sabato 9 agosto 2014

Immagini di guerra


Il dolore dei bambini


Orfanotrofio della Croce Rossa americana
nel 1918 a Manfredonia (archivio Alinari)
I social network dibattono sulla opportunità di pubblicare fotografie di bambini palestinesi vittime dei bombardamenti israeliani a Gaza. C’è chi afferma il dovere di documentare la realtà per quanto raccapricciante, e chi invoca la pietas o paventa l’assuefazione derivante da una sequenza ininterrotta di immagini cruente.
Da quando esistono la fotografia e il film, l’accostamento impietoso tra l’infanzia e la violenza della guerra produce un effetto sconvolgente: evoca l’arcaico, viscerale sentimento dell’innocenza violata, della vita appena sbocciata e già spezzata; l’ingiuria estrema inferta a bambini da altri esseri umani svela di colpo l’orrore senza fondo, il pauroso vuoto di senso che preferiremmo ignorare. C’è stato un tempo, però, in cui il documento fotografico fissava la sofferenza dell’infanzia non sul fronte, ma nelle retrovie. La Grande Guerra di cui ricorre il centenario è stata la prima veramente “di massa”, e pur tuttavia ancora una belligeranza di trincee, fra militari, fra eserciti regolari. I civili pativano la fame, la povertà, il dolore per i parenti caduti. Alcune foto documentano l’opera di assistenza della Croce Rossa americana in favore di minori italiani orfani o poveri; i bimbi hanno volti tesi, corrucciati; pochi i sorrisi, quasi smorti. Ma è con la Seconda guerra mondiale che i civili entrano in maggioranza fra le vittime: perché il conflitto diventa sistematicamente bombardamento di città, occupazione, rappresaglia, deportazione, schiavizzazione, sterminio. Ha inizio così anche l’amarissima storia delle immagini d’infanzia oltraggiata.  E anche in questo caso a impressionare di più, a far pensare, non sono tanto le foto dei morti quanto quelle di ragazzi colti nel momento acuto del maltrattamento e della sofferenza. La Shoah dei minori è fra le più attestate: file di bambine e bambini ebrei spinti verso i treni con le famiglie, gli sguardi cupi, stupefatti; e dopo, i sopravvissuti fotografati dai liberatori: bimbi nei pigiami a righe, oppure nudi, ridotti a scheletri tristissimi. Un’altra serie drammatica ritrae i bambini di Hiroshima: quelli dolenti che mostrano nel corpo il marchio inguaribile della letale radiazione e quelli seri, pensosi, che moriranno per gli effetti ritardati della bomba atomica.
Nell’epoca seguente, fino ai nostri giorni, la tragica galleria di immagini è cresciuta a dismisura: dai bimbi bruciati dal napalm in Vietnam a quelli mutilati in Afghanistan o asfissiati dai gas in Siria. Dieci anni fa oltre 180 bambini perirono nella strage della scuola di Beslan a causa del sequestro attuato da separatisti ceceni e della violenta irruzione della polizia russa. Difficile dimenticare l’immagine di quell’edificio scolastico dal quale uscivano di corsa, alla spicciolata, adulti sconvolti con in braccio bambini gravemente feriti. Il rovescio paradossale è nei i ritratti dei bambini-soldato, che in alcune parti del mondo (in Africa e Asia specialmente) vengono arruolati generalmente a forza per combattere in guerre endemiche. Le loro espressioni dure e rassegnate, prive di qualsiasi luce, mentre guardano l’obiettivo imbracciando un fucile, tradiscono un’angosciosa disperazione. 

Un fotogramma del video con Mohammed Al Dura.
Nella sequenza successiva si vedono il bimbo esanime e il padre tramortito.
Fonti israeliane affermano che Mohammed non è morto.
Ciò non cambia la sostanza di quanto ripreso dalle immagini.   
Certo, l’immagine è soggetta a interpretazione; non è “oggettiva”, nonostante l’apparenza. Conviene sapere quando è stata scattata una foto, da chi, perché; se è un’istantanea o se la scena è stata in qualche modo costruita. Commentatori israeliani contestano la veridicità delle immagini di bambini palestinesi uccisi o feriti. È nota la controversia sul video che ritrae il piccolo Mohammed al Dura esanime all’inizio della seconda Intifada nel 2000. 
E tuttavia la presunta manipolazione di questa o quell’immagine non può essere l’appiglio che inficia una mole di documentazioni concordi accumulatasi negli anni (grazie anche a giornalisti israeliani indipendenti), quasi che la violenza subita dai palestinesi – piccoli e adulti – fosse una gigantesca invenzione propagandistica e non una concretissima verità che si perpetua nel tempo. Ancora una volta, resta impresso il volto di un bambino vivo, traumatizzato: nell’intervista di un’inviata Rai a Gaza, tutt’altro che ostile verso Israele, il piccolo è accanto al padre, ha il capo fasciato, lo sguardo perso nel vuoto; il labbro inferiore trema senza sosta. L’incubo permane.    

Pasquale Martino 



   
Varsavia, Saigon, Hiroshima


Tre fotografie, tre icone del Novecento. La prima, celeberrima, ritrae un rastrellamento tedesco a Varsavia fra il 1941 e il 1943: un bambino ebreo avanza con le mani in alto, spaurito, sotto la minaccia armata di un SS. L’autore dello scatto è un fotografo militare germanico, che documenta l’“impegno” per distruggere la comunità ebraica polacca. Incerta è l’identità del ragazzo, benché fra i più sia invalsa l’identificazione con Artur Siemiatek, allora di 8 anni, sopravvissuto all’Olocausto e trasferitosi in Israele.  



Non meno famosa è l’istantanea scattata nel 1972 da un fotografo dell’Associated Press, Nick Ut, che vinse il premio Pulitzer. Nei pressi di Saigon alcuni bambini fuggono terrorizzati da un villaggio bombardato e rastrellato da soldati americani; al centro dell’immagine una bambina nuda, ustionata, allarga le braccia disperatamente: è Kim Phuc, di 9 anni, che, salvatasi, diventerà ambasciatrice dell’Unesco per la pace.  



La terza foto ci riporta alla Seconda guerra mondiale. È un ritratto di Sadako Sasaki, la bambina giapponese che a due anni sopravvisse alla bomba atomica sganciata a Hiroshima, ma morì di leucemia dieci anni dopo. La foto è stata scattata nel 1955, quando il male era già stato diagnosticato: la ragazzina indossa il suo primo kimono e guarda l’obiettivo con infinita tristezza, quasi con senso di responsabilità. Sadako trascorse gli ultimi mesi realizzando origami raffiguranti piccole gru, simbolo di vita e speranza. A lei sono dedicati due monumenti, a Hiroshima e a Seattle.




P.M.

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 luglio 2014