flaminino, il vincitore della seconda guerra macedonica, a presentarsi a Nicomedia nella reggia di Prusia, per reclamare la consegna di Annibale. Qui si apre una specie di (sottintesa) controversia storiografica, che poggia su versioni differenti relative a vari aspetti. Una questione è tutto sommato meno rilevante: se a circondare militarmente la residenza di Annibale furono i Bitini – come si comprende dal ragguaglio liviano – o i Romani, come sembrerebbe di capire da Cornelio Nepote (Vitae excellentium imperatorum, Hannibal 11). Nel secondo caso, Prusia avrebbe solo tollerato che i Romani agissero sul suolo bitinico. Ma nella storia Ab Urbe condita le ultime parole del Cartaginese sono proprio contro il fellone re di Bitinia, traditore dell’ospitalità. Piú decisivo, invece, è l’altro aspetto sul quale si manifestano spiegazioni differenti. Flaminino procedé contro Annibale su mandato senatorio o per iniziativa personale? Questa seconda tesi è avanzata da Appiano, il quale, inoltre, in modo esplicito mette a confronto «la magnanimità di Annibale e di Scipione e la meschinità di Flaminino» (Storia siriaca 11); il paragone è anche in Plutarco (Flaminino 21), secondo il quale il senato venne informato a posteriori della iniziativa di Flaminino e della conseguente morte di Annibale: dal che nacquero aspri commenti e raffronti tra la clemenza dell’Africano che non aveva perseguitato il nemico sconfitto, e lo sciacallaggio (diremmo oggi) di Flaminino che per farsi bello aveva infierito su un uomo oramai innocuo.  

Il disaccordo circa la reale dinamica dei fatti che determinarono la morte di Annibale ha origine probabilmente da motivazioni contingenti di polemica politica interna, fra chi aveva interesse a fregiarsi del risultato e chi, viceversa, intendeva mettere in ombra la primaria responsabilità dello Stato romano. Lo stesso Plutarco riferisce anche la tesi alternativa, che Flaminino fosse stato inviato come emissario di Roma con il preciso incarico di liquidare Annibale. Livio sembra aderire a questa versione, in quanto dice che Flaminino si recò da Prusia come legatus, dunque con un mandato ufficiale; ma adombra un’altra possibilità, che la consegna del Cartaginese vivo o morto sia stato un regalo spontaneo di Prusia per ingraziarsi i nuovi padroni del mondo. Ma in un modo o nell’altro era Roma a voler chiudere il conto. Del resto, Annibale nelle sue ultime parole afferma ironicamente di avere l'intenzione, suicidandosi, di «liberare il popolo romano dal suo incubo permanente». Lo stesso Africano, nelle circostanze date, non avrebbe forse agito diversamente. Anzi, nell’esposizione liviana era stato Scipione in persona, e in piú d’una occasione, a reclamare la consegna di Annibale: dai Cartaginesi subito dopo Zama, quando il generale battuto aveva appena lasciato l’Africa (Ab Urbe condita XXX, 37); da Antioco all’indomani della battaglia di Magnesia, quando Annibale fu costretto di nuovo a fuggire (XXXVII, 45).

Il capitolo è diviso in due sequenze. La prima è ambientata nella reggia di Nicomedia: descrive sommariamente l’arrivo di Flaminino e il suo abboccamento con Prusia. La seconda è ambientata nel palazzo bitinico di Annibale (altre fonti tramandano il nome della località, Libissa): il punto di vista narrativo è trasferito in quello individuale del vecchio nemico. Il Cartaginese ha sempre presentito questo momento, e la notizia dell’arrivo di Flaminino a Nicomedia lo ha fatto trasalire. Abituato a vigilare ininterrottamente sulla propria incolumità, ha predisposto sette vie di fuga dal palazzo. Ma deve prendere atto che tutte sono state circondate da uomini armati. Donde, con naturalezza e quasi con serenità, la decisione di compiere il gesto programmato da tempo: assumere il veleno predisposto ad hoc. La sua morte assomiglia agli exitus virorum illustrium, i modi di affrontare nobilmente la morte da parte di personalità vittime della fortuna, del tradimento, della crudeltà di un tiranno. E nel discorso di congedo dalla vita Livio gli attribuisce accenti propri di un Romano d’altri tempi: sono parole di rimpianto per la magnanimità e la grandezza degli uomini antichi, di deprecazione per la meschinità e slealtà dei loro immeritevoli epigoni.

Pasquale Martino
da: Livio, Antologia di passi tratti dai libri Ab Urbe condita, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2009

Immagini: busti di Annibale e di Scipione.

venerdì 6 dicembre 2013

Virgilio


Il corteo storico
libro VI dell'Eneide

 
Nel libro VI è narrata la discesa agli Inferi di Enea, che vi incontra lo spirito del padre Anchise; questi gli rivela il destino dei suoi discendenti, profetizza la missione universale di Roma e gli fa conoscere i grandi Romani dei secoli venturi, sotto forma di anime che soggiornano nell’Ade in attesa di raggiungere i corpi cui sono destinate. L’episodio (vv. 752-887) si può dividere in sequenze:




1) presentazione della serie dei re di Alba, a partire da Silvio qui considerato figlio di Enea (vv. 756-776);
    2) apparizione di Romolo, il primo dei re di Roma, e subito dopo di Augusto, il nuovo Romolo, del quale si celebra la gloria futura (vv. 777-807);
    3) presentazione dei re di Roma e degli eroi repubblicani, fra i quali il primo console Bruto, i Deci, L. Manlio Torquato, Camillo, Mummio, Catone, gli Scipioni, Fabrizio, Fabio Massimo (vv. 808-846; i vv. 826-835 sono riferiti a Cesare e a Pompeo);
     4) enunciazione della missione imperiale dei Romani (vv. 847-853);
     5) presentazione dei Marcelli e «epicedio» (dal greco epikédeion, «compianto funebre») per il giovane Marcello destinato a morte precoce (vv. 854-886).
 
La rassegna dei grandi di Roma è cosí concepita: Anchise,
Enea e la Sibilla accompagnatrice salgono su un’altura dalla quale possono meglio distinguere le figure e i volti dei personaggi (anime in attesa di incarnarsi, secondo la concezione orfico-pitagorica); la scena sarà ripresa nel IV canto dell’Inferno dantesco, quando Virgilio mostrerà a Dante gli «spiriti magni» dell’antichità. Gli eroi appaiono in fila, quasi in processione, secondo una prospettiva non dissimile da quella rappresentata nei posteriori rilievi dell’Ara Pacis, suggerita anche, forse, dall’uso – attestato da Polibio – di portare nei cortei funebri le immagini degli antenati. L’originalità è che qui si tratta di un corteo di personaggi non defunti né viventi, ma “imminenti”. Va da sé che Virgilio compie una scelta: dei re albani sono nominati soltanto alcuni fra quelli altrimenti attestati, e in ordine apparentemente casuale; ciò vale a maggior ragione per i molti eroi repubblicani. Significativo è l’abbinamento Romolo-Augusto; il primo è menzionato subito dopo la serie dei re albani, ma, prima di proseguire la serie dei re romani, Virgilio inserisce Augusto col pretesto di presentare la gens Iulia; egli è appunto il nuovo Romolo, colui che in qualche modo ha rifondato Roma riportandola alla purezza delle origini e estendendo l’impero «oltre le stelle».

Ancor piú interessante è il modo in cui è presentata la figura di Cesare: non si fa menzione esplicita di lui (tranne forse che al v. 789, dove però potrebbe trattarsi ancora di Augusto), nemmeno quando compare nella sfilata insieme con Pompeo (neanche lui nominato), costituendo la coppia di autori della sciagurata guerra civile. Dunque Cesare – che pure è il Divus la cui paternità è stata decisiva per l’avvio della carriera di Ottaviano (Divi genus, v. 792) – viene rimosso e, per cosí dire, messo tra parentesi, come responsabile di un eccessivo spargimento di sangue romano. Un tassello rilevante del mosaico politico e ideologico augusteo è la presa di distanze dal grande antesignano, funzionale a presentare il princeps Augusto come l’estirpatore delle lunghe guerre civili (lui, che ne aveva provocate altre!) e l’instauratore della pace universale. Non si può escludere, peraltro, che in questo passaggio di ripudio della guerra civile Virgilio intenda esprimere il suo personale orrore per tali guerre (delle quali aveva fatto amara esperienza) e l’auspicio che il nuovo signore di Roma se ne astenga d’ora in poi fermamente. La tendenza alla riprovazione dell’operato di Cesare e alla affermazione di una discontinuità fra Cesare e Augusto si può osservare anche in Tito Livio, contemporaneo di Virgilio, il quale si chiedeva se la nascita di Cesare fosse stato un bene o un male per Roma, e non nascondeva una riabilitazione di Pompeo. Del resto se si confronta il pur breve catalogo di grandi Romani offerto nelle Georgiche (II, 169-172) si nota che i Deci, Camillo, gli Scipioni ricompaiono nel corteo storico dell’Ade (VI, 824-825), Caio Mario invece sparisce: certo perché non fu soltanto il vincitore di Giugurta e dei Cimbri (motivo per cui era citato con onore nell’opera piú antica) ma anche il coautore con Silla della prima terrificante guerra civile. La linea di interpretazione storico-ideologica delle vicende romane contemporanee si era andata affinando e puntualizzando nei primi anni del principato trionfante, probabilmente attraverso un dibattito di posizioni comunque tollerate dal regime. Perfino Catone l’Uticense, campione del senato e avversario implacabile di Cesare, veniva rivalutato; ed è quasi certamente lui il Catone citato da Virgilio nell’ultima rassegna di «grandi» (libro VIII) raffigurati sullo scudo di Enea, subito dopo il reprobo Catilina, altro sobillatore di conflitti intestini e perciò punito negli Inferi, mentre l’Uticense vigila sulle anime dei pii (VIII, 668-670): del che si ricorderà Dante quando affiderà a Catone il suo Purgatorio.

Segue la celeberrima definizione, per bocca di Anchise, della peculiare funzione dei Romani nel mondo. Il termine di paragone, innominato, sono i Greci, il popolo che vantava piú d'un primato, anzi contendeva ai Romani l'eccellenza fra i popoli. Ai Greci è concessa la supremazia – evidentemente innegabile (credo equidem) – nelle arti della scultura bronzea e marmorea, nella retorica, nell'astronomia, probabilmente con implicita estensione alla cultura in generale; ai Romani è assegnata l'arte (haec tibi erunt artes) del dominio militare e politico sui popoli: dominio che è una realtà anche questa innegabile, sebbene trionfalisticamente esagerata (v. 287). La "sentenza" virgiliana arriva dopo quasi due secoli di dibattito sulla questione del rapporto fra le civiltà di Grecia e di Roma, di confronto tra filellenismo e antiellenismo. Già Cicerone, pur essendo un cultore e un teorico della humanitas, aveva rivendicato il predominio dei Romani nell'arte politica (De re publica) ma anche nell'arte oratoria (De oratore): due attività solidalmente unite, che nella visione ciceroniana costituivano la piú alta forma di abilità dell'essere umano e da cui derivava la supremazia generale dei Romani sui Greci. Virgi­lio non si esprime ufficialmente circa la contesa fra le arti, ma lascia intendere che il primato va al "governo mondiale", di pertinenza romana. Risuona in lui, come in Livio (l'altro grande "provinciale" contemporaneo), l'orgoglioso sentimento di potenza per cui il Romano dovrà «perdonare» i popoli che si sottomettono (parcere subiectis) e «sgominare» quelli che rifiutano di piegarsi (debellare superbos), e per questa via «imporre la pace»: slogan propagandistico di tutti gli imperi "gendarmi del mondo", passati e presenti; uno slogan che il capo barbaro Calgaco – nel discorso attribuitogli da Tacito (Agricola, 30) – demistificherà radicalmente: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, «dove (i Romani) portano la desolazione, la chiamano pace».

Infine, l’episodio di Marcello. Questi è il giovanissimo erede designato del princeps, morto a diciannove anni nel 23 a.C. Il ragazzo compare all’improvviso quando la rassegna e la processione sembravano concluse: è accanto al grande avo M. Claudio Marcello, vincitore dei Galli a Casteggio. Egli è protagonista di una scena autonoma e tutta sua: è l’unico personaggio pervaso da una delicata atmosfera di tristezza, quasi presago dell’avvenire infelice che gli è riservato. Certo, anche questa è celebrazione della domus augustea; ma qui si può percepire la peculiare sensibilità di Virgilio nei confronti della giovinezza spezzata, che ispirerà gli accenti di commiserazione dedicati a Pallante, Lauso, Camilla. L’episodio non è strettamente indispensabile al sistema ideologico cui lo scrittore è chiamato a dare rappresentazione poetica. Ci piace pensare che esso, come la ripulsa della guerra civile, costituisca uno degli spazi di libera espressione che il poeta si concede e ricava nella sua opera; e che proprio per questo abbia sorpreso Augusto e sua sorella Ottavia – madre di Marcello – durante la recitazione del libro VI, come racconta Elio Donato, commuovendo la donna fino alla perdita dei sensi. 

Pasquale Martino

da: Virgilio, Antologia di passi tratti dalle Bucoliche, dalle Georgiche e dall'Eneide, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007.


La prima immagine: Francesco Del Cairo, Enea negli Inferi.
dal sito: http://fe.fondazionezeri.unibo.it/catalogo/


Messala Corvino

L’ozio che fece nascere l’elegia


Scavi della villa di Messala Corvino a Ciampino
Neanche il tempo di rallegrarsi per il rinvenimento della grande villa romana di Ciampino, avvenuto l’estate scorsa e ampiamente divulgato dalla stampa alcuni mesi or sono, e già su quell’area archeologica – è notizia di questi giorni – incombono allarmanti progetti edificatori. La colata di cemento contro cui protesta la cittadinanza attiva si fermerà – sembra – a pochi metri dal sito, rovinandone irrimediabilmente il contesto paesaggistico. Sarà bene perciò tornare sull’importanza di quella scoperta per la conoscenza della civiltà e della letteratura latina.


A quanto pare il sito archeologico, dove sono stati rinvenuti statue e frammenti riferibili al mito di Niobe, è proprio quello della grande villa di Marco Valerio Messala Corvino. Sulle tubature del quartiere termale – riferiscono le cronache – è inciso il nome Valerii Messallae, il che è più di un indizio; gli archeologi stabiliranno la datazione della villa, sembra però difficile a questo punto immaginare che l’imponente struttura sia appartenuta ad altri che alla nobile famiglia di Messala (Messalla) Corvino, di antica origine repubblicana e perpetuatasi dopo l’età augustea, ma che nei 45 anni di Augusto (31 a.C. – 14 d.C.)  raggiunse l’apice del suo splendore.

L’interesse immediato verte sul ciclo scultoreo che rievoca la tragica vicenda di Niobe privata dei suoi figli, e sul nesso fra l’opera figurativa e il racconto che si legge nelle Metamorfosi di Ovidio, protegé di Messala Corvino. Ma noi approfittiamo per richiamare l’attenzione piuttosto sulla figura del protettore stesso, questo singolare concorrente e antagonista di Mecenate, nonché patrocinatore di una produzione letteraria di opposizione rispetto a quella augustea.  

Marco Valerio era un patrizio di eccellente formazione intellettuale, che da giovane non aveva esitato a difendere la tradizione senatoria schierandosi contro Giulio Cesare, l’inventore di una tirannide semilegale basata su parvenus, soldati e ceti popolari. Perciò Messala aveva combattuto a Filippi (42 a.C.) dalla parte di Bruto e Cassio, i tirannicidi. Dopo la sconfitta e la morte dei suoi capi, gli toccò scegliere fra gli unici due concorrenti rimasti in campo: Antonio e Ottaviano, entrambi eredi di Cesare. Optò per il secondo, che al dispotismo orientaleggiante del primo opponeva un formale rispetto per le istituzioni repubblicane. In questo scontro decisivo faceva comodo a Ottaviano allearsi con la nobiltà, perciò assunse il consolato in coppia con Messala Corvino nel 31 a.C., l’anno in cui la vittoria contro Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio gli spianò la via del principato.

Messala pareva soddisfatto da questo compromesso, e celebrò anche un suo corteo trionfale nel 27 a.C., l’anno in cui Ottaviano fu insignito dell’appellativo di Augusto. Ma poco dopo il rapporto fra i  due si ruppe. Nel 26 a.C. Augusto voleva cucire addosso a Marco Valerio una nuova carica da lui concepita: la prefettura dell’Urbe; Messala sembra accettare, ma subito si dimette, dichiarando che questa è una «magistratura illegale» (incivilem potestatem esse contestans); in effetti, non ve n’era traccia nelle istituzioni della repubblica. Da allora si ritira, di fatto, a vita privata, limitandosi a partecipare in sordina alle sedute del senato. Non era più il tempo di opposizioni aperte, ma se mai di larvati dissensi. Solo 24 anni dopo, nel 2 a.C., l’ormai vecchio Marco Valerio riassume un ruolo attivo prendendo la parola per proporre al senato di attribuire ad Augusto il titolo di Pater Patriae, e lo avrà fatto senza dubbio per un calcolo di convenienza. La sua famiglia finì con l’imparentarsi con quella del principe, e dalle propaggini nacque fra gli altri Valeria Messalina, la futura “imperatrice” moglie di Claudio.

Nel fratttempo, però, l’ozio dell’ex console aveva fatto fiorire un cenacolo intellettuale di tutto rispetto. Tanto per cominciare, al circolo di Messala Corvino si deve il più cospicuo gruppo che si sia conservato di testi latini scritti da una donna prima del cristianesimo: le poesie di Sulpicia (nipote di Messala). In secondo luogo, molto significativo è che in quell’entourage si sperimenti un genere poetico minore se non marginale, l’elegia, ben diverso dalla tragedia, dall’epica e dalla lirica praticate dagli augustei Vario Rufo, Virgilio e Orazio, cui è demandata la funzione di comunicare i valori fondanti del principato: l’impero, la patria, l’eroismo guerriero, la religione e la morale tradizionale. L’elegia si occupa invece di amori, di eros, di beghe fra amanti, di mitologie secondarie, di tormenti sentimentali e sensazioni che si provano aggirandosi per i sentieri di campagna o per i vicoli di Roma. Una letteratura disimpegnata: il che, all’epoca, è il massimo della presa di distanza dall’“impegno” che la cultura ufficiale richiede.

Fra l’altro, Messala Corvino componeva versi che però non ci sono pervenuti, così come non abbiamo le orazioni per le quali era famoso (di certo fu un oratore più bravo di Augusto, il quale leggeva i propri discorsi e per di più con tono monocorde). Il fiore di serra del suo circolo è l’elegiaco Tibullo, il poeta meno “schierato” che l’età augustea conosca, e il più esplicitamente pacifista di tutta la letteratura latina: ha orrore per la guerra, non vuole partire per una spedizione militare (sa di che si tratta, ne ha fatto la prova), e si interroga crucciato: «Chi fu quello che per primo costruì le orride armi? Fu un uomo feroce, fu un uomo proprio di ferro!» (Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? /Quam ferus et vere ferreus ille fuit!). Per contrastare l’egemonia di Messala in campo elegiaco, il suo grande competitore Mecenate arruola nel proprio circolo letterario il poeta rivale di Tibullo, il rampante Properzio, cui assegna il compito di scrivere le «elegie romane» riconducibili alla narrazione dell’ideologia augustea.

Poi arriva Ovidio, che ha 10-15 anni meno di Tibullo. Lui stesso riconoscerà in Messala Corvino un patronus, forse esagerando un po’: amico del figlio, frequenta il cenacolo dell’illustre aristocratico, si impratichisce nell’elegia e la rimaneggia a proprio uso e consumo, offrendo ai Romani un nuovo prodotto poetico “leggero” e disinibito, brillante e mondano, ormai del tutto post-augusteo, decisamente distante con la sua Arte di amare dall’austera e paludata ideologia del Padre della Patria. Il bello è che Ovidio è ben addentro nei salotti del principe, specie in quello di Giulia, figlia di Augusto. Ma ciò non gli evita la condanna all’esilio; anzi, forse è proprio tale vicinanza indiscreta a causarla, unitamente alla sua poesia politically uncorrect. E a nulla sarà valso il fatto che abbia prudentemente dedicato anche lui un po’ di rotoli cartacei all’ibrida «elegia romana», compilando nei Fasti il calendario delle festività latine. Neppure l’ex amico Messalino, uno dei mediocri figli del grande Messala Corvino, gli darà una mano per tornare in patria.

Pasquale Martino
Questo articolo è una versione ampliata di quella apparsa su
 «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 26 aprile 2013.


Appendice
Messalla Corvino a Varsavia


Palazzo Krasiński a Varsavia
Curiosamente, il più cospicuo monumento alla memoria di Marco Valerio Messala Corvino è un monumento moderno. Si tratta di un altorilievo raffigurante il trionfo del proconsole romano nel 27 a.C., che lo scultore barocco Andreas Schlueter realizzò per il frontone del palazzo Krasiński, costruito a Varsavia nella seconda metà del XVII secolo e restaurato dopo l’ultima guerra mondiale. I proprietari dell’edificio discendevano dal clan Korwin, ramificazione polacca della antica famiglia ungherese degli Hunyadi, la quale a sua volta si riconosceva erede del patrizio romano; questi, infatti, secondo una tradizione leggendaria, avrebbe posseduto vaste proprietà nei territori della Pannonia, lasciando ivi il seme del proprio lignaggio. Il principale esponente di tale discendenza romana sarebbe stato Mattia Corvino re di Ungheria e Boemia (1443-1490), accreditato come tale dall’umanista e storiografo italiano Antonio Bonfini (1427-1505), che visse alla sua corte.
P.M.

Le fotografie sono tratte dai siti: