sabato 30 novembre 2013

Ettore Ciccotti

La modernità dell’antichista

Ettore Ciccotti, il «professore socialista» di Potenza
A 150 anni dalla nascita, un protagonista solitario della cultura italiana

Ricorre in questi giorni il 150° anniversario della nascita di Ettore Ciccotti: «il professore socialista», «un solitario nella cultura italiana»; due definizioni che sono state date di lui, indicative della sua vicenda pubblica. Poco più anziano di Benedetto Croce, fu una figura di spicco nella generazione di intellettuali meridionali attiva dopo l’Unità. Venuto al mondo a Potenza il 24 marzo 1863 da una famiglia della borghesia antiborbonica (il padre diventerà sindaco del capoluogo lucano), Ciccotti si forma a Napoli, nutrendosi di idee mazziniane. È indirizzato agli studi di antichistica dallo storico ed epigrafista Ettore De Ruggiero, discepolo di Francesco De Sanctis e, in Germania, allievo di Theodor Mommsen. Nel 1891 si trasferisce a Milano, vincitore di un concorso di storia antica. Nella metropoli lombarda si accosta al socialismo emergente e al neonato partito dei lavoratori; collabora alla rivista di Turati «Critica sociale», propugnando la strutturazione dei circoli socialisti in una moderna organizzazione, e appoggiando il progetto di un quotidiano nazionale (l’«Avanti!» apparirà nel 1896). Ciccotti – ha scritto Piero Treves – «si buttava nella lotta politica a detrimento sicuro delle proprie fortune universitarie». Nel 1897 gli viene negata la promozione a docente ordinario a causa delle sue idee “sovversive”, nonostante la difesa del grande glottologo Graziadio I. Ascoli (la cui memorabile perorazione ebbe per titolo Il professore socialista: un ossimoro, all’epoca); per di più, dopo la repressione antioperaia di Bava Beccaris nel 1998 è costretto a fuggire in Svizzera.

Nel 1900 è eletto deputato; ma ha inizio allora anche la sua critica verso il partito socialista, da lui accusato di essere insensibile alla questione meridionale.  Amico e corrispondente del conterraneo Giustino Fortunato, sviluppa una posizione di  meridionalismo federalista affine per certi versi a quella di Salvemini; al quale lo accomuna anche l’adesione, nel 1915, all’interventismo democratico.  Nel dopoguerra coltiva simpatie per il nascente fascismo come non poca parte degli intellettuali politici del suo tempo, ma dal 1924, nominato senatore per iniziativa dell’ex allievo Alessandro Casati, allora ministro dell’istruzione, matura il progressivo distacco che lo porterà ad avversare la legislazione fascista e a difendere Ernesto Rossi perseguitato dal regime.  Ciccotti è ormai una figura isolata, anche rispetto alle scuole classiciste italiane, sempre più sedotte dalla “nuova Roma” e poi dal filo-germanesimo. Quando la morte lo coglie, il 20 maggio 1939, alla vigilia della seconda guerra, ha appena scritto un saggio (che sarà pubblicato solo dopo la caduta del fascismo) in cui – in piena campagna antisemita – ipotizza l’origine ebraica di Orazio.    
Sarebbe impossibile dare conto qui della fervida attività politico-culturale dello studioso potentino, nella quale si inseriscono la divulgazione delle opere di Marx ed Engels (in collaborazione con la moglie, la traduttrice Ernestina d’Errico) e la direzione, con Vilfredo Pareto, della Biblioteca di Storia Economica. Quel che più importa rilevare è la sua interpretazione pionieristica (nel decennio 1890-1900) e, si potrebbe dire, geniale, del metodo del materialismo storico applicato alla scienza dell’antichità: un terreno sul quale Ciccotti si muove guidato dal gusto delle analogie fra passato e presente, quasi anticipando la tesi crociana per cui ogni storia è storia contemporanea. Il lavoro, la schiavitù, la condizione femminile sono i temi preferiti dallo storico lucano, sull’onda del movimento operaio, dell’abolizione della schiavitù in America, delle manifestazioni proto-femministe.   

La sua opera più nota e più importante, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico (1899), fu tradotta in varie lingue e recensita favorevolmente, fra gli altri, da Karl Kautsky, il massimo teorico marxista dopo la morte di Engels; ripubblicata dalla «Universale Laterza» nel 1977, è oggi pressoché introvabile.  Nonostante il titolo, il saggio ricostruisce anzitutto le origini e l’apice del modo di produzione schiavistico ad Atene e a Roma, dando limpido risalto alla «esistenza normale e generale di una classe di schiavi» e indicando in questa «la base ed il sostrato della società antica». Il punto più problematico rimane però la causa del declino di quel sistema economico. Entrata in ombra la spiegazione respinta da Ciccotti – che attribuiva la fine della schiavitù all’influenza del cristianesimo – e consolidatosi il principio metodologico della ricerca sul contesto economico-sociale, è tuttora discussa la tesi di fondo di quel libro: che il tramonto dello schiavismo antico sia stato causato dalla scarsa produttività del lavoro, meno competitivo rispetto a quello dei servi della gleba man mano affermatosi. Una tesi che la storiografia del secolo successivo, ivi compresa quella marxista, ha talora accolto, talora contestato, senza mai invalidarne del tutto l’efficacia.

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 23 marzo 2013

mercoledì 27 novembre 2013

Cesare


Il discorso di Critognato

De bello Gallico, VII, 77



Come è noto, Cesare riferisce di norma i discorsi dei protagonisti in oratio obliqua: ciò è considerato dai commentatori una garanzia di maggiore veridicità, perché permette allo scrittore di andare alla sostanza delle argomentazioni, senza costringersi a quell’invenzione retorica che è il portato inevitabile delle orazioni dirette. L’unica significativa eccezione all’uso generalizzato dell’oratio obliqua è la cospicua oratio Critognati, vero pezzo di bravura oratoria. Un testo che, fra l’altro, ha il pregio di documentare la maestria di Cesare oratore, tanto lodata dai contemporanei e da Quintiliano, ma a noi altrimenti sconosciuta, visto che i discorsi di Cesare non si sono conservati. La singolarità di questo testo – unita al fatto che il personaggio di Critognato è nominato solo qui – ha indotto a dubitare della sua autenticità e a sospettare una interpolazione. Tuttavia l’orazione appare assolutamente organica al contesto del racconto. Del tutto plausibile è la motivazione di questo passo addotta dall’Autore: egli è venuto a sapere della “eccezionale e spietata crudezza” della proposta di Critognato e ha ritenuto opportuno darle il dovuto rilievo. Ma vanno considerate anche altre due motivazioni implicite: dal punto di vista letterario e narrativo, il discorso acuisce la tensione drammatica nel momento piú critico della guerra gallica; inoltre, esso ha un chiaro contenuto ideologico, sul quale torneremo piú avanti.

Questi in sintesi i fatti. Al culmine della rivolta gallica (anno 52 a.C.), 80.000 guerrieri guidati da Vercingetorige sono asserragliati nella città di Alesia. I Romani hanno costruito attorno agli assediati una possente circonvallazione. Prima che i passaggi fossero completamente ostruiti, Vercingetorige è riuscito a far filtrare dei messaggeri spediti in tutta la Gallia per chiedere rinforzi. Consapevole di ciò, Cesare incomincia a far costruire una fortificazione attorno alla cinta d’assedio, in modo da reggere anche l’assalto esterno e poter combattere su due fronti. I Galli hanno calcolato di avere in Alesia cibo sufficiente per trenta giorni, o poco piú se il razionamento verrà ridotto; alla scadenza di questo termine si aspettano di ricevere l’armata di soccorso. Questa è effettivamente in preparazione, ma i tempi sono piú lunghi: alla fine le tribú galliche radunano 240.000 fanti e 8.000 cavalieri che, sotto il comando di Commio Atrebate, si dirigono verso Alesia. L’informazione di ciò raggiunge i Romani, che intensificano i lavori di protezione esterna; gli assediati invece non hanno notizia dell’evolversi della situazione, perché ormai ogni accesso ai messaggeri è bloccato. Poiché le scorte sono esaurite, viene riunito ad Alesia il consiglio dei capi per decidere il da farsi. All’inizio del consesso si confrontano due ipotesi contrastanti, le quali hanno però in comune la convinzione che gli aiuti, quand’anche arrivino, giungeranno troppo tardi: la prima ipotesi è di arrendersi ai Romani, la seconda di compiere una sortita disperata e tentare di rompere la linea di assedio. Sembra che quest’ultima proposta raccolga una larga maggioranza: è a questo punto che prende la parola Critognato, presentato come un nobilissimo e autorevole principe degli Arverni. Questa è la stessa tribú di Vercingetorige, e ciò lascia supporre che l’opinione di Critognato risponda al pensiero del comandante in capo (del quale non viene detto che si sia espresso durante il dibattito); ma, soprattutto, la proposta di Critognato rilancia nella sostanza la tattica di Vercingetorige: attendere a ogni costo l’arrivo dell’armata di soccorso, per impegnare i Romani da due parti con forze preponderanti. L’indizio che dà fiducia circa l’imminente arrivo – dice Critognato – è proprio la visibile accelerazione dei lavori di sbarramento esterno da parte dei Romani. Egli dunque propone di resistere strenuamente e, se il cibo è terminato, di nutrire gli 80.000 combattenti con le carni dei non combattenti: cioè di tutte le persone inadatte alla guerra. Vecchi, donne, bambini dovranno perciò soccombere onde i guerrieri sopravvivano. L’atrocità singolare della oratio, che tanto ha colpito Cesare, sta principalmente in questa proposta di cannibalismo. Ma la durezza è anche nell’approccio che Critognato mostra verso le altre due proposte. Non prende nemmeno in considerazione i sostenitori della resa; anzi, propone che vengano espulsi dal consiglio dei capi: una sorta di drastico provvedimento di salute pubblica. Discute solo con i fautori della sortita (che, a quanto dice, sono in maggioranza): ma li accusa di scarsa fermezza d’animo o, nel migliore dei casi, di avventatezza, di “stolta temerarietà”. Sostiene che il vero coraggio è di resistere pur in questa condizione penosa, mentre gettare via le vite dei guerrieri equivale a danneggiare irreparabilmente tutta la Gallia. Fa riferimento infine al precedente di antropofagia praticato dai Galli chiusi nelle loro fortezze durante la rovinosa calata dei Cimbri e dei Teutoni (è questo il solo luogo della tradizione in cui venga riportata tale notizia). L’intervento di Critognato è determinante per la decisione finale del consiglio (De bello Gallico VII, 78): il quale, pur non accettando la proposta piú estrema, quella del cannibalismo, stabilisce di evacuare dalla città l’intera popolazione non combattente, cioè tutta o quasi tutta la cittadinanza originaria di Alesia (i Mandubi), lasciando fra le mura solo i guerrieri gallici. In questo modo tutto il poco cibo rimasto verrà distribuito fra i combattenti, consentendo loro di resistere in attesa dei soccorsi. Non è un provvedimento meno crudele: tranne che i Galli non sperino nella pietà dei Romani, che si convincano a nutrire gli espulsi (come ipotizza Cassio Dione); cosa che, ovviamente, non accade. I Romani non sono da meno, diffidano di questa massa che si accalca davanti al campo e hanno da preservare i loro rifornimenti. Cesare non dice, per reticenza, che cosa avvenne degli sventurati; ma si può immaginare, come ha fatto Cassio Dione, che morirono tutti di fame nel tratto fra le mura e il vallo romano. 
Questi i contenuti essenziali del discorso di Critognato. Il resto – la costruzione delle argomentazioni, il pathos, l’espressione, le figure retoriche – è creazione letteraria, come sempre nella storiografia antica, dove la materia delle allocuzioni originarie è solo lo spunto per l’esercitazione oratoria degli storici. Ma perché – è lecito domandarsi – l’intera orazione, nella forma e nel contenuto, non dovrebbe essere stata inventata di sana pianta da Cesare? Si può rispondere che la pura invenzione di concetti attribuiti ai personaggi storici è profondamente estranea al metodo di Cesare. Egli omette, enfatizza, contestualizza a modo suo, distorce, ma non inventa dal nulla. C’è una seconda obiezione: come avrebbe fatto Cesare a sapere del discorso di Critognato? Le notizie dal campo nemico provenivano, com’egli stesso spiega, specialmente dai disertori. Ma questo dibattito avvenne in una città strettamente assediata, per di piú in un consesso appartato: non era un’assemblea popolare, perché queste assemblee non si facevano in Gallia De bello Gallico VI, 1, 3: plebes nullo adhibetur consilio) se non all’inizio di una guerra (De bello Gallico V, 56). Sono possibili però diverse risposte. A dare notizia del dibattito potrebbero essere stati dei prigionieri eminenti dopo la vittoria finale di Cesare; magari soprattutto coloro che nel consiglio sostennero la resa, al fine di distinguere le loro responsabilità da quelle degli intransigenti come Critognato e Vercingetorige. Oppure potrebbero averlo fatto quelli che erano stati evacuati da Alesia, ai quali una qualche motivazione del loro destino doveva essere stata data (persino come conforto per non aver subito il destino peggiore di essere mangiati dai guerrieri); i quali, giunti fin sotto il vallo per implorare aiuto, potrebbero aver raccontato queste cose ai Romani per convincerli che essi erano delle vittime e non un pericolo.

È evidente il valore ideologico del discorso. In primo luogo Cesare intende rimarcare, come di consueto nelle rappresentazioni dell’‘altro’, il tratto di irriducibile ‘diversità’ barbarica che è agli antipodi della humanitas greco-latina, e che, ovviamente, si rivela soprattutto nella proposta di antropofagia. In secondo luogo – ed è questo l’aspetto pú interessante – lo scrittore compie uno sforzo di elaborazione ideologica che in qualche modo è in contrasto con il precedente assunto della diversità barbarica. Egli tenta infatti di penetrare nel punto di vista del nemico, di rappresentarne vivacemente le ragioni, che consistono soprattutto nell’aspirazione alla libertà, unita alla coscienza di possedere leggi e istituzioni autonome, e nella critica dell’imperialismo romano in quanto spietata macchina di asservimento dei popoli: due volte, nel discorso di Critognato, ricorre la parola libertas, due volte compare il binomio iura / leges e quattro volte ricorre la parola servitus (la schiavitú che i Romani impongono), accompagnata dagli aggettivi turpissima, perpetua, aeterna. Una servitú irreversibile, la piú ignobile che si possa immaginare. Come ha giustamente osservato L. Canali (Cesare senza miti, Torino, 1969, p. 71), è proprio l’acuta sensibilità politica di Cesare a consentirgli di immedesimarsi nell’avversario e di dare dignità alle sue motivazioni: che sono in contraddizione insanabile con quelle di Roma (delle quali non è mai messa in dubbio la prevalenza), ma non indegne di essere nominate; anche perché la gagliardia degli ideali di resistenza dei popoli attaccati conferisce maggiore gloria alla fatica dei vincitori. Cesare apre cosí la serie notevole di "orazioni del nemico" in cui si cimenteranno gli storici latini, e che avrà i suoi esiti salienti nella lettera di Mitridate in Sallustio e nella tacitiana orazione di Calgaco.

Pasquale Martino
da: Cesare, Antologia di passi tratti dal De bello Gallico e dal De bello civili, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2006

Immagini: Il Galata che uccide se stesso e la moglie, particolari: Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps, Roma.

Storia operaia

Cortei e occupazioni, Bari in tuta blu
Breve storia della lunga protesta operaia

 
Forse si è in tempo per scongiurare la chiusura della Bridgestone di Bari:  un disastro che si abbatterebbe su una zona industriale già profondamente ferita dagli esuberi, dalla cassa integrazione, dalle procedure di mobilità.  Solo poco tempo fa  il caso simile della OM Carrelli elevatori ha trovato per fortuna una via di scampo*. Si comprende che l’attenzione si incentri sull’urgenza della questione occupazionale, eppure la vicenda della fabbrica di pneumatici barese ha un significato emblematico che va al di là dell’immediato: è una pagina importante di storia industriale e soprattutto di storia operaia del territorio. 
Sarebbe, dunque, il momento di riscoprire la biografia di Bari e della sua area metropolitana dal punto di vista della classe lavoratrice, anche se il capoluogo pugliese ha sempre faticato a fare i conti con la propria componente industriale e operaia. Bari ha convissuto con una identità di città commerciale, in cui la rendita agraria si traduceva in investimento finanziario e  in proprietà immobiliare, alimentando le professioni tradizionali oltre che la burocrazia pubblica. Però una città così restia a riconoscere i conflitti sociali ha dovuto periodicamente accorgersi dell’esistenza di un proletariato industriale, delle sue rivendicazioni e della sua soggettività; della sua capacità di lasciare una traccia nei processi storici. Nel 1962 la dirompente rivolta degli edili fu seguita dalla formazione della prima giunta comunale di centro-sinistra. E non fu certo un nesso casuale: la società cambiava e di ciò la lotta operaia era sintomo e concausa. 
Nel frattempo si costruiva la zona industriale fra Bari e Modugno e una parte di quegli edili veniva assorbita come forza lavoro dell’impresa manifatturiera. Si trattava di una rete di medie e piccole fabbriche, per lo più sostenute dalle partecipazioni statali, che a Bari realizzarono fra l’altro la Breda Fucine Meridionali e la fabbrica di pneumatici Brema, di lì a poco unitasi con l’americana Firestone. E sorsero fra le altre la Pignone Sud, la Breda Hupp, l’Isotta Fraschini, mentre in quel contesto prosperavano ditte metalmeccaniche locali come la Calabrese e la Uniblok e si insediava la nordeuropea Hettemarks, industria di abbigliamento con manodopera femminile. Non poche aziende sperimentavano produzioni di avanguardia: e Bari diventava una città industriale avanzata quasi senza saperlo.  All’inizio degli anni ’70 arrivò lo stabilimento Fiat, che nasceva ormai nel segno della nuova coscienza di classe maturata durante l’autunno caldo del ’69.
Ma già nel 1968 la grande vertenza contro le “gabbie salariali” era stata il primo battesimo del fuoco di una neonata classe lavoratrice, poco sindacalizzata, non di rado sottomessa alla direzione aziendale, che però  scopriva ora il gusto della ribellione: e nel moto di protesta di tutto il Mezzogiorno contro l’ingiustizia di un salario differenziato fra Nord e Sud faceva valere il proprio sentimento ugualitario, procedeva alla resa dei conti con le piccole e grandi sopraffazioni dentro l’universo quotidiano della fabbrica.  I 47 giorni di occupazione operaia delle Fucine Meridionali (maggio-giugno 1968) – un episodio senza precedenti, che scosse la città  – non furono motivati soltanto da sacrosante rivendicazioni economiche, ma anche dal bisogno di affermare una democrazia nei rapporti di lavoro, di contestare la gerarchia autoritaria e le logiche punitive dentro l’ officina. Si formavano allora le commissioni interne e poi i consigli di fabbrica, nei reparti entrava il sindacato: non la “burocrazia” – poca cosa in quella giovane zona industriale – ma l’organizzazione dei lavoratori, il proprio strumento di lotta e di crescita democratica.
Gli operai iniziarono a sfilare in città perché tutti sapessero contro che cosa si battevano, che cosa volevano. I primi a mescolarsi con loro furono gli studenti: non era ancora un rituale ripetitivo, era il convergere spontaneo di forze giovani che si andavano liberando.  E nei cortei non mancava mai l’ondeggiante striscione della Firestone Brema, in testa a una folta schiera.
Questa presenza operaia ricorrente, questo dialogo con gli studenti, non sono stati senza effetti nella educazione di quella generazione e delle successive, dal punto di vista civile e politico. Non era una partecipazione meramente protestataria ed economicista. Se si guardano i servizi fotografici e i filmati della grande manifestazione del 29 novembre 1977, seguita all’assassinio di Benedetto Petrone per mano fascista, si resta colpiti dall’onnipresenza delle tute blu e degli striscioni di numerose fabbriche baresi.  L’esperienza e perizia tecnica delle maestranze era diventata anche cultura dei diritti, coscienza civile. 
Dal sito di SkyTg24
Aveva inizio però il declino: il ciclo economico sfavorevole, la crisi delle politiche di sostegno al Mezzogiorno, la ritirata strategica delle partecipazioni statali; quello che Nico Perrone in un suo libro del 1991 ha chiamato il «dissesto programmato». Era anche una rivincita dei datori di lavoro, un contrattacco che sottraeva parte del terreno guadagnato dalle classi lavoratrici.  La parabola dal capitale pubblico al capitale privato, alle riconversioni, dismissioni, riduzioni di personale, riguarda anche la Firestone, divenuta Bridgestone alla fine degli anni ’80 con l’immissione di capitale nipponico. La produzione è ridimensionata e l’occupazione diminuisce, vengono introdotti i contratti week end e varie forme di flessibilità. È in questo quadro contrattuale che, negli anni ’90, arrivano i tedeschi a dare un po’ di respiro alla zona industriale barese con le loro fabbriche di componenti automobilistiche, la Bosch e la Getrag. Gli operai Bridgestone, tuttavia, aprono un altro versante di lotta: quello della salute in fabbrica, connesso non soltanto ai procedimenti produttivi, ma alla diffusa presenta dell’amianto. Come i lavoratori della Fibronit – l’industria innervata nel cuore di un grande quartiere popolare – gli operai Bridgestone hanno costituito una combattiva associazione di esposti all’amianto, intitolata alla memoria di uno di loro, il manutentore elettrico Benedetto Piscazzi, vittima dell’asbesto. La coscienza operaia ha insegnato parecchie cose alla città, anche in termini di cultura della salute e dell’ambiente.

Pasquale Martino
 
*In realtà la vertenza della OM Carrelli Elevatori si è riaperta e nell'estate del 2013 sembra ancora lontana da soluzione.
 
Dal sito: Il lato sinistro
Davanti ai cancelli delle fabbriche
E gli studenti al fianco degli operai
 
 
 
 
 
 
La solidarietà operai-studenti nei primi anni ’70 fu una cosa vera e nuova. Non c’era solo l’incontro nei cortei che gremivano i grandi assi della scacchiera urbana. Decine, centinaia di quegli studenti si recavano all’alba davanti ai cancelli delle fabbriche, per volantinare, per aiutare gli operai a scioperare, a realizzare i picchetti. Nella geografia della zona industriale barese, la Firestone (poi Bridgestone) era uno snodo strategico: una delle destinazioni obbligate dei volantinaggi che si effettuavano a ogni cambio turno. Gli operai vedevano di buon occhio il sostegno degli studenti: per loro – che fino al ‘68 non avevano mai scioperato – era all’inizio più difficile gettarsi nella lotta, visto che perdevano giornate di paga  e rischiavano il posto di lavoro. Per gli studenti quello era un modo di trasmettere ai lavoratori la propria radicalità, la propria carica antiautoritaria, ma era anche un lavacro purificatore che consentiva a un potenziale “proletariato intellettuale” di negare il proprio substrato piccolo-borghese contaminandosi nell’abbraccio con i veri proletari, i veri produttori sfruttati in procinto di rivoluzionare l’economia e la società. Fu una scuola di vita e un amalgama culturale, anche se non abbatté del tutto le barriere sociali come l’utopia avrebbe preteso. Molti studenti e operai si ritrovarono nei movimenti, nei gruppi, nei sindacati, nei partiti. Nasceva una generazione impegnata, militante; nascevano anche una cultura civile e una tradizione di movimento che in molte forme si sarebbe trasmessa alle generazioni successive.  
 
P.M.
 
pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 12 marzo 2013


lunedì 25 novembre 2013

Lucrezio


La peste di Atene
De rerum natura VI, 1138-1286

 

Lucrezio, busto del Pincio
L'episodio della peste di Atene, forse il piú celebre del De rerum natura, chiude con un esplicito gioco di simmetrie e antitesi l'ultimo libro che è stato aperto dall'elogio di Atene e, con esso, l'intero poema. Non è forse senza significato, peraltro, che nel proemio laudativo la capitale dell’Attica sia evocata enfaticamente per nome (praeclaro nomine Athenae: v. 2), mentre nella luttuosa chiusura venga identificata mediante perifrasi (la città di Cecrope e Pandione: vv.  1139 e 1143). Il libro VI affronta l'analisi scientifica dei fenomeni naturali: fulmini, trombe marine, pioggia e arcobaleno, terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, magnetismo; per ultime, le malattie e le epidemie (secondo un ordine consueto nelle antiche esposizioni di fisica). Che il possente affresco della peste di Atene concluda, in un grandioso finale, il poema della natura appare quindi del tutto comprensibile e coerente con l'impostazione dell'opera. Non sembra pertanto fondata la tesi che denuncia la presunta incongruenza di questa conclusione, ricavandone un indizio di incompiutezza del poema.  

La «pestilenza» qui descritta è l'epidemia che si abbatté sull'Attica nel 430 a.C., in piena guerra del Peloponneso, e a seguito della quale, nel 429 a.C., morí anche Pericle. La natura del morbo non è stata accertata: i sintomi riferiti da Tucidide e da Lucrezio non corrispondono a quelli della peste bubbonica, ma hanno fatto pensare piuttosto al morbillo, al vaiolo o al tifo. L'esposizione di Tucidide (La guerra del Peloponneso, II, 47-54) è la fonte principale utilizzata da Lucrezio, che attinge però anche ad alcuni trattati del Corpus Hippocraticum (l'insieme degli scritti di medicina attribuibili a Ippocrate e ai suoi scolari, V-IV secolo a.C.), specialmente al Prognostico, per rappresentare i sintomi dello stato agonico. Significativa testimonianza del rigore scientifico con cui Lucrezio si è documentato è appunto la consultazione dei testi che nel V secolo fondarono il metodo di indagine indiziaria: Tucidide e Ippocrate sono intenti a un’analoga analisi dei sintomi che consentono nell’un caso di presagire gli esiti di un processo storico, nell'altro di diagnosticare la natura di una malattia e prevedere il suo decorso. Non è da escludere, naturalmente, l’influenza non documentabile di opere di Epicuro come per esempio quella attribuitagli da  Diogene Laerzio (Vite de filosofi X, 28), intitolata Opinioni sulle malattie. 


Dopo aver accennato all'origine dell'epidemia e al suo arrivo nell'Attica (vv. 1138-1144), il poeta si sofferma dettagliatamente sulla sintomatologia del morbo (vv. 1145-1181) e sugli indizi dell'imminente decesso (vv. 1182-1198); descrive poi la condizione di coloro che sopravvivono al morbo, ma solo per morire in un secondo momento o soltanto grazie all’amputazione delle membra (vv. 1199-1214), gli effetti della pestilenza sugli animali (vv. 1215-1225), l'assenza di rimedi, che introduce la rappresentazione delle disastrose conseguenze psicologiche dell'epidemia (vv. 1226-1234); segue il quadro dei comportamenti ispirati a egoismo oppure a umana pietà, tutti ugualmente impo­tenti a limitare il disastro (vv. 1235-1251). La visuale si allarga alla popolazione del contado, che a causa delle misere condizioni affluisce in massa nella città, provocando un addensamento abnor­me e un contagio ancor piú virulento (vv. 1252-1271); ne consegue l'orrendo spettacolo dei moribondi e dei cadaveri disseminati dappertutto, anche nei luoghi sacri, e lo stravolgimento dei riti funebri tradizionali, fino alla rissa sui roghi, dove ciascuno vuole bruciare i propri morti (vv. 1272-1286).
 

Non pochi sono gli elementi di originalità di Lucrezio rispetto al rac­conto tucidideo: in primo luogo l'accentuazione degli aspetti orridi e patetici, ottenuta grazie al violento espressionismo dei ritratti, dei gesti, dei movimenti (nonché a un linguaggio e a uno stile che si fanno piú aspri, densi di dure allitterazioni, di iperbati, di effetti fonici e locuzioni "forti"); in secondo luogo, la maggiore attenzione ai risvolti psicologici: la paura, l'angoscia, la pietà, il calcolo egoistico. A poco a poco, la narrazione fa intravedere il suo vero oggetto: il dibattersi e incattivirsi degli uomini infelici, la dimensione universale del dolore. La morte non è nulla per noi, ha insegnato Epicuro, e Lucrezio nel suo poema non ha cessato di ripeterlo; pure, il trapasso verso la morte può avvenire in modi orrendi, e la pestilenza ne è l'esem­pio inoppugnabile e spaventoso. Di fronte a questa inarrestabile degradazione fisica, psichica e morale che colpisce un'intera comunità (fatta salva la rara eccellenza dei magnanimi che in tanta catastrofe si dedicano a curare gli altri), niente può nemmeno la scienza: la medicina deve confessarsi impotente, e «balbettare ammutolita dallo sgomento». Nel finale del De rerum natura il tema dell'angoscia, vero Leitmotiv sotteso a tutta l'opera, emerge prepotentemente in un «crescendo» drammatico e ossessivo; la fiducia epicurea nel raggiungimento della serenità vacilla: ma forse Epicuro aveva insegnato l'otti­mismo e aveva nascosto la dimensione tragica dell'esistenza?

 
Dal punto di vista dottrinario, l’episodio ha la funzione di comprovare che l’epidemia è un fenomeno squisitamente naturale, contro il quale a nulla valgono le pratiche della religio, cosí come in nulla entrano gli dèi nella sua origine: il che contrasta con la diffusa credenza popolare, riprodotta per esempio nel libro I dell’Iliade, dove l’indovino Calcante – quello stesso che aveva consigliato il nefando sacrificio di Ifigenia – se ne serve per spiegare la pestilenza che infuria tra i Greci davanti a Troia. Inoltre l’estrema e generale afflizione causata dal morbo è una efficace metafora della condizione umana non ancora illuminata dalla predicazione epicurea. Nemmeno ora dobbiamo illuderci – sembra voler dire il poeta – che il cammino verso la saggezza e la felicità sia appianato. La chiusura del poema appare come l'antitesi del gioioso inno di apertura: lí la vittoria momentanea di Venere, forza generatrice e rassere­natrice; qui il trionfo, definitivo, della mors inmortalis (III, v. 869). E anche questo sembra del tutto coerente con il pensiero di Lucrezio.

Dopo Tucidide e Lucrezio, la narrazione della peste diventa un «pezzo di bravura» per il cimento di poeti e prosatori di tutte le letterature, a cominciare da Virgilio, che chiude il III libro delle Georgiche con la «peste del bestiame» nel Norico, seguito da Ovidio, che esercita il suo talento verseggiando la peste di Egina nel libro VII delle Metamorfosi. Per la letteratura medievale e moderna, basti pensare a Boccaccio e a Manzoni.
 
Pasquale Martino

da: Lucrezio, Antologia di passi tratti dal De rerum natura, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007

domenica 24 novembre 2013

Storia e memoria

Se la memoria diventa monumento
bisogna scavare le radici



Memoria e ricerca storica interagiscono; a volte, se così si può dire, si rincorrono, e a volte divergono. La memoria collettiva si costruisce nel tempo come fattore di coesione di comunità civiche, sociali, nazionali; è un insieme di memorie individuali ma anche una complessa sintesi che seleziona gli elementi fondativi di un racconto corale, di una vicenda di oppressione e di riscatto. Raramente è un patrimonio condiviso, poiché coesiste con memorie “altre”, addirittura confliggenti; si pensi alla compresenza, nella generazione degli anni ’70, di narrazioni del tutto distanti (se ne è avuta una riprova nelle discussioni sollevate dai funerali del brigatista Gallinari). Per questo la storiografia è indispensabile: perché tenta di definire i termini entro i quali il ricordo e il racconto hanno un fondamento attendibile, non sottostanno all’arbitrio di una parzialità. Peraltro, il sapere storico è esso stesso materia di controversia, essendo improntato a punti di vista comunque soggettivi; i quali tuttavia, se ispirati a un metodo serio, devono pur confrontarsi e dare risposte documentate ai punti di vista difformi.

Tutto ciò rischia di complicarsi quando la memoria diventa istituzione; perché tende a irrigidirsi in uno standard, a ripetersi, addirittura a saturarsi. È necessario, certo, che la memoria collettiva venga istituzionalizzata, in un certo senso consacrata, affinché il monumentum sia in pari tempo testimonianza e pubblica ammonizione: ma è proprio allora che la ricerca storica deve giocare al rilancio, per aprire le piste che si dipanano inesplorate; anche se l’esito del cammino introdurrà sensibili varianti nella narrazione originaria. L’istituzionalizzazione, inoltre, comporta quello che è stato chiamato l’«uso pubblico della storia», e dunque l’intreccio inevitabile fra memoria e politica. Per fare un esempio significativo, a lungo la storiografia della Resistenza ha coinciso con la tradizione della memoria antifascista in una rappresentazione sostanzialmente compatta; poi i cambiamenti prodottisi con la fine della guerra fredda hanno frastagliato il racconto; ma non necessariamente in senso “revisionistico”. Una categoria ostica come quella di «guerra civile» è entrata nella storiografia antifascista ma – al netto di una scaltra pubblicistica dedita a deprecare la violenza dei partigiani – ha consentito di sviluppare percorsi conoscitivi intorno alla «moralità della Resistenza» (è il sottotitolo del saggio più noto di Claudio Pavone) indagando inoltre criticamente anche l’“altra memoria”, quella di chi combatté dalla parte opposta. Per converso la Shoah, che fino a un certo punto era stata trattata come un tragico capitolo all’interno della grande epopea internazionale antinazista, ha via via assunto una dimensione autonoma, dispiegando nella rievocazione e nella celebrazione il suo valore prevalente di unicità storica.
È stato giusto fissare la rappresentazione della Shoah, in un certo senso assicurandola, nella giornata del 27 gennaio. Ma poi, la ricerca ha incominciato a scandagliare in profondità la fase storica che ha precorso la «soluzione finale»: in Italia, l’applicazione delle leggi razziali del 1938, il cui ricordo era rimasto a lungo schiacciato dall’enormità dell’Olocausto, apparendo quasi secondario. Parallelamente, la storiografia sta facendo emergere le responsabilità italiane non soltanto nei raccapriccianti eccidi coloniali, ma anche in quelli della seconda guerra mondiale e nella stessa persecuzione degli ebrei; sta destrutturando lo stereotipo «cattivo tedesco, bravo italiano» (è il titolo di un libro di Francesco Focardi appena uscito): un’operazione di verità, doverosa per ripensare l’autobiografia di una nazione che molto spesso è stata incline ad assolversi.


Pola durante l'esodo istriano
Il che ci conduce a un altro «giorno del ricordo»: il 10 febbraio, istituito poco tempo dopo la giornata del 27 gennaio. Per essere portatrice di una catarsi autentica, la rappresentazione delle sofferenze subite dagli italiani vittime delle foibe e dell’esodo non dovrebbe oscurare il contesto della ventennale oppressione fascista ai danni del popolo sloveno, culminata in atroci crimini di guerra. Il paradosso è che in questo caso una commissione storica paritetica italo-slovena ha prodotto nel 2000 un’ampia relazione, soffermandosi sulle responsabilità delle due parti: una rara operazione di anamnesi condivisa, che offre un’importante cornice per la ricerca storiografica, ma che le celebrazioni ufficiali sembrano tenere in poco conto. È il rischio che si corre quando la consacrazione della memoria resta impigliata fra gli steccati dell’opportunità politica contingente, soggiacendo alla tentazione di usare una memoria contro l’altra, per un impossibile bilanciamento delle colpe.

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 9 febbraio 2013

Momigliano

«Sopravvissi grazie a Dante e a Tasso»

Attilio Momigliano, il grande critico ebreo espulso dall’università.
Non riebbe mai la cattedra


È un bene che la memoria della persecuzione razziale in Italia si rinnovi seguendo i percorsi delle storie di vita, ricostruendo biografie individuali e collettive. È il caso, per esempio, della vicenda del grande critico letterario Attilio Momigliano: uno dei nomi più noti – starei per dire “popolari” – fra gli studenti almeno fino alla metà degli anni ’60, grazie specialmente ai suoi commenti dei classici italiani.
Eppure erano pochi a conoscerne la storia di perseguitato.  

Momigliano era nato nel 1883 da un ramo di un’antica famiglia ebrea radicata nella provincia di Cuneo. Appassionato di letteratura, s’era formato nell’università di Torino alla scuola del metodo storico; lo studio dell’estetica di Benedetto Croce, che fu per lui il contraltare dell’erudizione positivista, non ne fece uno scolaro del filosofo abruzzese nonostante l’etichetta «crociana» che gli venne affibbiata soprattutto dalla critica storicista del secondo dopoguerra. In realtà Momigliano restava fedele a un proprio singolare metodo, che si potrebbe definire psicologico-biografico: immedesimandosi in qualche modo nell’autore da lui studiato, ne riviveva il processo creativo, quasi “riscrivendone” l’opera attraverso la sua esegesi; «la critica – affermava – è, non dico una gara con la poesia, ma un tentativo di rifarla da un altro punto di vista». Non a caso la sua produzione davvero ineguagliata è quella vastissima dei commenti scolastici, in cui l’analisi si esplica in una  funzione “di servizio” ai testi, svolta con finezza ammirevole: un’attitudine e un acume interpretativi che, prima del passaggio alla docenza universitaria, s’erano forgiati durante quasi tre lustri di insegnamento nelle scuole superiori (1906-1920).

Lo studioso piemontese aderì nel 1925 al manifesto antifascista di Croce, senza per questo diventare un intellettuale “militante” come non lo erano molti firmatari. Negli anni del consenso al fascismo trionfatore non pochi di essi dovettero adattarsi a un modus vivendi; e quando poi, nel 1931, milleduecento docenti universitari – Momigliano fra questi – vennero obbligati a prestare giuramento di fedeltà, solo una dozzina di loro si rifiutò rinunciando al posto. Ma nel 1938 i docenti ebrei furono colpiti dalle leggi razziali; Momigliano – di cui proprio in quell’anno Laterza stampava gli illuminanti Studi di poesia– venne espulso dalla sua cattedra universitaria a Firenze, che fu immediatamente, e senza concorso, occupata da un altro; questi lo soppiantò inoltre come critico del Corriere della Sera. Per avere un’idea del “clima”, basti pensare che il direttore di un’importante casa editrice ebbe a compiacersi per gli spazi di mercato improvvisamente aperti dalla soppressione dei libri di testo scolastici di autore ebreo. Ma va ricordato a loro merito che né Massimo Bontempelli né Luigi Russo accettarono di prendere il posto di Momigliano.

All’età di 55 anni il grande critico – che aveva avuto fra i suoi allievi Walter Binni, Aldo Capitini e Franco Fortini – si adatta a vivere pubblicando articoli sotto falso nome. Per un quinquennio sperimenta qualcosa di simile alla condizione esule del suo amato Dante, del quale così scrive in un famoso saggio: «L’esilio gli ha tolto una patria, ma non gliene ha data un’altra […] sua patria è il mondo, una patria troppo vasta per consolare il cuore». Si arriva all’8 settembre 1943: con la moglie Haydée Sacerdoti, Momigliano sfugge alla caccia all’uomo scatenata da tedeschi e repubblichini, nascondendosi per mesi in una stanza d’ospedale a Borgo San Sepolcro. Qui lavora al suo commento a Torquato Tasso, che pubblicherà subito dopo la Liberazione, nel 1945, scrivendo nella premessa: «Devo al Tasso e a Dante le due o tre ore di assenza che la sorte mi concedeva quasi ogni giorno. Nel pomeriggio, mentre mia moglie si assopiva dopo gli assidui terrori del giorno e della notte, io dimenticavo che ad ogni minuto un calcio improvviso poteva spalancare la mia porta, e mi sprofondavo a poco a poco nel mondo lontano della poesia. Devo dire che, se per questa io sono sempre vissuto, per questa soltanto sono sopravvissuto».

C’è un epilogo poco consolatorio. Nel 1946 Momigliano, avviandosi all’ultima stagione di una feconda attività critica (che durerà fino alla morte avvenuta nel 1952), fu reintegrato nell’insegnamento universitario; non però nella sua antica cattedra – su cui venne confermato chi era stato messo al suo posto dal fascismo – bensì in qualità di «professore soprannumerario», cioè in uno status ben diverso da quello cui aveva diritto. Fu uno dei molti episodi della giustizia negata e della mancata epurazione: si gettavano le basi per l’oblio, per la rimozione di un passato troppo scomodo.

Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno», 30 gennaio 2013

sabato 23 novembre 2013

Catullo


 

Il viaggio di Berenice nella letteratura

Berenice II, Gipsoteca di Monaco
Ciò che rende famosa La Chioma di Berenice è in primo luogo la storia singolare di questo testo che, nato nel III secolo a.C. da un’invenzione di Callimaco – del quale però si è quasi del tutto perso l’originale greco – viene travasato due secoli dopo in un diverso contenitore linguistico, la versione  latina di Catullo, che gli consente di percorrere una tradizione di quasi due millenni, dopodiché rivive in una lingua moderna grazie alla bella traduzione di Ugo Foscolo.
L’idea nasce in ambiente alessandrino, assecondando parecchi caratteri tipici della poesia ellenistica e specialmente della poetica callimachea: in particolare il gusto per una poesia dotta, scientifica, «eziologica» (che spiega le origini di un mito raro o di un nome geografico, indagando l’àition o «causa»). Callimaco, letterato della corte di Alessandria, intende comporre un poema di chiara finalità encomiastica in onore della regina Berenice II, già principessa di Cirene, la quale, sposando nel 246 a.C. il re Tolomeo III Evergete, ha posto fine ai dissidi fra i due paesi e ha portato la propria terra in dote all’Egitto; un poema che, dunque, in pari tempo celebri la fusione fra Egitto e Cirenaica (patria di Callimaco oltre che di Berenice) ed esalti il ruolo che i Cirenei svolgono nel grande regno ellenistico. Inserito da Callimaco alla fine dei suoi IV libri di Àitia in distici elegiaci, il poemetto si propone di spiegare, appunto, la «causa» per la quale una costellazione celeste ha preso il nome di Chioma di Berenice.
Johannes Hevelius, Uranographia, 1690 
L’aneddoto, raccontato anche da Igino (De astronomia II, 4), è il seguente. Subito dopo aver sposato Berenice, Tolomeo Evergete parte per una guerra contro Seleuco II di Siria: in questa occasione la regina fa voto di tagliarsi i capelli se lo sposo tornerà vincitore. Al verificarsi dell’evento auspicato, la ciocca (o treccia) di capelli viene consacrata e collocata nel tempio di Venere Arsinoe Zefiritide; ma il giorno seguente scompare misteriosamente. Il re è molto contrariato da tale circostanza, ma a questo punto interviene opportunamente lo scienziato e astronomo Conone di Samo, il quale rivela che la chioma è stata assunta fra gli astri: e indica un gruppo di stelle collocate in coda al Leone, fino a quel momento rimaste senza nome. Da allora gli astronomi identificano una nuova costellazione, appunto la Chioma di Berenice: è l’operazione che i Greci chiamavano katasterismós, «collocazione fra le stelle».
L’originale greco del componimento callimacheo, in distici elegiaci, ci è pervenuto in pochi frammenti, uno dei quali, il piú cospicuo, rinvenuto su un papiro (Aitia, IV, fragm. 110 Pfeiffer). Sicché la versione catulliana costituisce una preziosa fonte per ricostruire il poemetto alessandrino e, là dove è possibile, confrontare la versione latina col testo greco frammentario, per apprezzare la qualità di Catullo come traduttore. A quanto dice lo stesso poeta latino (carme 65), la traduzione dell’elegia callimachea risponde a una sollecitazione di un amico, che per lo più viene identificato  con il celebre oratore Q. Ortensio Ortalo; questi, poeta egli stesso, ha chiesto in dono dei versi a Catullo; il giovane veronese riferisce a Ortensio che il suo stato d’animo è ora pervaso da una tristezza infinita a causa della morte del fratello. Ciononostante Catullo, se anche non riesce a comporre propri versi, manda all’amico la traduzione del poemetto di Callimaco. Tutto ciò è raccontato in una elegia di 12 distici (carme 65), raccolta nel liber catulliano subito prima della Chioma di Berenice, della quale costituisce la dedica indirizzata per l’appunto a Ortensio Ortalo.
Nel preteso carattere occasionale che Catullo dà alla pubblicazione (e forse anche alla composizione) del carmen doctum, come se non si trattasse di uno sforzo letterario notevolissimo, è da vedere il consueto atteggiamento, per cosí dire, “minimalista” del poeta novus che connota la propria fatica poetica come un’attività di natura privata e di ambito limitato, un contributo di affetto fra amici. Per altri versi la dedica a Ortensio non sembra affatto occasionale: infatti proprio l’oratore-poeta rappresentava, in seno alla poesia dotta romana, un indirizzo sostanzialmente anticallimacheo, tollerante nei confronti dei vasti componimenti epico-storici che Callimaco aborriva. La composizione e la dedica della Chioma di Berenice appaiono pertanto conseguenze di una consapevole valutazione militante, di battaglia letteraria.
Certo la trattazione dell’argomento astronomico è di per sé in linea con la vocazione dotta della poesia ellenistica: già Arato, contemporaneo di Callimaco, aveva pubblicato un poemetto scientifico che dava ampio spazio all’astronomia, i Fenomeni, molto lodato dallo stesso Callimaco (epigramma 27) e – proprio nell’età di Catullo – tradotto a Roma da Cicerone e imitato dal poeta novus Varrone Atacino; in età augustea, Manilio comporrà il poema Astronomica. Ma il tratto piú squisitamente callimacheo e neoterico della Chioma di Berenice è nella levitas ed eleganza che assortisce leggiadramente la dottrina astronomica, il mito, l’attualità e infine l’intensità dell’eros temperata dal pudore coniugale: temi questi ultimi molto cari a Catullo, insieme con la simpatia per le minuscole entità (qui la ciocca o il ricciolo di capelli femminei) sulle quali si proiettano la venustà e la gentilezza della donna.
Dopo aver contribuito alla fortuna di Catullo specialmente dall’Umanesimo in poi, La Chioma di Berenice ispira nel 1803 la traduzione in endecasillabi sciolti di Ugo Foscolo: un esercizio letterario raffinatissimo, che consente al poeta delle Odi e nei Sonetti (contemporanei alla Chioma) di sperimentare la rivisitazione e l’attualizzazione neoclassica del mito antico, da cui scaturiranno i frutti maturi e gli esiti complessi dei Sepolcri e delle Grazie, nuovi carmina docta in endecasillabi sciolti. E fra le numerose traduzioni poetiche che sono venute in seguito, non va taciuta quella delicata di un altro poeta, Salvatore Quasimodo, cui la lirica antica – nella sua duplice dimensione, di esperienza emotiva e di ricca elaborazione culturale – ha suggerito originali forme di rilettura novecentesca, quasi di «poesia pura» e di «frammento» mitologico.

Pasquale Martino
da: Catullo, Antologia di passi tratti dal Liber, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007

Che cos'è l'antifascismo

Ecco perché non possiamo non dirci
antifascisti

Noi, per la Costituzione e contro il fascismo che non è mai finito

 


I tentativi più o meno recenti di rifondare su basi nuove la nostra repubblica – anche quando erano sinceri e meno compromessi con scopi di politica contingente – si sono sempre scontrati con l’impossibilità di definire un quadro di valori condivisi altrettanto forti e profondi quanto quelli che hanno presieduto alla nascita dell’Italia repubblicana nel 1945-46. In altri termini, non sono mai riusciti nonostante tutto a soppiantare nella coscienza civile il riferimento all’antifascismo, patrimonio ideale e religione laica che è a fondamento del patto costituzionale. Erra decisamente chi crede che l’antifascismo si caratterizzi solo in negativo, come un “anti qualcosa”, e poiché questo qualcosa – il fascismo – non esiste più (un presupposto peraltro falso), anche l’antifascismo sarebbe da riporre fra i vecchi arnesi che non hanno ormai ragion d’essere. In verità l’antifascismo, ben lungi dal rappresentare soltanto un episodio di opposizione politica, è stato una grande rivoluzione storica e un processo costituente che dura nel tempo: quel cammino tormentato che – attraverso la drammatica svolta della Resistenza – ha condotto gli italiani a dotarsi di una legge fondamentale, scritta da un’assemblea costituente che era mancata al Risorgimento. L’antifascismo di oggi è la prosecuzione consapevole e attiva di quel patto e il suo tramandarsi alle nuove generazioni. Esso significa operare ininterrottamente per l’attuazione pratica dell’utopia costituzionale: il disegno di pacifica convivenza, di libertà di pensiero, di diritti del lavoro e della cittadinanza, di uno Stato che non sia punitivo o neutrale rispetto ai più deboli, che intervenga per rimuovere gli impedimenti all’esercizio dei diritti. Questo disegno di democrazia in movimento non può vivere senza memoria: non può dimenticare nemmeno per un istante le infamie della dittatura e della guerra, delle leggi razziali e della persecuzione, delle stragi e dei crimini contro l’umanità. Tutto ciò che è avvenuto potrebbe avvenire ancora (ammoniva Primo Levi): e di fatto avviene in parte, e se non ricompare in forma così atroce e vasta come nel passato è solo perché (e fin quando) gli anticorpi dell’antifascismo restano vivi nella società. Le subculture del fascismo non sono scomparse: la miscela di intolleranza, razzismo, xenofobia, antisemitismo, omofobia, mitologie della violenza e della morte (cui si sono aggiunti l’islamofobia, il negazionismo e altro ancora) è una sopravvivenza nient’affatto innocua, sottesa a molteplici forme di azione, talvolta violente, sempre minacciose. Essa è capace di produrre improvvise esplosioni di sconvolgente efferatezza, come in Norvegia; oppure di alimentare le ventate populiste e nazionaliste che spazzano l’Europa inveendo contro presunti complotti internazionali di poteri oscuri, strumentalizzando il disagio sociale e protestando contro “destra e sinistra”; o infine di supportare le avanzate elettorali di una demagogia di estrema destra che per esempio porta al governo dell’Ungheria una inquietante maggioranza apertamente autoritaria e razzista. Vicende prossime a noi, e vicende anche italiane. La fenomenologia dei gruppi neofascisti – come quelli di cui si parla nel dossier dell’Anpi Ombre nere* – è solo la punta dell’iceberg, dove la celebrazione del culto mussoliniano rivive in simbiosi col fascismo “sociale” di Salò appena dissimulato. Ancor più grave sarebbe se, come è accaduto in passato, da alcune parti politiche si lisciasse il pelo al fenomeno, forse per la mai morta convinzione che possa tornare utile ad accrescere i consensi o a compiere operazioni ancor più spregiudicate. 

Pasquale Martino
pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 18 gennaio 2013
* Il dossier Ombre nere sulle attività neofasciste in Puglia è stato presentato durante una manifestazione dell'Anpi a Bari, il 18.1.2013, alla presenza del presidente nazionale Carlo Smuraglia.