La peste di Atene
De rerum natura VI,
1138-1286![]() |
Lucrezio, busto del Pincio |
L'episodio della peste di Atene, forse il piú celebre del De rerum natura, chiude con un
esplicito gioco di simmetrie e antitesi l'ultimo libro che è stato aperto
dall'elogio di Atene e, con esso, l'intero poema. Non è forse senza
significato, peraltro, che nel proemio laudativo la capitale dell’Attica sia
evocata enfaticamente per nome (praeclaro
nomine Athenae: v. 2), mentre nella luttuosa chiusura venga
identificata mediante perifrasi (la città di Cecrope e Pandione: vv. 1139 e 1143). Il libro VI affronta l'analisi
scientifica dei fenomeni naturali: fulmini, trombe marine, pioggia e
arcobaleno, terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, magnetismo; per
ultime, le malattie e le epidemie (secondo un ordine consueto nelle antiche
esposizioni di fisica). Che il possente affresco della peste di Atene concluda,
in un grandioso finale, il poema della natura appare quindi del tutto
comprensibile e coerente con l'impostazione dell'opera. Non sembra pertanto
fondata la tesi che denuncia la presunta incongruenza di questa conclusione,
ricavandone un indizio di incompiutezza del poema.
La «pestilenza» qui descritta è l'epidemia che si abbatté
sull'Attica nel 430 a.C., in piena guerra del Peloponneso, e a seguito della
quale, nel 429 a.C., morí anche Pericle. La natura del morbo non è stata
accertata: i sintomi riferiti da Tucidide e da Lucrezio non corrispondono a
quelli della peste bubbonica, ma hanno fatto pensare piuttosto al morbillo, al
vaiolo o al tifo. L'esposizione di Tucidide (La guerra del Peloponneso, II, 47-54) è la fonte principale utilizzata
da Lucrezio, che attinge però anche ad alcuni trattati del Corpus Hippocraticum (l'insieme degli scritti di medicina
attribuibili a Ippocrate e ai suoi scolari, V-IV secolo a.C.), specialmente al Prognostico, per rappresentare i sintomi
dello stato agonico. Significativa testimonianza del rigore scientifico con cui
Lucrezio si è documentato è appunto la consultazione dei testi che nel V secolo
fondarono il metodo di indagine indiziaria: Tucidide e Ippocrate sono intenti
a un’analoga analisi dei sintomi che consentono nell’un caso di presagire gli
esiti di un processo storico, nell'altro di diagnosticare la natura di una
malattia e prevedere il suo decorso. Non è da escludere, naturalmente,
l’influenza non documentabile di opere di Epicuro come per esempio quella
attribuitagli da Diogene Laerzio (Vite de filosofi X, 28), intitolata Opinioni sulle malattie.
Dopo aver accennato all'origine dell'epidemia e al suo arrivo nell'Attica (vv. 1138-1144), il poeta si sofferma dettagliatamente sulla sintomatologia del morbo (vv. 1145-1181) e sugli indizi dell'imminente decesso (vv. 1182-1198); descrive poi la condizione di coloro che sopravvivono al morbo, ma solo per morire in un secondo momento o soltanto grazie all’amputazione delle membra (vv. 1199-1214), gli effetti della pestilenza sugli animali (vv. 1215-1225), l'assenza di rimedi, che introduce la rappresentazione delle disastrose conseguenze psicologiche dell'epidemia (vv. 1226-1234); segue il quadro dei comportamenti ispirati a egoismo oppure a umana pietà, tutti ugualmente impotenti a limitare il disastro (vv. 1235-1251). La visuale si allarga alla popolazione del contado, che a causa delle misere condizioni affluisce in massa nella città, provocando un addensamento abnorme e un contagio ancor piú virulento (vv. 1252-1271); ne consegue l'orrendo spettacolo dei moribondi e dei cadaveri disseminati dappertutto, anche nei luoghi sacri, e lo stravolgimento dei riti funebri tradizionali, fino alla rissa sui roghi, dove ciascuno vuole bruciare i propri morti (vv. 1272-1286).
Non pochi sono gli elementi di originalità di Lucrezio rispetto al
racconto tucidideo: in primo luogo l'accentuazione degli aspetti orridi e
patetici, ottenuta grazie al violento espressionismo dei ritratti, dei gesti,
dei movimenti (nonché a un linguaggio e a uno stile che si fanno piú aspri,
densi di dure allitterazioni, di iperbati, di effetti fonici e locuzioni
"forti"); in secondo luogo, la maggiore attenzione ai risvolti psicologici: la
paura, l'angoscia, la pietà, il calcolo egoistico. A poco a poco, la narrazione
fa intravedere il suo vero oggetto: il dibattersi e incattivirsi degli uomini
infelici, la dimensione universale del dolore. La morte non è nulla per noi, ha
insegnato Epicuro, e Lucrezio nel suo poema non ha cessato di ripeterlo; pure,
il trapasso verso la morte può avvenire in modi orrendi, e la pestilenza ne è
l'esempio inoppugnabile e spaventoso. Di fronte a questa inarrestabile
degradazione fisica, psichica e morale che colpisce un'intera comunità (fatta
salva la rara eccellenza dei magnanimi che in tanta catastrofe si dedicano a
curare gli altri), niente può nemmeno la scienza: la medicina deve confessarsi
impotente, e «balbettare ammutolita dallo sgomento». Nel finale del De rerum natura il tema dell'angoscia,
vero Leitmotiv sotteso a tutta l'opera,
emerge prepotentemente in un «crescendo» drammatico e ossessivo; la fiducia
epicurea nel raggiungimento della serenità vacilla: ma forse Epicuro aveva
insegnato l'ottimismo e aveva nascosto la dimensione tragica dell'esistenza?
Dal punto di vista dottrinario, l’episodio ha la funzione di
comprovare che l’epidemia è un fenomeno squisitamente naturale, contro il quale
a nulla valgono le pratiche della religio,
cosí come in nulla entrano gli dèi nella sua origine: il che contrasta con la
diffusa credenza popolare, riprodotta per esempio nel libro I dell’Iliade, dove l’indovino Calcante –
quello stesso che aveva consigliato il nefando sacrificio di Ifigenia – se ne
serve per spiegare la pestilenza che infuria tra i Greci davanti a Troia.
Inoltre l’estrema e generale afflizione causata dal morbo è una efficace
metafora della condizione umana non ancora illuminata dalla predicazione
epicurea. Nemmeno ora dobbiamo illuderci – sembra voler dire il poeta – che il
cammino verso la saggezza e la felicità sia appianato. La chiusura del poema
appare come l'antitesi del gioioso inno di apertura: lí la vittoria
momentanea di Venere, forza generatrice e rasserenatrice; qui il trionfo,
definitivo, della mors inmortalis
(III, v. 869). E anche questo sembra del tutto coerente con il pensiero
di Lucrezio.
Dopo Tucidide e Lucrezio, la narrazione della peste diventa un
«pezzo di bravura» per il cimento di poeti e prosatori di tutte le letterature,
a cominciare da Virgilio, che chiude il III libro delle Georgiche con la «peste del bestiame» nel Norico, seguito da
Ovidio, che esercita il suo talento verseggiando la peste di Egina nel libro
VII delle Metamorfosi. Per la letteratura
medievale e moderna, basti pensare a Boccaccio e a Manzoni.
da: Lucrezio, Antologia di passi tratti dal De rerum natura, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007