«Sopravvissi grazie a Dante e a Tasso»
Attilio Momigliano, il grande critico ebreo espulso dall’università.
Non riebbe mai la cattedra
Non riebbe mai la cattedra

È un bene che la memoria della persecuzione razziale in Italia si rinnovi seguendo i percorsi delle storie di vita, ricostruendo biografie individuali e collettive. È il caso, per esempio, della vicenda del grande critico letterario Attilio Momigliano: uno dei nomi più noti – starei per dire “popolari” – fra gli studenti almeno fino alla metà degli anni ’60, grazie specialmente ai suoi commenti dei classici italiani.
Eppure erano pochi a conoscerne la storia di perseguitato.
Momigliano era nato nel 1883 da un ramo di un’antica famiglia ebrea radicata nella provincia di Cuneo. Appassionato di letteratura, s’era formato nell’università di Torino alla scuola del metodo storico; lo studio dell’estetica di Benedetto Croce, che fu per lui il contraltare dell’erudizione positivista, non ne fece uno scolaro del filosofo abruzzese nonostante l’etichetta «crociana» che gli venne affibbiata soprattutto dalla critica storicista del secondo dopoguerra. In realtà Momigliano restava fedele a un proprio singolare metodo, che si potrebbe definire psicologico-biografico: immedesimandosi in qualche modo nell’autore da lui studiato, ne riviveva il processo creativo, quasi “riscrivendone” l’opera attraverso la sua esegesi; «la critica – affermava – è, non dico una gara con la poesia, ma un tentativo di rifarla da un altro punto di vista». Non a caso la sua produzione davvero ineguagliata è quella vastissima dei commenti scolastici, in cui l’analisi si esplica in una funzione “di servizio” ai testi, svolta con finezza ammirevole: un’attitudine e un acume interpretativi che, prima del passaggio alla docenza universitaria, s’erano forgiati durante quasi tre lustri di insegnamento nelle scuole superiori (1906-1920).


C’è un epilogo poco consolatorio. Nel 1946 Momigliano, avviandosi all’ultima stagione di una feconda attività critica (che durerà fino alla morte avvenuta nel 1952), fu reintegrato nell’insegnamento universitario; non però nella sua antica cattedra – su cui venne confermato chi era stato messo al suo posto dal fascismo – bensì in qualità di «professore soprannumerario», cioè in uno status ben diverso da quello cui aveva diritto. Fu uno dei molti episodi della giustizia negata e della mancata epurazione: si gettavano le basi per l’oblio, per la rimozione di un passato troppo scomodo.