martedì 19 maggio 2020

Ovidio e Augusto



      Storia di una eterodossia riluttante 

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                  -     Lei ha letto il libro del poeta latino Ovidio, L’arte di amare?
-        -   Non è quello che è finito così male, tutto solo, a piagnucolare continuamente, e lamentarsi per il clima che era davvero pessimo?
-             -      Sì, ma prima si era divertito molto, divertito davvero.
              (Stanley Kubrick e Frederic Raphael, Eyes Wide Shut,1999)


Dei rapporti fra Ovidio e Augusto sappiamo meno di quanto si possa credere. Il poeta stesso, principale fonte di notizie sulla propria vita, non parla diffusamente di sé nei versi che precedono l’esilio. C’è il congedo degli Amores (III, 15) in cui l’Autore dichiara di essere nato nella terra dei Peligni, da famiglia di antico rango equestre, e prevede che la natia Sulmona ottenga gloria da lui come Mantova e Verona l’hanno ottenuta rispettivamente da Virgilio e da Catullo. Oltre a questo, ben pochi cenni biografici si possono leggere sparsi nelle opere. È soltanto a partire dall’8 d.C., dopo la condanna, che il tema autobiografico diventa prioritario, dominante e pressoché unico: per finalità su cui ci soffermeremo più avanti, i versi dell’esilio narrano la condizione attuale di Ovidio, ripercorrono le relazioni con gli amici e con la società letteraria di Roma, e rimandano ai rapporti con il principe.

Ma quali erano stati e come si erano venuti definendo tali rapporti? Quando Publio Ovidio Nasone incomincia a pubblicare, circa nel 15 a.C., sono già apparse le grandi opere letterarie della età augustea: i poemi virgiliani, le satire e i primi tre libri delle odi di Orazio, le elegie di Tibullo e Properzio. Virgilio e Tibullo non sono più in vita, Properzio muore pure intorno al 15 a.C., poco dopo l’uscita del suo IV libro. Ovidio presenta se stesso come l’ultimo poeta elegiaco in una serie di quattro (i primi tre sono Cornelio Gallo, Tibullo e Properzio), ma in realtà è un radicale innovatore di quel genere letterario ed è oltretutto poeta non solo elegiaco, visto che si cimenta egregiamente con altri generi come la tragedia e l’epos mitologico. Il suo esordio cade a un quindicennio della fine delle guerre civili; il ricordo di esse si va attenuando nella società e lascia spazio da un lato al sentimento di una pace realizzata – accortamente coltivato dalla propaganda augustea – , dall’altro alla domanda di una produzione letteraria interessante e più ricca, che non conservi le cicatrici di quelle dolorose vicende. Si va stabilizzando la nuova formula del potere – il principato che convive con la sopravvivenza formale delle istituzioni repubblicane; il programma augusteo di restaurazione ideologica e morale è in via di avanzata attuazione: l’Ara Pacis progettata nel 13 a.C. e inaugurata nel 9 a.C. consacra il beneficio della pax Augusta e attraverso il «potere delle immagini» dà forma di monumento a una cultura nazionale romana. Negli stessi anni Augusto aggiunge alle sue cariche il pontificato massimo (12 a.C.), assumendo la veste istituzionale di sommo tutore dei riti e del patrimonio religioso.
La poesia di Ovidio sembra a prima vista estranea a un tale progetto, o almeno al suo nucleo ideologico più forte; la proposta ovidiana di letteratura edonistica, disimpegnata, che rielabora l’enorme bagaglio della mitologia greca rendendolo fruibile a un pubblico più vasto, risponde però a un disegno che non è avulso dalla complessità della politica culturale augustea, articolata su più livelli. La varietà e pluralità della offerta letteraria soddisfa le richieste di una società mondana che desidera giovarsi dei frutti di una ritrovata concordia in seno alle classi benestanti. Il pubblico di Ovidio, inoltre, è specificamente un pubblico di lettori, non di uditori. Il volume come oggetto di consumo culturale si diffonde in una fascia più ampia che accede anche a biblioteche pubbliche ormai esistenti oltre che a biblioteche domestiche.
Nei componimenti dell’esilio, in particolare nelle Epistulae ex Ponto, Ovidio fa mostra di una molteplicità di relazioni che lo legano in vari modi con letterati e poeti e con la nobiltà romana vecchia e nuova; una nobiltà che ruota ormai in cerchi concentrici più o meno vicini alla domus imperiale. Ma con una famiglia soprattutto il poeta di Sulmona rivela di aver intrattenuto rapporti molto simili a quelli di clientela e di patronato: la nobile casata di Marco Valerio Messala Corvino, il “mecenate” della elegia latina. Antico oppositore di Ottaviano, poi suo tiepido sostenitore, Messala protegge nel proprio cenacolo una poesia amorosa come quella di Tibullo e di Sulpicia lontana da ideali patriottici e, a detta di Ovidio, incoraggia e accompagna i primi passi del quarto poeta elegiaco. Il Sulmonese si avvicina dunque all’entourage augusteo in modo indiretto (sebbene sua moglie Fabia sia stata benvoluta dalla zia di Ottaviano) e sviluppa una autonoma linea letteraria che trova posto a lungo nella cultura dell’epoca e non è considerata deviante o pericolosa nei riguardi della politica culturale ufficiale. Tuttavia a questa autonomia e “diversità” il poeta ama alludere con toni di irriverente leggerezza che talora sfiorano la rivendicazione: at Venus Aeneae regnat in urbe sui, «nella città del suo Enea, Venere regna»; non Marte, dio della potenza militare che è il fondamento reale dell’impero, impegnato però lontano da Roma per le residue guerre (nunc Mars externis animos exercet in armis: Amores I, 8, 41-42); e nemmeno una astratta Pax, conforme alla narrazione augustea: bensì Venere, Aeneadum genetrix – è vero – e quindi progenitrice anche di Augusto, ma soprattutto dea della bellezza e degli amori. Perfino il dio Giano, punto di riferimento e caposaldo della tradizione religiosa latina, deve ammettere con realismo e buon senso: «lodiamo i tempi andati, ma ci adattiamo ai nostri» (laudamus veteres, sed nostris utimur annis: Fasti I, 225). E però lodare i tempi andati è in qualche modo esattamente il programma ideologico retrospettivo di Augusto.

Poiché nelle elegie dell’esilio il tema autobiografico è indissolubilmente connesso alla condanna subita e alla battaglia di Ovidio per cancellarla o per attenuarne le conseguenze, è chiaro che il poeta si trova a muoversi su un crinale molto sottile e non privo di rischi: deve difendersi al meglio, ma non può accusare il principe di essere stato ingiusto perché non farebbe che aggravare la propria situazione. Ovidio è stato condannato con un editto monocratico di Augusto e non con un processo davanti al senato (e non è detto che in questo secondo caso gli sarebbe andata meglio, come dimostra quanto accaduto a Cornelio Gallo). La pena comminata non è la più grave: non solo non è la morte, ma è una relegatio che diversamente dall’exilium non comporta la confisca dei beni. Cosicché il principe va addirittura ringraziato, e su questa base gli si può chiedere non solo di non aggravare la pena – mentre qualche mestatore a Roma sta brigando per arrivare all’esproprio – ma di alleviarla, consentendo al condannato un avvicinamento all’Italia. Ciò che il poeta lamenta è soprattutto la spaventosa lontananza della località di confino, Tomi sul Mar Nero, la sua posizione in un territorio barbaro e desolato ai margini del mondo conosciuto.
Nella propria difficile autodifesa Ovidio asserisce, com’è noto, di essere stato rovinato da un carmen e da un error. Il carmen è l’Ars amatoria come più volte egli ha modo di chiarire. In effetti, la massima temerarietà della poesia ovidiana, sul piano esplicito, è quella dell’Ars e dei poemetti connessi (un corpus composto fra 1 a.C. e 1 d.C.): l’invenzione della elegia didascalica e, nel contempo, lo stravolgimento del genere didascalico piegato a insegnare non la filosofia, la natura, l’agricoltura, bensì i metodi e la tecnica per fare conquiste amorose; e spinto per di in più, nel terzo libro dell’Ars, fino a insegnare tali metodi anche alle donne. Inutile è la giustificazione a posteriori secondo cui la donne cui Ovidio si è rivolto sarebbero etère, professioniste ed entraineuses: in realtà il poema disegna comportamenti consueti fra le matrone e le donne della nobiltà e in esse trova lettrici interessate. Notevole è la chiusa: Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea turba, puellae / inscribant spoliis “Naso magister erat” (III, 811-12); «Come prima hanno fatto i giovani maschi, ora voi, ragazze, mia schiera, scrivete sulle spoglie da voi conquistate: Ovidio è stato il mio maestro». Poema provocatorio, insomma; eppure un tale poema circola liberamente per otto anni senza conseguenze, mentre Ovidio compone la sua massima opera, Le Metamorfosi, seguita dai Fasti, e cura l’edizione definitiva delle Heroides. Gli attacchi li aveva comunque già subiti (si difende nei Remedia Amoris, subito dopo l’Ars) evidentemente da parte di ambienti non tanto potenti da farlo cadere in disgrazia, ma almeno abbastanza influenti da indurlo a stare in guardia; e infatti non scrive più di amori. Forse per spiegare questa stranezza – un castigo tanto tardivo – dirà nei Tristia che qualcuno, malevolo, ha fatto leggere fuori tempo quei versi ad Augusto attirandone l’attenzione, mentre il sovrano aveva ben altro da fare che occuparsi di una poesia frivola.
C’è però una seconda causa della condanna: un error; ed è una causa più importante, quella vera (il poema è solo un pretesto); ma Ovidio non può dirla, perché se lo facesse – afferma – rinnoverebbe il dolore di Augusto, e di conseguenza ne accrescerebbe l’ira peggiorando irrimediabilmente la propria sorte. In due o tre passi (Tristia II, 103-104; III, 5, 49-50; III, 6, 27-28) dice non senza oscurità che l’error consiste nell’avere visto qualcosa che non doveva vedere, nell’essere stato testimone (o attore sia pure non protagonista?) di un fatto grave, in danno del principe. L’episodio è identificato plausibilmente con la contemporanea caduta e condanna di Giulia Minore, nipote di Augusto, incolpata come già sua madre per uno scandalo di adulterio che potrebbe nascondere un intrigo politico. Ovidio peraltro accosta prudentemente la propria vicenda a quella ben più grave che oltre un trentennio prima aveva segnato la fine di Cornelio Gallo, potente collaboratore di Augusto oltre che iniziatore dell’elegia latina. Lo fa rilevando la differenza: Gallo è stato punito non per i suoi versi erotici, ma per avere sfrenato troppo la lingua in stato di ubriachezza (Tristia II, 445-446), cioè verosimilmente per avere espresso su Augusto giudizi indipendenti e ritenuti intollerabili; Ovidio, invece, non ha pronunciato parole sacrileghe dopo aver bevuto troppo (Tristia III, 5, 47-48: non aliquid dixive, elatave lingua loquendo est, / lapsaque sunt nimio verba profana mero).
Una volta stabilita questa linea di difesa, che resta sostanzialmente immutata per tutto il decennio dell’esilio – una colpa che il poeta ammette, ma che dichiara essere stata del tutto involontaria – il tema autobiografico si articola nel racconto del viaggio, prima, e della permanenza, poi, in latitudini abissalmente distanti e invivibili. Ma l’apologia di se stesso e – nonostante tutto – della propria capacità di resistenza rimane un Leitmotiv. La lotta di Ovidio per sopravvivere al mare tempestoso e pauroso durante il trasferimento è in qualche modo una metafora della impari lotta per difendersi dal potere che lo perseguita. La tempesta quasi ostacola Ovidio scrittore, non vuole che racconti queste sue sofferenze: improba pugnat hiems indignaturque quod ausim / scribere se rigidas incutiente minas (Tristia I, 43-44). L’esilio minaccia seriamente l’ispirazione e l’agibilità letteraria di Ovidio, togliendogli la serenità necessaria alla sua ispirazione poetica e addirittura costringendolo ad abbandonare al loro destino le amate Metamorfosi, senza la revisione e la indispensabile mano finale. Nei lunghi anni che seguono, è ricorrente la rappresentazione di Tomi come una sorta di fortino circondato da nemici armati fino ai denti, ultimo avamposto della civiltà, pericoloso, gelido e spesso innevato (con evidente iperbole: l’odierna Costanza è una rinomata località balneare…). Ultima me tellus, ultimus orbis habet (Epistulae ex Ponto II, 8, 66). Si innesta così quasi agevolmente il tema mitologico: il riferimento agli Argonauti che pure si spinsero fino al misterioso Ponto Eusino per trovare il Vello d’Oro, a Ulisse che visse tante peripezie lontano dalla patria, con l’ovvia differenza che quegli eroi mitologici, alla fine, tornarono a casa. Ovidio non è attratto da ciò che Baudelaire definirà «orrore simpatico» biasimando nel poeta delle Metamorfosi l’insensibilità al fascino dell’ignoto: «Avido dell’oscuro e dell’incerto / non gemerò come gemette Ovidio /cacciato via dal suo Eden latino» (Fleurs du mal, 82, trad. Luigi de Nardis). Tuttavia alla fine anche l’infelice esule, in un paese dove non si conosce la lingua latina e pochi parlano greco, si adatterà a imparare l’idioma getico, comporrà in getico alcuni versi e sarà stimato e onorato da quella gente barbara che non è incapace di rispetto.
Non va peraltro sottovalutato né tanto meno ignorato il fatto che attraverso il metodico invio a Roma di epistole elegiache – messaggi in qualche modo pubblici, “lettere aperte” che si accompagnano e si integrano con la corrispondenza epistolare vera e propria, privata e riservata – il poeta si propone di conservare e alimentare una attività di relazione con la società romana; intrecciando e consolidando legami pur fra momenti di disperazione e pessimismo, Ovidio persegue alcune ben precise finalità pratiche. La prima finalità è quella che abbiamo già indicato, e che viene apertamente dichiarata: ammorbidire la pena, almeno avvicinarsi a Roma, e nel contempo parare i colpi dei nemici che vorrebbero appropriarsi dei suoi beni. Ma un fine ulteriore, che si rivela non secondario e anzi acquista una rango primario man mano che le speranze in un parziale perdono si affievoliscono, è quello di tutelare la propria opera poetica: sia i libri del periodo felice sia questi ultimi, della «tristezza»; non permettere che i propri rotoli vengano rimossi dalle biblioteche, anzi trovare posto anche per questi che arrivano a Roma dal Ponto; preservare e continuare a costruire la propria fama. Le elegie tristi cercano collocazione nelle biblioteche pubbliche (quelle di Augusto e quella di Asinio Pollione), ma non la trovano: l’auspicio è che siano accolte almeno nelle dimore private (Tristia III, 1, 65 sgg.), magari al posto dei tre volumi di Ars amatoria, messi al bando (Epistulae ex Ponto I, 1, 11-12). La strategia dell’esule implica soprattutto il tentativo di riconquistare qualche considerazione nella casa regnante aggirando l’impraticabile contatto diretto con il principe e cercando spazi di rapporti con l’erede al trono Tiberio e con il successore designato di questo, Germanico, dei quali intende celebrare il trionfo per le campagne in Germania (12 d.C: Epistulae ex Ponto II, 1, 63 sgg.). Dopo la morte di Augusto (14 d.C.) Ovidio si rivolge con reiterata intensità ai due autorevoli personaggi, che già operano per un rinnovamento letterario; a Germanico, poeta lui stesso, è intestata la dedica dei Fasti nella edizione aggiornata cui Ovidio lavora a Tomi. Questa strategia ebbe un parziale ma significativo successo: non nella revoca o attenuazione del bando, che Tiberio non accordò, ma almeno nella riparazione della fama del poeta e nella conservazione dei libri. A Ovidio fu restituita o non fu tolta la considerazione pubblica di sommo artista: tale lo indica lo storico ufficiale dell’età tiberiana, Velleio Patercolo, includendo il Sulmonese fra i perfectissimi, con Virgilio e Tibullo (non Orazio e non Properzio; Historia Romana II, 36); soprattutto, le sue opere si salvarono quasi tutte, compresa l’Ars incriminata.  

Si riscontra nelle elegie dell’esilio un singolare contrappunto di sottomissione – che sembra intensificarsi col passare del tempo e diventa molto spesso enfasi encomiastica – e di accenti di protesta, affermazioni di indipendenza. Un contrasto che tradisce la difficoltà e la insostenibilità della situazione in cui il poeta si trova. La protesta è in brevi frasi collocate qua e là, apparentemente sotto tono. Frasi come questa: «Ho subito la pena del mio ingegno» (Tristia II, 11-12: Hoc pretium curae vigilatorumque laborum / cepimus: ingenio est poena reperta meo). Ovidio intuisce forse che questa è la motivazione più nobile del proprio stato di vittima, da indicare alla posterità. Ma così dicendo contraddice l’atteggiamento di accettazione altrove esibito. Ancora più netta è la seguente asserzione: «Sono in compagnia del mio ingegno e ne traggo giovamento; Cesare in ciò non ha potuto avere nessuna giurisdizione» (Tristia III, 7, 47-48: ingenio tamen ipse meo comitorque fruorque: / Caesar in hoc potuit iuris habere nihil). Libertà dello spirito, dunque, che non soggiace alla costrizione della legge e al potere. «La mia mente si è rifiutata di soccombere al male e usando tutta la sua forza si è mostrata invitta» (Tristia IV, 10, 103-104: indignata malis mens est succumbere seque / praestitit invictam viribus usa suis). Doveva già apparire alquanto strano e decisamente temerario il riferimento autobiografico al proprio anno di nascita, il 43 a.C., descritto come «il tempo in cui caddero fatalmente entrambi i consoli» (cum cecidit fato consul uterque pari: Tristia IV, 10, 6). Il console Aulo Irzio (il continuatore del De bello Gallico e del Bellum civile di Cesare) era morto il 21 aprile in battaglia contro Marco Antonio nella guerra di Modena; il collega Gaio Vibio Pansa lo aveva seguito due giorni dopo, stroncato dalle ferite riportate in combattimento. Morti sospette, specie la seconda: grazie alla scomparsa contemporanea di ambedue i massimi magistrati Ottaviano, che combatteva al loro fianco, a soli vent’anni aveva potuto ottenere il suo primo consolato, con le armi in pugno e con una clamorosa forzatura costituzionale. I sospetti coltivati fin da subito a proposito delle due morti opportune sono attestati da Tacito (Annales I, 10). L’ambiguità della allusione, sebbene motivata dalla necessità di indicare il proprio anno di nascita, non poteva sfuggire a Ovidio. Insomma, il poeta di Sulmona ricorda al principe che la propria venuta al mondo è coeva e strettamente congiunta al fatto violento che segna la genesi del trono di Ottaviano.
Non mancano infine i cenni se pure retoricamente dubitativi circa l’onnipotenza del divo Augusto. «Sebbene sia un dio e come tale sappia tutto, Cesare ignora la condizione di questo luogo estremo in cui mi trovo» (Epistulae ex Ponto I, 2, 71-72: Nescit enim Caesar, quamvis deus omnia norit, / ultimus hic qua sit condicione locus). «L’ira di un uomo mite non mi avrebbe mandato qua, se solo avesse saputo quanto basta di questa terra» (ivi, 87-88: Ira viri mitis non me misisset in istam, / si satis haec illi nota fuisset humus). Quel dio non sa tutto, e in particolare sa poco e niente sulle regioni estreme del suo impero. Di conseguenza, anche la decantata pace si svela essere una finzione; in questa scoperta si avverte una sfumatura sarcastica: «credimi, in tutto il mondo non c’è posto che meno di questo goda della Pax Augusta» ( vix hac invenies totum, mihi crede, per orbem / quae minus Augusta pace fruatur humus: Epistulae ex Ponto II, 5, 17-18). E se non c’è qui, nella periferia imperiale, la Pax Augusta probabilmente non c’è neanche altrove; non esiste, non è che è un’invenzione.

Pasquale Martino


       da Academia.edu, 2018