mercoledì 27 novembre 2013

Storia operaia

Cortei e occupazioni, Bari in tuta blu
Breve storia della lunga protesta operaia

 
Forse si è in tempo per scongiurare la chiusura della Bridgestone di Bari:  un disastro che si abbatterebbe su una zona industriale già profondamente ferita dagli esuberi, dalla cassa integrazione, dalle procedure di mobilità.  Solo poco tempo fa  il caso simile della OM Carrelli elevatori ha trovato per fortuna una via di scampo*. Si comprende che l’attenzione si incentri sull’urgenza della questione occupazionale, eppure la vicenda della fabbrica di pneumatici barese ha un significato emblematico che va al di là dell’immediato: è una pagina importante di storia industriale e soprattutto di storia operaia del territorio. 
Sarebbe, dunque, il momento di riscoprire la biografia di Bari e della sua area metropolitana dal punto di vista della classe lavoratrice, anche se il capoluogo pugliese ha sempre faticato a fare i conti con la propria componente industriale e operaia. Bari ha convissuto con una identità di città commerciale, in cui la rendita agraria si traduceva in investimento finanziario e  in proprietà immobiliare, alimentando le professioni tradizionali oltre che la burocrazia pubblica. Però una città così restia a riconoscere i conflitti sociali ha dovuto periodicamente accorgersi dell’esistenza di un proletariato industriale, delle sue rivendicazioni e della sua soggettività; della sua capacità di lasciare una traccia nei processi storici. Nel 1962 la dirompente rivolta degli edili fu seguita dalla formazione della prima giunta comunale di centro-sinistra. E non fu certo un nesso casuale: la società cambiava e di ciò la lotta operaia era sintomo e concausa. 
Nel frattempo si costruiva la zona industriale fra Bari e Modugno e una parte di quegli edili veniva assorbita come forza lavoro dell’impresa manifatturiera. Si trattava di una rete di medie e piccole fabbriche, per lo più sostenute dalle partecipazioni statali, che a Bari realizzarono fra l’altro la Breda Fucine Meridionali e la fabbrica di pneumatici Brema, di lì a poco unitasi con l’americana Firestone. E sorsero fra le altre la Pignone Sud, la Breda Hupp, l’Isotta Fraschini, mentre in quel contesto prosperavano ditte metalmeccaniche locali come la Calabrese e la Uniblok e si insediava la nordeuropea Hettemarks, industria di abbigliamento con manodopera femminile. Non poche aziende sperimentavano produzioni di avanguardia: e Bari diventava una città industriale avanzata quasi senza saperlo.  All’inizio degli anni ’70 arrivò lo stabilimento Fiat, che nasceva ormai nel segno della nuova coscienza di classe maturata durante l’autunno caldo del ’69.
Ma già nel 1968 la grande vertenza contro le “gabbie salariali” era stata il primo battesimo del fuoco di una neonata classe lavoratrice, poco sindacalizzata, non di rado sottomessa alla direzione aziendale, che però  scopriva ora il gusto della ribellione: e nel moto di protesta di tutto il Mezzogiorno contro l’ingiustizia di un salario differenziato fra Nord e Sud faceva valere il proprio sentimento ugualitario, procedeva alla resa dei conti con le piccole e grandi sopraffazioni dentro l’universo quotidiano della fabbrica.  I 47 giorni di occupazione operaia delle Fucine Meridionali (maggio-giugno 1968) – un episodio senza precedenti, che scosse la città  – non furono motivati soltanto da sacrosante rivendicazioni economiche, ma anche dal bisogno di affermare una democrazia nei rapporti di lavoro, di contestare la gerarchia autoritaria e le logiche punitive dentro l’ officina. Si formavano allora le commissioni interne e poi i consigli di fabbrica, nei reparti entrava il sindacato: non la “burocrazia” – poca cosa in quella giovane zona industriale – ma l’organizzazione dei lavoratori, il proprio strumento di lotta e di crescita democratica.
Gli operai iniziarono a sfilare in città perché tutti sapessero contro che cosa si battevano, che cosa volevano. I primi a mescolarsi con loro furono gli studenti: non era ancora un rituale ripetitivo, era il convergere spontaneo di forze giovani che si andavano liberando.  E nei cortei non mancava mai l’ondeggiante striscione della Firestone Brema, in testa a una folta schiera.
Questa presenza operaia ricorrente, questo dialogo con gli studenti, non sono stati senza effetti nella educazione di quella generazione e delle successive, dal punto di vista civile e politico. Non era una partecipazione meramente protestataria ed economicista. Se si guardano i servizi fotografici e i filmati della grande manifestazione del 29 novembre 1977, seguita all’assassinio di Benedetto Petrone per mano fascista, si resta colpiti dall’onnipresenza delle tute blu e degli striscioni di numerose fabbriche baresi.  L’esperienza e perizia tecnica delle maestranze era diventata anche cultura dei diritti, coscienza civile. 
Dal sito di SkyTg24
Aveva inizio però il declino: il ciclo economico sfavorevole, la crisi delle politiche di sostegno al Mezzogiorno, la ritirata strategica delle partecipazioni statali; quello che Nico Perrone in un suo libro del 1991 ha chiamato il «dissesto programmato». Era anche una rivincita dei datori di lavoro, un contrattacco che sottraeva parte del terreno guadagnato dalle classi lavoratrici.  La parabola dal capitale pubblico al capitale privato, alle riconversioni, dismissioni, riduzioni di personale, riguarda anche la Firestone, divenuta Bridgestone alla fine degli anni ’80 con l’immissione di capitale nipponico. La produzione è ridimensionata e l’occupazione diminuisce, vengono introdotti i contratti week end e varie forme di flessibilità. È in questo quadro contrattuale che, negli anni ’90, arrivano i tedeschi a dare un po’ di respiro alla zona industriale barese con le loro fabbriche di componenti automobilistiche, la Bosch e la Getrag. Gli operai Bridgestone, tuttavia, aprono un altro versante di lotta: quello della salute in fabbrica, connesso non soltanto ai procedimenti produttivi, ma alla diffusa presenta dell’amianto. Come i lavoratori della Fibronit – l’industria innervata nel cuore di un grande quartiere popolare – gli operai Bridgestone hanno costituito una combattiva associazione di esposti all’amianto, intitolata alla memoria di uno di loro, il manutentore elettrico Benedetto Piscazzi, vittima dell’asbesto. La coscienza operaia ha insegnato parecchie cose alla città, anche in termini di cultura della salute e dell’ambiente.

Pasquale Martino
 
*In realtà la vertenza della OM Carrelli Elevatori si è riaperta e nell'estate del 2013 sembra ancora lontana da soluzione.
 
Dal sito: Il lato sinistro
Davanti ai cancelli delle fabbriche
E gli studenti al fianco degli operai
 
 
 
 
 
 
La solidarietà operai-studenti nei primi anni ’70 fu una cosa vera e nuova. Non c’era solo l’incontro nei cortei che gremivano i grandi assi della scacchiera urbana. Decine, centinaia di quegli studenti si recavano all’alba davanti ai cancelli delle fabbriche, per volantinare, per aiutare gli operai a scioperare, a realizzare i picchetti. Nella geografia della zona industriale barese, la Firestone (poi Bridgestone) era uno snodo strategico: una delle destinazioni obbligate dei volantinaggi che si effettuavano a ogni cambio turno. Gli operai vedevano di buon occhio il sostegno degli studenti: per loro – che fino al ‘68 non avevano mai scioperato – era all’inizio più difficile gettarsi nella lotta, visto che perdevano giornate di paga  e rischiavano il posto di lavoro. Per gli studenti quello era un modo di trasmettere ai lavoratori la propria radicalità, la propria carica antiautoritaria, ma era anche un lavacro purificatore che consentiva a un potenziale “proletariato intellettuale” di negare il proprio substrato piccolo-borghese contaminandosi nell’abbraccio con i veri proletari, i veri produttori sfruttati in procinto di rivoluzionare l’economia e la società. Fu una scuola di vita e un amalgama culturale, anche se non abbatté del tutto le barriere sociali come l’utopia avrebbe preteso. Molti studenti e operai si ritrovarono nei movimenti, nei gruppi, nei sindacati, nei partiti. Nasceva una generazione impegnata, militante; nascevano anche una cultura civile e una tradizione di movimento che in molte forme si sarebbe trasmessa alle generazioni successive.  
 
P.M.
 
pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 12 marzo 2013