mercoledì 20 agosto 2014

Togliatti

Il comunista padre della democrazia
A cinquanta anni dalla morte

Un ricordo personale. Quando il 21 agosto 1964 mio nonno, vecchio socialista e, dopo il 1947, saragattiano, apprese della morte di Togliatti – mi fu raccontato – si tolse il berretto (che soleva portare in casa anche d’estate) per rendere omaggio a un «grand’uomo». Come tale dobbiamo ricordare cinquant’anni dopo colui che fu uno dei protagonisti assoluti nella redazione della carta costituzionale, un fondatore della democrazia italiana.  
Ovviamente, Palmiro Togliatti era anche un uomo di parte. Un leader di partito riconosciuto da una massa popolare che non era tutto il popolo italiano ma era pur sempre una vasta minoranza – quel popolo comunista che il giorno dei funerali dette vita, a Roma, alla più imponente manifestazione di massa mai vista fino a quel momento in Italia. Come chiunque abbia attraversato con dedizione l’arduo terreno della politica, egli ha compiuto scelte difficili e controverse, dovendo sacrificare obiettivi secondari – pur nobili e giusti – al fine principale che si prefiggeva, accettando compromessi e mettendo nel conto arretramenti e sconfitte.

Intensa e insieme durissima fu la sua formazione politico-culturale, nella Torino operaia prima della Grande Guerra e dopo, nell’Italia dei fermenti rivoluzionari e della controrivoluzione fascista. Per poco non fu ucciso dagli squadristi. Condivise con Gramsci la guida del Pci ma fu in disaccordo con lui quando il dirigente sardo criticò la conduzione staliniana della lotta all’interno del partito bolscevico. Attento a misurare i rapporti di forza e la possibilità realistica di ogni mossa politica, Togliatti era convinto che il Pci non potesse sopravvivere alla reazione fascista senza il pieno sostegno russo; ma che occorresse anche preservare quel gruppo dirigente dalla repressione stalinista. La storiografia recente che scandaglia i rapporti fra Gramsci prigioniero e Togliatti fuoriuscito a Mosca non sembra aggiungere nulla di sostanziale a quanto già noto: cioè che Gramsci condannava la linea settaria dell’Internazionale e che i suoi rapporti col partito – non escluso Togliatti – s’erano fortemente inaspriti. E tuttavia i concetti che il grande pensatore veniva elaborando in carcere – l’analisi del fascismo come «rivoluzione passiva» e la proposta di una costituente antifascista – appartenevano allo stesso retroterra culturale dei temi che Togliatti avrebbe svolto nel tempo: il «regime reazionario di massa», il contributo alla politica dei fronti popolari antifascisti, e infine la centralità del processo costituente.


Togliatti con Nilde Iotti
Proprio negli anni della Resistenza, al rientro in Italia, Togliatti dispiega la profondità della sua visione politica. Accantonando la pregiudiziale antimonarchica favorisce la nascita di un governo con la presenza dei partiti, necessaria sponda istituzionale della guerra partigiana che vede i comunisti nelle prime file. L’unità delle forze antifasciste, pur nella sua obiettiva difficoltà, è il filo conduttore della strategia togliattiana, in quanto è la sola base possibile di una «democrazia progressiva» che dia legittimità ai comunisti e apra loro lo spazio per ampliare i diritti sociali. Togliatti è stato criticato da sinistra (e all’interno dello stesso Pci) per aver privilegiato i rapporti fra partiti, per un certo gradualismo che metteva in ombra l’urgenza rivoluzionaria. Era solo realismo. Era forse anche la speranza che la grande coalizione antinazista mondiale non si infrangesse e, pur nella spartizione delle sfere di influenza fra Angloamericani e Urss, consentisse una presenza di sinistra nel governo della nuova Italia. In questo spirito, nonostante le avvisaglie della guerra fredda, si compì quell’evento storico irripetibile che fu l’Assemblea costituente. Nello stesso spirito, dopo l’esclusione dal governo e l’attentato del 1948 alla propria vita, il  leader del Pci fece appello ai lavoratori perché non spingessero la veemente protesta fino a un’avventura insurrezionale che avrebbe avuto un esito catastrofico.

Suo è il merito di aver pubblicato (sebbene non integralmente) l’epistolario e gli scritti carcerari di Gramsci, che esercitarono influenza duratura. Il limite maggiore fu di averli presentati come un’opera organica, un sistema di pensiero in sé concluso, laddove essi erano un laboratorio, un work in progress aperto e problematico. Ma l’assunzione ambiziosa di un patrimonio culturale da parte di decine di migliaia di proletari giustificava forse i rimaneggiamenti e le semplificazioni.
Vi sono passaggi discussi dell’azione di Togliatti in quegli anni. L’amnistia per i fascisti da lui promulgata quale ministro della Giustizia, perfettamente spiegabile nell’ottica della ricostruzione e riconciliazione, fu attuata e gestita dalla magistratura e dalla burocrazia in maniera da assicurare la continuità dell’apparato statale fascista. Il voto a favore dell’art. 7 della Costituzione che accolse i Patti Lateranensi, dividendo il Pci da socialisti e azionisti, rispondeva al comprensibile intento di non accettare la provocazione di una guerra religiosa la cui vittima designata erano i comunisti, come si vide poco dopo quando arrivò la scomunica di Pio XII. Fu saggio non scendere su questo terreno, ma il timore di contrastare la destra cattolica rimase una costante del Pci anche dopo il Concilio Ecumenico.

Nell’ultimo decennio di vita Togliatti non colse tutte le implicazioni del neocapitalismo e delle nuove soggettività sociali. Appoggiò tuttavia la rivolta del luglio ’60 contro il governo Tambroni. Sempre cauto nel prendere le distanze dall’Urss, lo fece abbastanza nettamente nel memoriale di Yalta scritto alla vigilia della morte. Egli restava però intimamente persuaso che, nonostante le contraddizioni e gli episodi tragici come l’invasione dell’Ungheria, il mondo sovietico costituisse il necessario contesto di equilibrio internazionale e di riferimento ideale per un tentativo di avanzata democratica e socialista in Italia, che avrebbe avuto peraltro caratteri del tutto diversi e autonomi dall’esperienza russa. 

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 agosto 2014


domenica 17 agosto 2014

Giacinto Gimma

L’abate che inventò la storia della letteratura


Ritratto giovanile di Gimma



















Giacinto Gimma (1668-1735) è uno degli intellettuali di maggiore rilievo nella storia di Bari; forse il più importante, se si considerano sia la pioneristica impresa di scrivere la prima storia della letteratura italiana, sia le intense relazioni con i più influenti circoli intellettuali di tutta la penisola, la presenza attiva nel rinnovamento culturale che si pone a cavallo fra la Nuova Scienza galileiana e l’Illuminismo.
E pensare che era di origini sociali modeste, essendo figlio di un calzolaio. Ma chi intuì il suo ingegno lo indusse a frequentare il locale seminario e poi il collegio gesuitico, unici luoghi, per lo più, di formazione ed emancipazione culturale.  Fu avviato dunque alla carriera sacerdotale: «abate» indicava all’epoca una condizione ecclesiastica a prescindere dal grado, dalla funzione e dal reddito; erano così designati soprattutto gli studiosi e i letterati. Abati erano, fra gli altri, il poeta Metastasio e l’economista Ferdinando Galiani. «La sola figura di ecclesiastico – ha scritto lo storico della scienza Ugo Baldini – compatibile con un ruolo del tipo accennato [di chierici innovativi sul piano filosofico e scientifico] fu quella dell’abate, una cui storia sociale sarebbe di alto interesse, costituente un tramite tra clero e società civile, in quello spazio mondano del dibattito che avendo come sfondo costante le accademie va dalla corte secentesca al salotto settecentesco».

Prima di ricevere l’ordinazione sacerdotale Gimma si trasferisce a Napoli per studiare diritto all’Università. Ma qui imbocca ormai la strada dell’erudizione enciclopedica, segnata da spiccati interessi scientifici, dalla passione per la matematica, la fisica, l’astronomia. Comporrà anche un trattato di «fisica sotterranea» o mineralogia. Nell’epoca di Gimma – l’età della «crisi della coscienza europea» (Paul Hazard) – si passa quasi impetuosamente dall’obbedienza dogmatica al pensiero critico. E il Regno di Napoli è una punta di diamante di tale evoluzione. Nella città partenopea vive il genio di Giambattista Vico; vi muove i primi passi la corrosiva critica storica di Pietro Giannone, perseguitato esponente dell’anticurialismo. Si celebrano gli ultimi processi a carico di membri della disciolta accademia degli Investiganti, sospettati di ateismo. Questo sodalizio accademico era stato influenzato dal pensiero del calabrese Tommaso Cornelio, che, seguace della filosofia naturalista di Bernardino Telesio, aveva introdotto nella cultura meridionale il razionalismo di Cartesio e l’atomismo di Gassendi con le inclinazioni al libertinismo filosofico. Influenze e contatti ben documentati anche nello studioso barese. Il quale però, prudentemente come Vico, distingue e concilia verità di fede (sebbene razionalmente insostenibile) e verità di ragione filologicamente provata.    
Gimma si muove con energia nel mondo delle accademie: associazioni culturali che, sparse sul territorio italiano, costituiscono una fitta rete di relazioni intellettuali configurando quella «repubblica delle lettere» vagheggiata da Ludovico Antonio Muratori, quasi un embrione di Stato nazionale composto dai soli letterati. È membro autorevole di numerosi sodalizi accademici, fra cui ricordiamo quello dei Pigri a Bari (città in cui un volumetto di Pasquale Sorrenti edito nel 1965 registra l’esistenza di dieci accademie, mentre in tutta la Puglia erano una settantina), nonché l’accademia più famosa e potente, l’Arcadia con sede centrale a Roma (della quale l’abate fu «procustode» pugliese con il nome arcadico di Liredo Messoleo) e soprattutto l’accademia degli Spensierati di Rossano Calabro, da lui diretta e riformata col titolo di accademia degli Incuriosi: un nome antifrastico  come quello del cenacolo barese e di tanti altri. Fecero parte degli Incuriosi il Muratori (col quale Gimma fu in corrispondenza epistolare), il futuro papa Benedetto XIII (il gravinese Vincenzo Maria Orsini) e la poetessa Maria Selvaggia Borghini, allieva a Pisa di Alessandro Marchetti, scienziato e traduttore del De rerum natura, il poema atomista di Lucrezio.

L’abate barese sa inoltre destreggiarsi con un nuovo strumento culturale: il giornale; pubblica infatti corrispondenze sul periodico veneziano «La Galleria di Minerva» e progetta una rivista dell’accademia rossanese. Rientrato a Bari, è nominato canonico della cattedrale ma in seguito rinuncia alla carica per eludere i controlli dell’arcivescovato sulla sua attività intellettuale.
Nella città natale compone l’opera più nota: l'Idea della storia dell'Italia letterata (stampata a Napoli in due volumi nel 1723). La concezione del ponderoso lavoro è doppiamente nuova: per la prima volta appare una storia letteraria estesa a tutta la penisola; in secondo luogo, l’attività delle lettere non vi abbraccia solo la poesia o la prosa narrativa, ma ogni testo scritto, inclusi i trattati storici e scientifici. Ampio spazio vi trovano la Nuova Scienza, Galilei, il metodo sperimentale, nonché la storia generale della cultura e delle istituzioni culturali: scuole, accademie, biblioteche, stamperie e case editrici. Il disegno storico di Gimma – che apre la strada alla similare e più fortunata storia della letteratura scritta mezzo secolo dopo dal gesuita bergamasco Girolamo Tiraboschi – intende affermare la continuità e il primato della cultura italiana, polemizzando in maniera programmatica e quasi ossessiva con i denigratori francesi. Il suo punto di riferimento però, diversamente dalla storiografia romantica e da De Sanctis, non è l’unità linguistica, bensì quella geografico-culturale: che parte dagli Etruschi, dalla Magna Grecia e dai Latini. Ciò non toglie che la storia di Gimma sia stata interpretata come un’avvisaglia del Risorgimento: per celebrare i 150 anni dell’Unità nazionale (2011) l’editore Cacucci ne ha pubblicato un’ampia silloge a cura di A. Iurilli e F. Tateo.     

Pasquale Martino 

«La Gazzetta del Mezzogiorno» 17 agosto 2014  
(serie «Ritratti e radici» dedicata a personaggi della storia di Bari) 

sabato 9 agosto 2014

Immagini di guerra


Il dolore dei bambini


Orfanotrofio della Croce Rossa americana
nel 1918 a Manfredonia (archivio Alinari)
I social network dibattono sulla opportunità di pubblicare fotografie di bambini palestinesi vittime dei bombardamenti israeliani a Gaza. C’è chi afferma il dovere di documentare la realtà per quanto raccapricciante, e chi invoca la pietas o paventa l’assuefazione derivante da una sequenza ininterrotta di immagini cruente.
Da quando esistono la fotografia e il film, l’accostamento impietoso tra l’infanzia e la violenza della guerra produce un effetto sconvolgente: evoca l’arcaico, viscerale sentimento dell’innocenza violata, della vita appena sbocciata e già spezzata; l’ingiuria estrema inferta a bambini da altri esseri umani svela di colpo l’orrore senza fondo, il pauroso vuoto di senso che preferiremmo ignorare. C’è stato un tempo, però, in cui il documento fotografico fissava la sofferenza dell’infanzia non sul fronte, ma nelle retrovie. La Grande Guerra di cui ricorre il centenario è stata la prima veramente “di massa”, e pur tuttavia ancora una belligeranza di trincee, fra militari, fra eserciti regolari. I civili pativano la fame, la povertà, il dolore per i parenti caduti. Alcune foto documentano l’opera di assistenza della Croce Rossa americana in favore di minori italiani orfani o poveri; i bimbi hanno volti tesi, corrucciati; pochi i sorrisi, quasi smorti. Ma è con la Seconda guerra mondiale che i civili entrano in maggioranza fra le vittime: perché il conflitto diventa sistematicamente bombardamento di città, occupazione, rappresaglia, deportazione, schiavizzazione, sterminio. Ha inizio così anche l’amarissima storia delle immagini d’infanzia oltraggiata.  E anche in questo caso a impressionare di più, a far pensare, non sono tanto le foto dei morti quanto quelle di ragazzi colti nel momento acuto del maltrattamento e della sofferenza. La Shoah dei minori è fra le più attestate: file di bambine e bambini ebrei spinti verso i treni con le famiglie, gli sguardi cupi, stupefatti; e dopo, i sopravvissuti fotografati dai liberatori: bimbi nei pigiami a righe, oppure nudi, ridotti a scheletri tristissimi. Un’altra serie drammatica ritrae i bambini di Hiroshima: quelli dolenti che mostrano nel corpo il marchio inguaribile della letale radiazione e quelli seri, pensosi, che moriranno per gli effetti ritardati della bomba atomica.
Nell’epoca seguente, fino ai nostri giorni, la tragica galleria di immagini è cresciuta a dismisura: dai bimbi bruciati dal napalm in Vietnam a quelli mutilati in Afghanistan o asfissiati dai gas in Siria. Dieci anni fa oltre 180 bambini perirono nella strage della scuola di Beslan a causa del sequestro attuato da separatisti ceceni e della violenta irruzione della polizia russa. Difficile dimenticare l’immagine di quell’edificio scolastico dal quale uscivano di corsa, alla spicciolata, adulti sconvolti con in braccio bambini gravemente feriti. Il rovescio paradossale è nei i ritratti dei bambini-soldato, che in alcune parti del mondo (in Africa e Asia specialmente) vengono arruolati generalmente a forza per combattere in guerre endemiche. Le loro espressioni dure e rassegnate, prive di qualsiasi luce, mentre guardano l’obiettivo imbracciando un fucile, tradiscono un’angosciosa disperazione. 

Un fotogramma del video con Mohammed Al Dura.
Nella sequenza successiva si vedono il bimbo esanime e il padre tramortito.
Fonti israeliane affermano che Mohammed non è morto.
Ciò non cambia la sostanza di quanto ripreso dalle immagini.   
Certo, l’immagine è soggetta a interpretazione; non è “oggettiva”, nonostante l’apparenza. Conviene sapere quando è stata scattata una foto, da chi, perché; se è un’istantanea o se la scena è stata in qualche modo costruita. Commentatori israeliani contestano la veridicità delle immagini di bambini palestinesi uccisi o feriti. È nota la controversia sul video che ritrae il piccolo Mohammed al Dura esanime all’inizio della seconda Intifada nel 2000. 
E tuttavia la presunta manipolazione di questa o quell’immagine non può essere l’appiglio che inficia una mole di documentazioni concordi accumulatasi negli anni (grazie anche a giornalisti israeliani indipendenti), quasi che la violenza subita dai palestinesi – piccoli e adulti – fosse una gigantesca invenzione propagandistica e non una concretissima verità che si perpetua nel tempo. Ancora una volta, resta impresso il volto di un bambino vivo, traumatizzato: nell’intervista di un’inviata Rai a Gaza, tutt’altro che ostile verso Israele, il piccolo è accanto al padre, ha il capo fasciato, lo sguardo perso nel vuoto; il labbro inferiore trema senza sosta. L’incubo permane.    

Pasquale Martino 



   
Varsavia, Saigon, Hiroshima


Tre fotografie, tre icone del Novecento. La prima, celeberrima, ritrae un rastrellamento tedesco a Varsavia fra il 1941 e il 1943: un bambino ebreo avanza con le mani in alto, spaurito, sotto la minaccia armata di un SS. L’autore dello scatto è un fotografo militare germanico, che documenta l’“impegno” per distruggere la comunità ebraica polacca. Incerta è l’identità del ragazzo, benché fra i più sia invalsa l’identificazione con Artur Siemiatek, allora di 8 anni, sopravvissuto all’Olocausto e trasferitosi in Israele.  



Non meno famosa è l’istantanea scattata nel 1972 da un fotografo dell’Associated Press, Nick Ut, che vinse il premio Pulitzer. Nei pressi di Saigon alcuni bambini fuggono terrorizzati da un villaggio bombardato e rastrellato da soldati americani; al centro dell’immagine una bambina nuda, ustionata, allarga le braccia disperatamente: è Kim Phuc, di 9 anni, che, salvatasi, diventerà ambasciatrice dell’Unesco per la pace.  



La terza foto ci riporta alla Seconda guerra mondiale. È un ritratto di Sadako Sasaki, la bambina giapponese che a due anni sopravvisse alla bomba atomica sganciata a Hiroshima, ma morì di leucemia dieci anni dopo. La foto è stata scattata nel 1955, quando il male era già stato diagnosticato: la ragazzina indossa il suo primo kimono e guarda l’obiettivo con infinita tristezza, quasi con senso di responsabilità. Sadako trascorse gli ultimi mesi realizzando origami raffiguranti piccole gru, simbolo di vita e speranza. A lei sono dedicati due monumenti, a Hiroshima e a Seattle.




P.M.

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 luglio 2014