domenica 17 novembre 2013

Dante Alighieri




Dante e Beatrice,  manoscritto
della Biblioteca Marciana 
La Commedia:
un progetto politico-sociale









Propongo una ipotesi di studio incentrata sulla lettura politica della Commedia. Non si tratta di una analisi dell’aspetto politico del capolavoro dantesco, da collocare secondo tradizione accanto ad altri aspetti di un tutto organico: il tema morale, quello letterario, quello sociale, quello cosmologico-astronomico, ciascuno piú o meno subordinato gerarchicamente al tema religioso-teologico. Piuttosto, si tratta di una interpretazione integralmente politica dell’opera. In altri termini, di una lettura della Commedia come opera fondamentalmente politica, cioè come tentativo organico di rappresentazione sintetica dello stato delle cose presente e di elaborazione di un progetto politico-sociale. In qualche modo, va rovesciata o, almeno, modificata l’ottica.
Il punto di partenza di Dante è l’esigenza di individuare un nuovo progetto di società e di governo, come risposta ai conflitti sociali e alla crisi politica del suo tempo. Che un tale progetto debba dotarsi di un impianto etico-religioso come quadro organico di legittimazione ideologica – debba, insomma, presentarsi come visione di una società religiosa coerente e funzionale – appare del tutto necessario all’interno della mentalità che sottende il pensiero politico medievale, ogni volta che questo provi a trascendere i particolarismi dell’interesse immediato di una famiglia, di un ceto, di una fazione, di un comune. Perfino quando si sia in presenza del tentativo di definirsi e rappresentarsi messo in atto da un’entità “particolare” nel contesto del Medioevo, l’autorappresentazione non può che essere religiosa. Insomma Dante, non diversamente dai pensatori della Chiesa e dell’Impero, non può immaginare una soluzione politica se non all’interno di una risposta religiosa, che offra un’interpretazione delle funzioni generali di riordino della società e del potere a partire dai paradigmi di riferimento della cristianità occidentale, da lui ricollocati e rielaborati secondo un punto di vista parzialmente nuovo. La straordinaria novità, appunto, e l’originalità, stanno nel fatto che una tale proposta non è il prodotto di una équipe di chierici o di funzionari laici direttamente collegata a (o espressione di) una delle istituzioni universalistiche (Chiesa o Impero), ma è il frutto della elaborazione di una singola individualità indipendente, di un intellettuale laico che opera largamente in solitudine, per quanto si sforzi di legarsi di volta in volta a gruppi politici ritenuti capaci di incidere: il governo fiorentino prima, poi i Bianchi in esilio, quindi gli ambienti filoimperiali all’epoca dell’elezione e dell’impresa di Enrico VII, infine i potentati ghibellini con a capo gli Scaligeri.
In questa funzione di autonoma elaborazione intellettuale e politica che Dante si assegna, svincolata da un’appartenenza chiericale, è da vedere l’influenza della nozione di “filosofia” e di “filosofo” (fatta propria in certi termini da Dante stesso) come era stata proposta nel XIII secolo dagli intellettuali universitari di formazione aristotelica e averroista. Un esponente di spicco di questi “filosofi”, Sigieri di Brabante, non a caso è collocato nel Paradiso, e non senza significato polemico, cosí come d’altra parte Averroè è ‘salvato’ nel limbo (per quanto Dante prenda le distanze dalla sua concezione dell’intelletto e dall’averroismo di Guido Cavalcanti). Naturalmente il progetto contenuto nella Commedia riflette soprattutto le ultime fasi storiche e vicende biografiche, con l’avvicinamento di Dante all’ideologia imperiale e ghibellina, ma anche con la progressiva maturazione di un punto di vista disilluso e pessimista, apocalittico e profetico; ma oltre a ciò la Commedia si sforza di riassumere e sintetizzare per quanto possibile anche l’esperienza precedente (quella municipale), pur nel necessario superamento della stessa dati i limiti da essa dimostrati. Non si tratta, com’è ovvio, di sottovalutare il fervore religioso di Dante e l’importanza che nel suo pensiero ha la dimensione teologica, né tanto meno di ipotizzare in lui una visione della religione come instrumentum regni, ma di rimettere in qualche modo “con i piedi sulla terra” la sua ideologia, dunque di contestualizzarla socialmente, di intenderla come prodotto delle contraddizioni del suo tempo, e anche di rilevarne gli elementi nuovi e non soltanto di classificarla come “utopia reazionaria” (cosa che in parte è).

Codice Landiano, il più antico manoscritto
della Commedia

La Commedia è in primo luogo una rappresentazione della realtà, dunque un’analisi sociale e politica. Per questo Dante usa il metodo “figurale” (quale è stato definito da Auerbach) anche come metodo di giudizio storico-politico. Viaggiando nell’oltretomba, il poeta indaga le stesse situazioni storiche e gli stessi personaggi con i quali si è incontrato e scontrato nella realtà, dove però essi sussistevano nella loro condizione di “figure”, cioè di entità incompiute e parziali, dissimulate dalle apparenze, nelle quali era difficile cogliere pubblicamente l’essenza (cosicché i giudizi su ogni singola situazione e sull’operato di ciascuna personalità potevano essere, ed erano di fatto, variegati e difformi come accade nella realtà di tutti i giorni); adesso invece egli vede quegli stessi personaggi e situazioni proiettati nel quadro dell'"eterno", in una condizione che ormai è chiaramente quella del “compimento”, cioè nel loro significato assoluto e perfetto. Egli può dunque “estrarre l’essenza” di quelle situazioni e di quei protagonisti della vita sociale e politica, mostrarli e giudicarli sinteticamente, nel ruolo che essi hanno svolto, nel male e nel bene. Se ne ricava un quadro ampio e complesso, dal quale emergono, fuori dalle sfumature e dalle particolarità della contingenza, le verità profonde – nella interpretazione che ne dà l’autore – sulla società e sui suoi mali, cosí come anche sugli esempi positivi e sulle possibili alternative. L’Inferno è la realtà della vita sociale e politica contemporanea disvelata nella sua essenza di degradazione; il Paradiso è l’alternativa, il riordinamento raggiunto e compiuto. Ma non vi è una separazione netta fra il momento analitico rappresentativo e quello utopico propositivo: il poeta continua ad accumulare elementi analitici e di giudizio sulla realtà presente, in tutte le cantiche, cosí come tenta di delineare, in maniera progressivamente sempre piú esplicita, un diverso modello ideale. La novità del metodo figurale quale è assunto a riadattato da Dante va sottolineata, perché lo pone in discontinuità rispetto al sempre sottaciuto (ma presente) modello del Roman de la Rose, dove l’allegoria si manifesta in forma di astrazione e non di personaggio storico (o ritenuto storico) e concreto.
La maggior parte degli esempi tratti dalla diretta esperienza dell’Autore riguarda l’area territoriale tosco-romagnola, e in secondo luogo la regione dei “Lombardi” (Lombardia, Emilia, Marca trevigiana). Qui si sta consumando la vicenda drammatica e declinante delle lotte comunali e della violenza di fazione. Numerosi sono i riferimenti – attinti alla recente tradizione – riguardanti gli imperatori e i sovrani del XIII secolo. Il bagaglio culturale di Dante gli consente poi di citare episodi e personaggi biblici (dell’Antico e del Nuovo Testamento), della mitologia e della storia antiche (tratti da Ovidio, Virgilio, Lucano, Orosio), della storia remota del cristianesimo e della Chiesa (letteratura cristiana tardoantica e medievale). Significativo è che nel suo enciclopedismo e sincretismo tutti i personaggi – della storia e della cronaca municipale, della letteratura e della mitologia – siano messi sullo stesso piano e chiamati a convivere in un presente assoluto.
L’ideologia dantesca si fonda sulla nostalgia e sulla profezia. La nostalgia guarda a una società non troppo lontana nel tempo (ancora viva, secondo Dante, nel XII secolo), fondata su costumi di sobrietà e su valori disinteressati di cortesia, alieni dalla corruzione dell’avidità (la brama di ricchezza e di potere), della superbia (l’orgoglio di classe dei potenti) e dell’invidia (l’odio politico tra le fazioni e tra le classi). È la Firenze di Cacciaguida, è la Romagna rievocata da Guido del Duca. La profezia anela alla restaurazione di un potere politico legittimo e sovraordinatore (il Veltro, l’Impero) coadiuvato da una riforma che riconduca la Chiesa nei suoi limiti e nei suoi compiti spirituali (abbandono del potere temporale, amore per la povertà). La concezione antiborghese di Dante immagina un modello sociale che faccia perno su una aristocrazia ideale, non necessariamente legata alle grandi famiglie, capace di mantenere la misura nella proprietà privata e di accettare la supremazia dell’Imperatore. Avidità, superbia, invidia sono il cancro della società comunale, generato dalla “dismisura” dei nuovi ricchi e dalla deviazione del Papato. Dante accenna solo poche volte ai movimenti sociali e politici dei meno abbienti (Giano della Bella, fra Dolcino), mai con simpatia, ma neppure con astio o con accanimento critico. Semplicemente, questi movimenti non sono la soluzione, se mai sono espressione anch’essi della deriva violenta di una società in crisi. Si deve considerare, poi, se la diffidenza di Dante verso le esperienze dei movimenti sociali ereticali come quello dolciniano non sia dovuta anche al carattere iper-religioso delle loro ideologie, irriducibilmente dualistico e manicheo (laddove l’Alighieri tende a definire un modello di società unitario e riconciliato, a suo modo organico e fondamentalmente laico). Per altri versi il profetismo degli spirituali e le ascendenze gioachimite sono ben presenti in lui.







Prima pagina di un manoscritto del XIV secolo
Ma la dura critica e condanna della società contemporanea non deve ingannarci nel giudizio: Dante è un’espressione della civiltà comunale né potrebbe intendersi la sua poesia al di fuori di essa. Egli è per formazione un intellettuale comunale, sul modello di Brunetto Latini. Gli stessi dati biografici, innanzitutto, lo dimostrano. La presunta “nobiltà” della famiglia di Dante è una costruzione della leggenda biografica del poeta stesso. Nell’albero genealogico da lui fornito egli non può risalire piú indietro del trisavolo Cacciaguida; né è dimostrato che questi sia stato un “cavaliere” regolarmente investito (quindi un aristocratico) piuttosto che un milite arruolato fra i crociati dell’imperatore Corrado. La famiglia degli Alighieri non è mai nominata dai cronisti e dai documenti fra le numerosissime famiglie protagoniste della storia fiorentina del XIII secolo. Altri due dati (la partecipazione alla battaglia di Campaldino in qualità di “feditore a cavallo” e l’iscrizione all’Arte dei medici e degli speziali come condizione per partecipare alle cariche pubbliche) non provano la “nobiltà” di Dante e sono suscettibili di altre spiegazioni. La sua scelta di vita giovanile, come poeta d’amore e componente di una “brigata cortese” al seguito di Guido Cavalcanti, presuppone senza dubbio una rendita (derivante da proprietà terriere e/o attività finanziarie), ma sembra certo che la condizione economica di Dante e della famiglia abbia conosciuto una costante precarietà e momenti di crisi a causa dei debiti. Non sembra che egli possa essere in alcun modo classificato tra i “Magnati”, ossia fra gli esponenti della nobiltà e del popolo grasso in possesso di solide ricchezze e collocati nella fascia sociale dei potenti (determinanti nella vita del Comune). La scelta di impegnarsi attivamente nella politica comunale e di candidarsi alle cariche di governo è, in buona misura, un tentativo di promozione sociale: un percorso di inserimento nella élite comunale non disgiunto dalla qualità di poeta ossia di intellettuale enciclopedico; era questa la qualità distintiva di Dante, che ne delineava il profilo di “nobile” per doti d’animo e d’intelletto (secondo la dottrina guinizzelliana) e non per “antica ricchezza” (secondo la dottrina di Federico II confutata nel Convivio). Per questo non poteva bastare però la giovanile caratterizzazione – ancora troppo ‘leggera’ – di poeta dell’amor cortese. Dante perciò procede nei primi anni ’90 a un organico aggiornamento culturale che implica lo studio di Virgilio, Aristotele, Tommaso d’Aquino e la propria riqualificazione come studioso e divulgatore di “filosofia” (Convivio).
La sua attività politica si colloca nel momento della divisione di Firenze in fazioni politiche (la “città partita”), dopo un quarantennio di ‘riconciliazione’ fra gli antichi partiti guelfo e ghibellino (quest’ultimo fortemente ridimensionato dopo la battaglia di Benevento). La politica teocratica del papato di Bonifacio VIII (erede politico di Gregorio VII e di Innocenzo III e IV) è concausa della divisione e della lotta armata fra Bianchi e Neri: da questo momento Dante vede nella degenerazione della Chiesa (alleata della nuova borghesia comunale in nome della stessa avidità per i “subiti guadagni”) la piaga universale da combattere. Di qui l’avvicinamento all’ideologia imperiale, tanto piú vistoso dopo il colpo di stato dei Neri e l’esilio. Un’altra forza corruttrice e maligna è individuata nella dinastia capetingia e in particolare nel ramo angioino: a fare le spese dell’arroganza di costoro è lo stesso Bonifacio VIII (sequestrato ad Anagni nel 1303) quasi un apprendista stregone che ha suscitato la potenza francese fino a ritorcerla contro di sé (facendone però pagare il prezzo non a se stesso in quanto individuo, ma alla figura istituzionale del papa in quanto vicario di Cristo). Il giudizio totalmente negativo di Dante su Filippo il Bello e sugli Angiò (e ovviamente su Carlo di Valois, che dette la stura alla violenza sanguinaria in Firenze) viene talvolta considerato un indice della sua visione ‘antistorica’ e retrograda. Egli avrebbe sostenuto un’istituzione del passato, ormai in decadenza, come l’Impero, contro una nuova e fresca corrente storica, rappresentata dalla corona francese, tesa alla costituzione della moderna monarchia nazionale. Critica davvero singolare (di sapore giustificazionista): il senso di quel processo storico, che abbraccia secoli, non era chiaro nemmeno ai suoi artefici (come sempre avviene, peraltro, nella storia) e verrà colto forse per la prima volta due secoli dopo da Machiavelli, quando quel processo era in uno stadio molto avanzato. Davvero difficile appare che esso potesse essere intuito da un politico o da un intellettuale a cavallo fra XIII e XIV secolo; e se qualcuno avesse pensato qualcosa del genere ciò sarebbe stato soltanto segno di astrazione, di utopismo o, per altri versi, di subordinazione agli interessi francesi. Nel concreto, per Dante la casa regnante francese era un potentato che aggrediva, occupava, s’impossessava di territori non suoi: in particolare, si ingeriva nelle vicende italiane, spodestando dal Sud d’Italia i legittimi eredi di Federico II, alimentando la sanguinosa guerra civile a Firenze e mettendo in scacco perfino il Papato (che non a caso sarebbe poi stato costretto a trasferire la sua sede ad Avignone).
Dante peraltro percepisce il carattere specifico e unitario del “bel paese dove il sí suona”. Si tratta di un’unità culturale e linguistica, fondamentalmente basata sull’eredità di una storia antica. Non è la moderna idea di nazione (ma nell’idea di Italia ha sempre concorso, inevitabilmente, il rapporto con la tradizione classica); Dante non parla di “italiani” ma di “latini”. L’Italia è per lui il cuore (il giardino) di quella entità politico-territoriale che dovrebbe essere l’Impero. Un’entità che di fatto, dalla fine della dinastia carolingia, si era delimitata sui territori della Germania e della penisola italiana come diretta sfera di azione della corona imperiale. Questi territori, dei quali l’Italia è secondo Dante l’ambito qualitativamente prioritario, dovrebbero essere direttamente governati dall’Imperatore (come fece o tentò di fare Federico II), il quale dovrebbe risiedere a Roma come il Papa. È significativo poi che all’identità “italiana” Dante contribuisca in modo decisivo come padre della lingua e della letteratura. Si noti che la lingua di Dante, la lingua della Commedia, non è il linguaggio letterario aulico di Petrarca e di Bembo (destinato a prevalere dall’Umanesimo in poi e a fondare la tradizione italiana di separatezza fra lingua letteraria e popolo), ma è un linguaggio medio, “comico”, pluristilistico, tant’è che della Commedia è documentata una immediata e straordinaria diffusione fra tutti gli strati sociali compresi quelli popolari. La “rivoluzione culturale” dantesca non è spiegabile senza la civiltà comunale e la formazione di un pubblico di riferimento, che spazia dall’aristocrazia a settori del popolo minuto. Quel pubblico è anche il “blocco sociale” ipotizzato e auspicato dall’Autore, purché riesca a liberarsi dalle lotte economiche e politiche e ad accogliere l’autorità dell’Imperatore.


Manoscritto trivulziano
Lo schema monarchie nazionali = progresso (oppure comuni = progresso) e impero = reazione è del tutto fuorviante. Dal punto di vista sociale e istituzionale va individuato in primo luogo il “sistema” dei particolarismi feudali come il piú rispondente agli interessi della classe dominante feudale; “sistema” storicamente supportato dalla Chiesa, in quanto grande proprietaria terriera, capace di opporre i suoi privilegi e le sue autonomie a qualsiasi tentativo regale o imperiale di costituire poteri centralizzati e sovraordinati. L’Impero è a sua volta una espressione della società feudale, ma occorre analizzarne la funzione e la configurazione nei diversi momenti storici: ‘creatura’ della Chiesa all’inizio (sacro romano impero) e garante dei privilegi di quella, istituzione che tenta di autonomizzarsi in seguito, e infine, con Federico II (apprezzato da Dante), tentativo di affermare un’entità statale ‘moderna’ al di sopra dell’anarchia feudale.
Tutt’altro che reazionario, anzi singolarmente ‘moderno’ (sebbene presentato, al solito, entro una cornice di organicismo medievale) è soprattutto il monito alla Chiesa ad autolimitarsi nel campo spirituale e ad abbandonare il terreno della politica e del potere, ponendo termine alla deleteria azione papale di sollecitazione dei particolarismi e della permanenza dell’anarchia feudale. La tesi dantesca della netta separazione dei “poteri” (temporale e spirituale) non è soltanto, e rigorosamente, argomentata nella Monarchia su un piano filosofico-politico razionale, tanto da superare perfino l’organicismo della reductio ad unum e da fondare una visione “duale” della realtà (nella quale la felicità terrena è compito e appannaggio del solo potere temporale, cioè dell’Impero); ma permane sottesa a tutta la Commedia, pur dentro una dimensione piú apocalittico-profetica, fino alla grandiosa invettiva di San Pietro contro la corruzione del Papato. Originale e audace è, poi, la radicale critica di Dante contro la “donazione costantiniana” (nonostante egli creda autentico il documento la cui falsità sarà dimostrata solo in età umanistica), in quanto causa prima di quella abnormità mostruosa che è il potere temporale della Chiesa. Non è pertanto errato riprendere (sia pure con i debiti aggiornamenti) la lettura di Dante come iniziatore, a suo modo, di una linea di polemica anticuriale che verrà continuata da altri scrittori e intellettuali delle generazioni successive, e che non senza qualche fondamento viene rivendicata come propria fonte dai promotori del moderno pensiero laico.

Pasquale Martino





(2004)