lunedì 25 novembre 2013

Lucrezio


La peste di Atene
De rerum natura VI, 1138-1286

 

Lucrezio, busto del Pincio
L'episodio della peste di Atene, forse il piú celebre del De rerum natura, chiude con un esplicito gioco di simmetrie e antitesi l'ultimo libro che è stato aperto dall'elogio di Atene e, con esso, l'intero poema. Non è forse senza significato, peraltro, che nel proemio laudativo la capitale dell’Attica sia evocata enfaticamente per nome (praeclaro nomine Athenae: v. 2), mentre nella luttuosa chiusura venga identificata mediante perifrasi (la città di Cecrope e Pandione: vv.  1139 e 1143). Il libro VI affronta l'analisi scientifica dei fenomeni naturali: fulmini, trombe marine, pioggia e arcobaleno, terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, magnetismo; per ultime, le malattie e le epidemie (secondo un ordine consueto nelle antiche esposizioni di fisica). Che il possente affresco della peste di Atene concluda, in un grandioso finale, il poema della natura appare quindi del tutto comprensibile e coerente con l'impostazione dell'opera. Non sembra pertanto fondata la tesi che denuncia la presunta incongruenza di questa conclusione, ricavandone un indizio di incompiutezza del poema.  

La «pestilenza» qui descritta è l'epidemia che si abbatté sull'Attica nel 430 a.C., in piena guerra del Peloponneso, e a seguito della quale, nel 429 a.C., morí anche Pericle. La natura del morbo non è stata accertata: i sintomi riferiti da Tucidide e da Lucrezio non corrispondono a quelli della peste bubbonica, ma hanno fatto pensare piuttosto al morbillo, al vaiolo o al tifo. L'esposizione di Tucidide (La guerra del Peloponneso, II, 47-54) è la fonte principale utilizzata da Lucrezio, che attinge però anche ad alcuni trattati del Corpus Hippocraticum (l'insieme degli scritti di medicina attribuibili a Ippocrate e ai suoi scolari, V-IV secolo a.C.), specialmente al Prognostico, per rappresentare i sintomi dello stato agonico. Significativa testimonianza del rigore scientifico con cui Lucrezio si è documentato è appunto la consultazione dei testi che nel V secolo fondarono il metodo di indagine indiziaria: Tucidide e Ippocrate sono intenti a un’analoga analisi dei sintomi che consentono nell’un caso di presagire gli esiti di un processo storico, nell'altro di diagnosticare la natura di una malattia e prevedere il suo decorso. Non è da escludere, naturalmente, l’influenza non documentabile di opere di Epicuro come per esempio quella attribuitagli da  Diogene Laerzio (Vite de filosofi X, 28), intitolata Opinioni sulle malattie. 


Dopo aver accennato all'origine dell'epidemia e al suo arrivo nell'Attica (vv. 1138-1144), il poeta si sofferma dettagliatamente sulla sintomatologia del morbo (vv. 1145-1181) e sugli indizi dell'imminente decesso (vv. 1182-1198); descrive poi la condizione di coloro che sopravvivono al morbo, ma solo per morire in un secondo momento o soltanto grazie all’amputazione delle membra (vv. 1199-1214), gli effetti della pestilenza sugli animali (vv. 1215-1225), l'assenza di rimedi, che introduce la rappresentazione delle disastrose conseguenze psicologiche dell'epidemia (vv. 1226-1234); segue il quadro dei comportamenti ispirati a egoismo oppure a umana pietà, tutti ugualmente impo­tenti a limitare il disastro (vv. 1235-1251). La visuale si allarga alla popolazione del contado, che a causa delle misere condizioni affluisce in massa nella città, provocando un addensamento abnor­me e un contagio ancor piú virulento (vv. 1252-1271); ne consegue l'orrendo spettacolo dei moribondi e dei cadaveri disseminati dappertutto, anche nei luoghi sacri, e lo stravolgimento dei riti funebri tradizionali, fino alla rissa sui roghi, dove ciascuno vuole bruciare i propri morti (vv. 1272-1286).
 

Non pochi sono gli elementi di originalità di Lucrezio rispetto al rac­conto tucidideo: in primo luogo l'accentuazione degli aspetti orridi e patetici, ottenuta grazie al violento espressionismo dei ritratti, dei gesti, dei movimenti (nonché a un linguaggio e a uno stile che si fanno piú aspri, densi di dure allitterazioni, di iperbati, di effetti fonici e locuzioni "forti"); in secondo luogo, la maggiore attenzione ai risvolti psicologici: la paura, l'angoscia, la pietà, il calcolo egoistico. A poco a poco, la narrazione fa intravedere il suo vero oggetto: il dibattersi e incattivirsi degli uomini infelici, la dimensione universale del dolore. La morte non è nulla per noi, ha insegnato Epicuro, e Lucrezio nel suo poema non ha cessato di ripeterlo; pure, il trapasso verso la morte può avvenire in modi orrendi, e la pestilenza ne è l'esem­pio inoppugnabile e spaventoso. Di fronte a questa inarrestabile degradazione fisica, psichica e morale che colpisce un'intera comunità (fatta salva la rara eccellenza dei magnanimi che in tanta catastrofe si dedicano a curare gli altri), niente può nemmeno la scienza: la medicina deve confessarsi impotente, e «balbettare ammutolita dallo sgomento». Nel finale del De rerum natura il tema dell'angoscia, vero Leitmotiv sotteso a tutta l'opera, emerge prepotentemente in un «crescendo» drammatico e ossessivo; la fiducia epicurea nel raggiungimento della serenità vacilla: ma forse Epicuro aveva insegnato l'otti­mismo e aveva nascosto la dimensione tragica dell'esistenza?

 
Dal punto di vista dottrinario, l’episodio ha la funzione di comprovare che l’epidemia è un fenomeno squisitamente naturale, contro il quale a nulla valgono le pratiche della religio, cosí come in nulla entrano gli dèi nella sua origine: il che contrasta con la diffusa credenza popolare, riprodotta per esempio nel libro I dell’Iliade, dove l’indovino Calcante – quello stesso che aveva consigliato il nefando sacrificio di Ifigenia – se ne serve per spiegare la pestilenza che infuria tra i Greci davanti a Troia. Inoltre l’estrema e generale afflizione causata dal morbo è una efficace metafora della condizione umana non ancora illuminata dalla predicazione epicurea. Nemmeno ora dobbiamo illuderci – sembra voler dire il poeta – che il cammino verso la saggezza e la felicità sia appianato. La chiusura del poema appare come l'antitesi del gioioso inno di apertura: lí la vittoria momentanea di Venere, forza generatrice e rassere­natrice; qui il trionfo, definitivo, della mors inmortalis (III, v. 869). E anche questo sembra del tutto coerente con il pensiero di Lucrezio.

Dopo Tucidide e Lucrezio, la narrazione della peste diventa un «pezzo di bravura» per il cimento di poeti e prosatori di tutte le letterature, a cominciare da Virgilio, che chiude il III libro delle Georgiche con la «peste del bestiame» nel Norico, seguito da Ovidio, che esercita il suo talento verseggiando la peste di Egina nel libro VII delle Metamorfosi. Per la letteratura medievale e moderna, basti pensare a Boccaccio e a Manzoni.
 
Pasquale Martino

da: Lucrezio, Antologia di passi tratti dal De rerum natura, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007