domenica 24 novembre 2013

Momigliano

«Sopravvissi grazie a Dante e a Tasso»

Attilio Momigliano, il grande critico ebreo espulso dall’università.
Non riebbe mai la cattedra


È un bene che la memoria della persecuzione razziale in Italia si rinnovi seguendo i percorsi delle storie di vita, ricostruendo biografie individuali e collettive. È il caso, per esempio, della vicenda del grande critico letterario Attilio Momigliano: uno dei nomi più noti – starei per dire “popolari” – fra gli studenti almeno fino alla metà degli anni ’60, grazie specialmente ai suoi commenti dei classici italiani.
Eppure erano pochi a conoscerne la storia di perseguitato.  

Momigliano era nato nel 1883 da un ramo di un’antica famiglia ebrea radicata nella provincia di Cuneo. Appassionato di letteratura, s’era formato nell’università di Torino alla scuola del metodo storico; lo studio dell’estetica di Benedetto Croce, che fu per lui il contraltare dell’erudizione positivista, non ne fece uno scolaro del filosofo abruzzese nonostante l’etichetta «crociana» che gli venne affibbiata soprattutto dalla critica storicista del secondo dopoguerra. In realtà Momigliano restava fedele a un proprio singolare metodo, che si potrebbe definire psicologico-biografico: immedesimandosi in qualche modo nell’autore da lui studiato, ne riviveva il processo creativo, quasi “riscrivendone” l’opera attraverso la sua esegesi; «la critica – affermava – è, non dico una gara con la poesia, ma un tentativo di rifarla da un altro punto di vista». Non a caso la sua produzione davvero ineguagliata è quella vastissima dei commenti scolastici, in cui l’analisi si esplica in una  funzione “di servizio” ai testi, svolta con finezza ammirevole: un’attitudine e un acume interpretativi che, prima del passaggio alla docenza universitaria, s’erano forgiati durante quasi tre lustri di insegnamento nelle scuole superiori (1906-1920).

Lo studioso piemontese aderì nel 1925 al manifesto antifascista di Croce, senza per questo diventare un intellettuale “militante” come non lo erano molti firmatari. Negli anni del consenso al fascismo trionfatore non pochi di essi dovettero adattarsi a un modus vivendi; e quando poi, nel 1931, milleduecento docenti universitari – Momigliano fra questi – vennero obbligati a prestare giuramento di fedeltà, solo una dozzina di loro si rifiutò rinunciando al posto. Ma nel 1938 i docenti ebrei furono colpiti dalle leggi razziali; Momigliano – di cui proprio in quell’anno Laterza stampava gli illuminanti Studi di poesia– venne espulso dalla sua cattedra universitaria a Firenze, che fu immediatamente, e senza concorso, occupata da un altro; questi lo soppiantò inoltre come critico del Corriere della Sera. Per avere un’idea del “clima”, basti pensare che il direttore di un’importante casa editrice ebbe a compiacersi per gli spazi di mercato improvvisamente aperti dalla soppressione dei libri di testo scolastici di autore ebreo. Ma va ricordato a loro merito che né Massimo Bontempelli né Luigi Russo accettarono di prendere il posto di Momigliano.

All’età di 55 anni il grande critico – che aveva avuto fra i suoi allievi Walter Binni, Aldo Capitini e Franco Fortini – si adatta a vivere pubblicando articoli sotto falso nome. Per un quinquennio sperimenta qualcosa di simile alla condizione esule del suo amato Dante, del quale così scrive in un famoso saggio: «L’esilio gli ha tolto una patria, ma non gliene ha data un’altra […] sua patria è il mondo, una patria troppo vasta per consolare il cuore». Si arriva all’8 settembre 1943: con la moglie Haydée Sacerdoti, Momigliano sfugge alla caccia all’uomo scatenata da tedeschi e repubblichini, nascondendosi per mesi in una stanza d’ospedale a Borgo San Sepolcro. Qui lavora al suo commento a Torquato Tasso, che pubblicherà subito dopo la Liberazione, nel 1945, scrivendo nella premessa: «Devo al Tasso e a Dante le due o tre ore di assenza che la sorte mi concedeva quasi ogni giorno. Nel pomeriggio, mentre mia moglie si assopiva dopo gli assidui terrori del giorno e della notte, io dimenticavo che ad ogni minuto un calcio improvviso poteva spalancare la mia porta, e mi sprofondavo a poco a poco nel mondo lontano della poesia. Devo dire che, se per questa io sono sempre vissuto, per questa soltanto sono sopravvissuto».

C’è un epilogo poco consolatorio. Nel 1946 Momigliano, avviandosi all’ultima stagione di una feconda attività critica (che durerà fino alla morte avvenuta nel 1952), fu reintegrato nell’insegnamento universitario; non però nella sua antica cattedra – su cui venne confermato chi era stato messo al suo posto dal fascismo – bensì in qualità di «professore soprannumerario», cioè in uno status ben diverso da quello cui aveva diritto. Fu uno dei molti episodi della giustizia negata e della mancata epurazione: si gettavano le basi per l’oblio, per la rimozione di un passato troppo scomodo.

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno», 30 gennaio 2013