La fine dei
duellanti
Il lungo confronto fra Annibale e Scipione
Il lungo confronto fra Annibale e Scipione
Il libro XXXIX
di Tito Livio include il racconto della morte di Annibale: un personaggio che,
protagonista della decade riservata alla seconda guerra punica (libri XXI-XXX),
ricompare nei libri successivi come figura per cosí dire eccentrica, ritratta
nel mezzo di singoli e rapsodici episodi. Battuto a Zama, esule da Cartagine
per sottrarsi alla vendetta dei Romani, appare nel ventennio successivo alla
sconfitta cartaginese come una individualità irregolare: un sopravvissuto e un
profugo “militante”, un nemico di Roma non rassegnato ma ormai ramingo e senza
patria, un avventuriero, consigliere militare e agente al servizio di regni
“antimperialisti”, almeno potenzialmente (prima la Siria di Antioco III, poi – dopo la
sconfitta di questa – la Bitinia dell’ambiguo Prusia I). Ma nel momento della
morte Livio ripropone il confronto fra Annibale e Scipione, stimolato anche da
una tradizione storiografica che ama trovare le coincidenze, in questo caso la
scomparsa quasi contemporanea, nello stesso anno, dei due grandi antagonisti,
il Cartaginese e il Romano. Vale la pena, dunque, raggruppare e leggere
contestualmente alcuni passi liviani che forniscono elementi per alimentare il
confronto fra le due personalità e le due vicende umane.
Il
primo brano (Ab Urbe condita XXXV, 14), raccoglie quello che si presenta come un aneddoto, di
veridicità discutibile, ma per certi versi interessante. Sono raccontati,
infatti, un incontro e una conversazione che sarebbero avvenuti fra Annibale e
Scipione, in Asia, circa nel 193 a.C., prima della guerra siriaca. I due
antagonisti in verità si erano già incontrati faccia a faccia nel 202 a.C., in
Africa, per vane trattative di pace alla vigilia della battaglia di Zama. Il
dialogo svoltosi in quella prima occasione è riferito da Livio con forte
risalto, attraverso la presentazione di due discorsi, vere e proprie orazioni
(XXX, 30-31). Già in tale circostanza lo storico aveva scritto: «si
incontrarono quei due condottieri, i piú grandi non solo del loro tempo, ma di
valore pari a qualunque re o condottiero di ogni altra nazione in tutte le età
precedenti» (XXX, 30, trad. B. Ceva). Il parallelo Annibale-Scipione – che
sottintende l’interrogativo su chi dei due massimi condottieri sia stato il
primo in assoluto – è inevitabilmente sotteso a tutta la vicenda che li vede
fronteggiarsi, nelle armi come nel contrasto verbale.
Lo
stesso parallelo torna, in chiave aneddotica e quasi umoristica, nell’episodio
qui riportato. Nove anni dopo Zama i due nemici si incontrano di nuovo in Asia,
a Efeso. Annibale è consigliere del re Antioco III e l’Africano fa parte di una
delegazione senatoria incaricata di valutare il rischio di guerra da parte del
re seleucide. In un clima di cordialità, Scipione chiede ad Annibale chi sia
stato a suo giudizio il migliore di tutti i generali. Lo stile narrativo è
molto diverso da quello oratorio e paludato del primo incontro: la
conversazione è brevemente riassunta mediante una colloquiale oratio obliqua.
In un rapido «botta e risposta», il Cartaginese offre una graduatoria di merito,
che colloca al primo posto Alessandro Magno, al secondo Pirro, al terzo lo
stesso Annibale. A questo punto arrivano le due battute finali, in discorso
diretto, che concentrano lo humour della storia. Incredulo e divertito
per la presunzione del Cartaginese, Scipione gli domanda: «E che diresti di te
se mi avessi sconfitto?» Risposta: «Allora mi sarei guadagnato il primo
posto!».
Il
senso della battuta conclusiva, secondo Livio – ma anche secondo Plutarco (Flaminino
21) e Appiano (Storia siriaca 10), i quali pure riferiscono l’aneddoto –
sarebbe stato di rivolgere un implicito e tortuoso elogio a Scipione, quasi
innalzandolo al rango di "fuori classe" tra i comandanti militari di tutti i
tempi. Le radici di questa scena dialogica affondano forse nel gusto
ellenistico dei «canoni» di grandi uomini, nel topos inevitabile della
comparazione fra Greci e Romani, e nel ricorrente raffronto, in particolare,
tra i geniali strateghi del mondo ellenico – Alessandro, il migliore di tutti
(IX, 17), ma anche Pirro – cui l’autostima di Annibale lo induce ad associarsi,
e i vincenti parvenus romani, un po’ faziosamente (e snobisticamente)
retrocessi dai primi posti.
Allo
scoppio della guerra siriaca, i duellanti sono di nuovo avversari in armi, sia
pure per interposta persona: Annibale è consulente di Antioco, Scipione di suo
fratello Lucio che comanda le legioni. Conclusa la pace di Apamea (188 a.C.),
la scena del racconto liviano si trasferisce a Roma, per rappresentare il
dramma degli Scipioni e della loro caduta politica (vicenda, questa, narrata
nel libro XXXVIII). L. Cornelio Scipione l’Asiatico, vincitore della Siria con
l’aiuto determinante di suo fratello, è incriminato per appropriazione indebita
nel quadro di un’aspra lotta interna contro l’egemonia del clan scipionico: gli
si chiede conto delle ingenti somme versate da re Antioco privatamente nelle
sue mani. Anche l’Africano è chiamato in causa e duramente accusato dai tribuni
della plebe: risponde con un discorso pubblico vibrante di sdegno, riuscendo
ancora una volta a conquistare il cuore del popolo romano. Ma «questo fu
l’ultimo giorno luminoso per Scipione» (XXXVIII, 52, 1); da quel momento,
adirato con la sua città, si ritirò in campagna, nella villa di Literno. Era
l’anno 184 a.C., e all’Africano poco piú che cinquantenne, provato dalla
devastante battaglia giudiziaria iniziatasi tre anni prima, restava poco da
vivere: fu come se la sua resistenza psico-fisica si fosse spezzata.
Nel
secondo passo (XXXVIII, 52-53) Livio riferisce il volontario esilio del grande
generale, la morte, le ultime volontà di non tornare a Roma neppure defunto:
«L’ingrata patria non avrà le mie ossa». E fa un bilancio della sua vita,
dividendola nettamente in due parti: la prima splendida, coronata dall’immensa
vittoria punica, di cui egli porta il merito da protagonista esclusivo; la
seconda mediocre, vissuta da modesto comprimario (Livio deprezza ingiustamente
il contributo dell’Africano alla vittoria siriaca), avvilito infine dalle
contestazioni giudiziarie, dall’inimicizia politica e dal confino inflitto a se
stesso. Uomo grande nella guerra, insignificante nella pace. Col che sembra
chiudersi il cerchio della lettura liviana, a luci e ombre, di una tale
personalità: Scipione audace, carismatico, ingannatore (XXVI, 19), moralmente
irreprensibile e freddo calcolatore (XXX, 14), giovane glorioso e vecchio
condannato a un oscuro declino.
Se
non che, a epigrafe – per cosí dire – già dettata, si riparla di Scipione nel
libro XXXIX, quando tocca ad Annibale andarsene da questo mondo. E Livio
riprende – in realtà per confutarla – la notazione condivisa a suo dire da
storici greci e latini, secondo cui nel medesimo anno 183 a.C. morirono i due
nemici, nonché un terzo stratega, il generale greco Filopemene, animatore della
Lega Achea (XXXIX, 50 e 52). La rilevazione di tale concomitanza s’intravede
nei pur frammentari resconti di Polibio (Storie XXII, 12) – citato,
questo, da Livio – e di Diodoro (Biblioteca storica XXIX, 18-20); ma lo
storico romano dedica quasi un intero capitolo (Ab Urbe condita XXXIX,
52) a dimostrare – con risultati invero poco convincenti – che il decesso di
Scipione dovrebbe essere avvenuto un anno prima. Però accetta l’accostamento
dei duellanti e del Greco, in quanto morirono tutti in esilio e in stato di
decadenza, e non furono sepolti in patria (XXXIX, 52). Subito prima di questo
capitolo si colloca il breve e intenso racconto della fine di Annibale (XXXIX,
51).
Il
vecchio combattente (sessantatreenne o, secondo Cornelio Nepote, settantenne) è
ancora in fuga: dopo la sconfitta della Siria seleucide si è ritirato presso il
re Prusia I di Bitinia, e ha offerto a lui
la sua preziosa consulenza militare nella guerra contro la filo-romana
Pergamo. Ma Prusia non intende scontrarsi frontalmente con la potenza di Roma:
ne accetta la mediazione per comporre il contenzioso con il re pergameno Eumene
II. A questo punto l’ora del Cartaginese è scoccata.
È
Flaminino, il vincitore della seconda guerra macedonica, a presentarsi a
Nicomedia nella reggia di Prusia, per reclamare la consegna di Annibale. Qui si
apre una specie di (sottintesa) controversia storiografica, che poggia su
versioni differenti relative a vari aspetti. Una questione è tutto sommato meno
rilevante: se a circondare militarmente la residenza di Annibale furono i
Bitini – come si comprende dal ragguaglio liviano – o i Romani, come
sembrerebbe di capire da Cornelio Nepote (Vitae excellentium
imperatorum, Hannibal 11).
Nel secondo caso, Prusia avrebbe solo tollerato che i Romani agissero sul suolo
bitinico. Ma nella storia Ab Urbe condita le ultime parole del
Cartaginese sono proprio contro il fellone re di Bitinia, traditore
dell’ospitalità. Piú decisivo, invece, è l’altro aspetto sul quale si
manifestano spiegazioni differenti. Flaminino procedé contro Annibale su
mandato senatorio o per iniziativa personale? Questa seconda tesi è avanzata da
Appiano, il quale, inoltre, in modo esplicito mette a confronto «la magnanimità
di Annibale e di Scipione e la meschinità di Flaminino» (Storia siriaca
11); il paragone è anche in Plutarco (Flaminino 21), secondo il quale il
senato venne informato a posteriori della iniziativa di Flaminino e della
conseguente morte di Annibale: dal che nacquero aspri commenti e raffronti tra
la clemenza dell’Africano che non aveva perseguitato il nemico sconfitto, e lo
sciacallaggio (diremmo oggi) di Flaminino che per farsi bello aveva infierito
su un uomo oramai innocuo.
Il
disaccordo circa la reale dinamica dei fatti che determinarono la morte di
Annibale ha origine probabilmente da motivazioni contingenti di polemica
politica interna, fra chi aveva interesse a fregiarsi del risultato e chi,
viceversa, intendeva mettere in ombra la primaria responsabilità dello Stato
romano. Lo stesso Plutarco riferisce anche la tesi alternativa, che Flaminino
fosse stato inviato come emissario di Roma con il preciso incarico di liquidare
Annibale. Livio sembra aderire a questa versione, in quanto dice che Flaminino
si recò da Prusia come legatus, dunque con un mandato ufficiale; ma
adombra un’altra possibilità, che la consegna del Cartaginese vivo o morto sia
stato un regalo spontaneo di Prusia per ingraziarsi i nuovi padroni del
mondo. Ma in un modo o nell’altro era Roma a voler chiudere il conto. Del
resto, Annibale nelle sue ultime parole afferma ironicamente di avere
l'intenzione, suicidandosi, di «liberare il popolo romano dal suo incubo
permanente». Lo stesso Africano, nelle circostanze date, non avrebbe forse
agito diversamente. Anzi, nell’esposizione liviana era stato Scipione in
persona, e in piú d’una occasione, a reclamare la consegna di Annibale: dai
Cartaginesi subito dopo Zama, quando il generale battuto aveva appena lasciato
l’Africa (Ab Urbe condita XXX, 37); da Antioco all’indomani della
battaglia di Magnesia, quando Annibale fu costretto di nuovo a fuggire (XXXVII,
45).
Il capitolo è diviso in due sequenze. La
prima è ambientata nella reggia di Nicomedia: descrive sommariamente l’arrivo
di Flaminino e il suo abboccamento con Prusia. La seconda è ambientata nel
palazzo bitinico di Annibale (altre fonti tramandano il nome della località,
Libissa): il punto di vista narrativo è trasferito in quello individuale del
vecchio nemico. Il Cartaginese ha sempre presentito questo momento, e la
notizia dell’arrivo di Flaminino a Nicomedia lo ha fatto trasalire. Abituato a
vigilare ininterrottamente sulla propria incolumità, ha predisposto sette vie
di fuga dal palazzo. Ma deve prendere atto che tutte sono state circondate da
uomini armati. Donde, con naturalezza e quasi con serenità, la decisione di compiere
il gesto programmato da tempo: assumere il veleno predisposto ad hoc. La
sua morte assomiglia agli exitus virorum illustrium, i modi di
affrontare nobilmente la morte da parte di personalità vittime della fortuna,
del tradimento, della crudeltà di un tiranno. E nel discorso di congedo dalla
vita Livio gli attribuisce accenti propri di un Romano d’altri tempi: sono
parole di rimpianto per la magnanimità e la grandezza degli uomini antichi, di
deprecazione per la meschinità e slealtà dei loro immeritevoli epigoni.
Immagini: busti di Annibale e di Scipione.