martedì 25 marzo 2014

Neofascismo

Ombre nere in Puglia



Con una sentenza di ammirevole nitidezza, la Cassazione (quinta sezione penale, 10.2.2011) ha respinto l’imputazione di reato diffamatorio a carico di chi aveva definito il gruppo di Forza Nuova non solo «chiaramente fascista», ma anche portatore di «xenofobia, razzismo, violenza e antisemitismo». Infatti, argomenta la Suprema Corte – ed è ciò che intendiamo qui sottolineare – , non soltanto le affermazioni in questione rientrano nel diritto di critica storica e politica, ma, soprattutto, se si tiene fermo il dato storico obiettivo, la qualità di fascista «non può essere depurata dalla qualità di razzista e ritenersi incontaminata dall’accostamento al nazismo». Insomma, chi è e si dichiara fascista non può pretendere di dissociare il proprio credo da tutto ciò che il fascismo, storicamente, ha significato e incarnato: il razzismo, l’antisemitismo, il culto della violenza, la complicità col nazismo e l’intima parentela con esso.
Da questo assunto vogliamo partire, in quanto esso esprime con chiarezza le motivazioni che spingono l’Anpi a contrastare le attività dei gruppi neofascisti, mettendo a disposizione delle istituzioni e del pubblico una più articolata informazione in proposito. L’Anpi non è mossa da accanimento ideologico contro “innocue” manifestazioni del pensiero, ma dal dovere istituzionale di identificare forme di organizzazione e pratiche che, ispirandosi esplicitamente al fascismo, e celebrandone l’apologia, contraddicono lo spirito della Costituzione antifascista e le leggi della Repubblica: in particolare la legge n. 205 25/6/1993 («legge Mancino») che – riprendendo e articolando le leggi n. 645 20/6/1952 e n. 654 6/10/1975 – vieta non solo la propaganda e le azioni di tipo fascista ma altresì la costituzione di organizzazioni e movimenti finalizzati a compiere tali azioni.
Manifestazione di Forza Nuova a Manduria
In questo doveroso adempimento, l’Anpi non intende assumersi l’onere di un’inchiesta né presume di rivelare fatti nuovi – tali sono le competenze di altri soggetti e organi – ma si propone di presentare in maniera ordinata, e divulgare, quelle informazioni che sono reperibili attraverso i mass media, i centri di documentazione e gli stessi siti web neofascisti.
È infatti risultato evidente, negli ultimi anni e negli ultimi mesi, che alcuni gruppi neofascisti, e in particolare CasaPound, hanno potuto operare troppo a lungo in una sorta di zona d’ombra, evitando le sovraesposizioni quando era possibile, coltivando le simpatie e i sostegni in aree politiche da loro ritenute contigue, cercando interlocuzioni anche in schieramenti politici distanti. Soltanto alcuni gravi episodi di violenza, di eco nazionale, hanno contribuito a strappare il velo di opacità attorno a CasaPound: si pensi – a titolo puramente esemplificativo – all’aggressione subita da alcuni militanti del Pd a Roma, nel 2011, per la quale è stato incriminato e arrestato un dirigente del raggruppamento neofascista (il che ha indotto un leader nazionale dello stesso gruppo a esultare scompostamente su Facebook per la morte del magistrato che aveva disposto il provvedimento giudiziario); e soprattutto all’eccidio dei senegalesi a Firenze, alla fine dello stesso anno, commesso da un militante da cui invano CasaPound ha tentato di prendere le distanze a posteriori. A tale misfatto si è aggiunta in seguito la sceneggiata del console italiano di Osaka – vergognosa sul piano politico-istituzionale e simbolico – che si è esibito in una manifestazione musicale fascista collegata a CasaPound. E ancora, la dinamica dei fatti di violenza avvenuti il 22 marzo 2012 a Roma, nel quartiere di Casal Bertona – cui la cittadinanza ha risposto con una manifestazione antifascista chiedendo la chiusura delle sede neofascista – indica un’attiva responsabilità di CasaPound nell’alimentare un clima di scontro e negli effetti violenti che non di rado ne conseguono.
A questi episodi si sono aggiunti, nella nostra regione, l’arresto di quattro esponenti di CasaPound a Lecce per aggressione, e, a Parma, l’assalto a un circolo Arci da parte di componenti della stessa formazione. Tutto ciò ha incominciato a stimolare una presa di coscienza – che va incoraggiata e approfondita – riguardo alle modalità d’azione “ordinarie” del gruppo neofascista. Tale raggruppamento ha la pretesa di custodire nel proprio statuto e nella propria vita interna un’espressa identità fascista (riferita proprio al fascismo del ventennio e della repubblica di Salò, «mussoliniano, gentiliano, pavoliniano»), e nel contempo di edulcorare tale identità nelle relazioni pubbliche, parlando di superamento della destra e della sinistra storiche, di «fascismo del terzo millennio» che sarebbe qualcosa di nuovo, di estraneo alla violenza, al razzismo e alla xenofobia.
Volantino neofascista in Puglia
Qui sarà appena il caso di ricordare che il fascismo si presenta storicamente, fin dalle origini, come movimento «terzaforzista», «né capitalista né socialista», e che tale collocazione è stata riproposta negli anni ‘70 da Terza Posizione, gruppo cui appartennero alcuni numi tutelari della futura CasaPound (nata a sua volta all’inizio degli anni 2000). L’“edulcorazione” dei neofascisti odierni è funzionale a favorire i rapporti con le istituzioni e con il mondo della scuola, con l’obiettivo di consolidare e in qualche modo legittimare la presenza del gruppo nel territorio. Ma a tale proposito, in effetti, la tattica si riduce spesso al tentativo furbesco di vera e propria dissimulazione: l’identità del gruppo viene rimossa e sostituita con altre sigle nelle richieste formali di patrocinio, di concessione di sedi, di interventi per la messa in opera di una manifestazione, per poi ricomparire all’improvviso soltanto nei materiali cartacei e online che propagandano l’iniziativa in questione. In Puglia questo trucco ha funzionato più volte, sfruttando la buona fede o la disattenzione altrui. Il colmo dell’improntitudine è stato raggiunto quando a Bari esponenti di CasaPound, all’indomani dei tragici fatti di Firenze, hanno tentato – per fortuna vanamente – di farsi schermo delle comunità di immigrati senegalesi coinvolgendola in una propria conferenza stampa.
Nessuno vorrà poi negare la pericolosità della tattica di infiltrazione che gruppi come CasaPound e Forza Nuova attuano all’interno di lotte sociali e movimenti di protesta, anche in questo caso oscurando per lo più la propria identità. Come nel cosiddetto «movimento dei Forconi» in Puglia (e non solo), il ritornello è in questi casi la dichiarazione di apoliticità, l’appello «contro tutti i partiti», l’essere «né di destra né di sinistra». Ovviamente altra cosa è la ricerca di una partecipazione marginale in un vasto movimento di massa, di natura pluralistica – all’interno del quale, se mai, il rischio è che il neofascismo svolga il ruolo di fautore di episodi di degenerazione violenta (come nella manifestazione studentesca in piazza Navona a Roma nel 2008) –; cosa ben diversa è la presenza in posizione dirigenziale, promotrice e organizzatrice, rispetto a movimenti specifici come quello sopra ricordato, in Puglia, in Sicilia e altrove: presenza tanto più pericolosa in quanto mimetizzata sotto l’aspetto di un generico qualunquismo antisistema.
In conclusione, questo dossier sulle recenti attività di CasaPound e di altre formazioni neofasciste in Puglia vuol essere un promemoria – molto parziale e senza nessuna ambizione di compiutezza – ad uso delle istituzioni, delle forze politiche costituzionali, dei sindacati, dei movimenti, dell’associazionismo democratico: Esso è finalizzato alla conoscenza di un fenomeno che, oltre a porsi sul terreno incostituzionale dell’apologia di fascismo, ha dimostrato più volte (a Roma, Firenze, Lecce, Parma ecc., e anche in Puglia) di sconfinare nella violenza politica, verso la quale – nella migliore delle ipotesi – il suo pensiero e la sua pratica non rappresentano certamente un argine, ma un terreno pericolosamente inclinato.

Introduzione a: Ombre nere. Il punto sul neofascismo in Puglia, a cura dell'ANPI Puglia

(il documento è stato presentato nel corso di una manifestazione dell'ANPI il 15 gennaio 2013 presso l'aula consiliare del Comune di Bari, con la partecipazione del presidente nazionale Carlo Smuraglia)

martedì 18 marzo 2014

Cremuzio Cordo

I libri colpevoli
Tacito, Annales IV, 34-35
Cremutius Cordus

J. W. Godward, Bellezza classica
Alla metà del principato di Tiberio (14-37 d.C.), nel 25, si colloca l’emblematica vicenda di Aulo Cremuzio Cordo: il processo per lesa maestà, il suicidio dell’imputato che previene la condanna, il rogo dei libri di storia da lui scritti; una tragedia che sarà solo in parte alleviata dalla riabilitazione e ripubblicazione postuma dell’opera. Piuttosto che soffermarsi in modo ampio sulla vicenda, i cui particolari possiamo comunque arricchire grazie ad altre fonti, Tacito decide di far precedere il racconto da un solenne proemio interno (capitoli 32-33) in cui s’interroga sul significato della storiografia quando l’argomento di studio è un’epoca di tirannide (non a caso, anche Cremuzio Cordo era uno scrittore di storia), e sceglie poi di incentrare il racconto stesso quasi soltanto sulla oratio recta che riproduce il discorso di Cordo davanti ai senatori.
L’orazione esordisce col rilevare come l’accusa non concerna un atto criminale, ma le parole di un libro. Un reato d’opinione, si direbbe oggi: precisamente, le lodi tributate a Bruto e Cassio, campioni della libertas repubblicana in nome della quale uccisero Cesare. Il discorso prosegue considerando come in un recente passato sia stato consentito ad altri scrittori e storici, Livio e Pollione, Cicerone e Messalla Corvino, di esprimere aperta simpatia per gli avversari del principato – Pompeo, Bruto, Cassio, Catone e altri – o di criticare gli iniziatori del nuovo regime, Cesare e Augusto (come fecero poeti quali Catullo e Bibaculo) senza subire ritorsioni da parte di quegli uomini potentissimi. E ciò non soltanto per spirito di tolleranza, ma anche e soprattutto per intelligenza politica: reprimere il dissenso, infatti – osserva Tacito per bocca di Cremuzio – , ha l’effetto di ingigantirlo, convalidarne le ragioni, legittimarlo con l’aura del martirio.
La considerazione conclusiva del discorso ha lo scopo di difendere in qualche modo le ragioni dell’attività storiografica: questa non può fare a meno dell’indipendenza di giudizio; essa non è assimilabile alla propaganda politica, finalizzata a suscitare contese civili, poiché la materia di cui si occupa è il passato, che lo storico esamina spassionatamente e con sforzo di obiettività (sine ira et studio: Annales I, 1). Qui ben si intravedono l’attualità di tale atteggiamento per lo stesso Tacito – il quale scrive la sua opera storiografica quando le speranze nel nuovo corso del principato adottivo si sono andate decisamente affievolendo – nonché la rivendicazione di una superiore dignità della storiografia senatoria, che non può non valorizzare le testimonianze della libertas dovunque si manifestino, con buona pace dei vertici istituzionali del principato: per quanto indispensabili alla stabilità del sistema, essi non dovrebbero presumere di poter cancellare la memoria degli uomini illustri, che a loro volta si riconoscono nella tradizione repubblicana.


Statua di Tiberio
da Priverno
A determinare il processo di Cremuzio Cordo concorrono l’iniziativa di Seiano, il quale vuole sbarazzarsi in maniera esemplare di chi ostacola la sua ascesa, e la volontà di Tiberio di ridimensionare quella parte dell’aristocrazia senatoria che custodisce con un certo senso di superiorità il retaggio ideale della tradizione repubblicana. Cordo si era lasciato andare a giudizi sprezzanti sul prefetto del pretorio, e a battute sarcastiche sulla sua pretesa di imporre la propria effigie statuaria nel nuovo Teatro di Pompeo appena restaurato: non era questa la rinascita di quell’annoso monumento – aveva commentato il senatore – ma anzi la sua rovina definitiva. Nel 25 d.C. Seiano è in auge, al punto da tentare (per quanto senza successo, data l’opposizione di Tiberio) di perpetuare il proprio potere chiedendo in matrimonio la vedova di Druso Cesare; tuttavia, il prestigio dell’uomo politico non è una motivazione sufficiente a incriminare chi si esprime troppo liberamente nei suoi confronti: la condanna di Cordo sarà infatti sostenuta da ben altra argomentazione.

Il prefetto «dà in regalo» Cordo – secondo l’efficace immagine di Seneca – a due suoi clientes, Satrio Secondo e Pinario Natta, i quali muovono l’accusa contro il senatore (col manifesto sostegno di Seiano) proponendosi, in base alla legge vigente, di incamerare una quota dei suoi beni qualora riescano a ottenerne la condanna a morte.
Il reato ascritto risponde al crimen maiestatis (lesa maestà): una fattispecie penale che da Augusto in poi si estende a chi oltraggia o minaccia l’autorità dello Stato nella persona del principe. Cordo si sarebbe macchiato di tale crimine nella stesura dei suoi annales sull’età delle guerre civili. In quest’opera scritta parecchi anni prima le figure di Cesare e Augusto, gli iniziatori del principato, non erano certo presentate in una luce favorevole (per esempio, Cordo raccontava come Augusto facesse perquisire tutti i senatori prima di ammetterli alla seduta assembleare), ma neppure venivano denigrate; tanto che  – riferisce Cassio Dione – lo stesso Augusto aveva letto a suo tempo quegli annali senza nulla eccepire. La prova del reato è pertanto cercata altrove, e individuata nelle parole di caldo elogio riservate alle figure dei cesaricidi, Bruto e in particolare Cassio (definito da Cordo «l’ultimo dei Romani», cioè dei cittadini liberi, degni di questo nome). La causa dell’incriminazione è dunque un giudizio storico-politico, del quale si rileva la pericolosità per l’ordinamento vigente.
Non è invero la prima volta che ciò accade. Nel 12 d.C., tredici anni prima, vivente Augusto, sono stati condannati al rogo i libri dell’oratore e storico Tito Labieno, di famiglia repubblicana e filopompeiana. Non l’uomo è stato colpito, bensí la sua opera; ma Labieno non ha voluto sopravvivere: chiusosi nel sepolcro, si è lasciato morire. Ora sono invece a rischio di condanna tanto i libri (che infatti verranno bruciati) quanto l’autore. Alla consapevolezza di Cremuzio, il quale comprende che l’odio dell’“uomo forte” del regime gli lascia ben poche speranze, si aggiunge – racconta Tacito – l’ostilità che traspare dal volto di Tiberio, l’unico che potrebbe mitigare la condanna già scritta. Al vecchio senatore non resta che pronunciare il suo ultimo discorso davanti al consesso dei colleghi e all’imperatore in persona: Tacito sicuramente rielabora e in parte inventa – col pensiero ai frangenti politici da lui vissuti (dall’età di Domiziano a quella di Adriano) – ma qualcosa della sostanza di quella orazione deve essersi riversata nella composizione tacitiana. 
Il grande storico latino non descrive la morte di Cremuzio (riserverà narrazioni dettagliate ad altri suicidi, come quelli di Seneca e di Trasea Peto), si limita ad registrarne la notizia: il senatore si uccide per abstinentia, digiunando a oltranza. È proprio Seneca, invece, a raccontare distesamente la vicenda: Cremuzio si chiude in casa, nascondendo il proposito suicida alla figlia Marcia, che altrimenti vi si opporrebbe – ma fino a un certo punto, nobile e forte com’è: infatti ella stessa si rende conto che il padre «non ha altra via per sfuggire alla schiavitú» (illam unam patere servitutis fugam). Quando diventa ormai chiaro e di pubblico dominio che l’imputato sta morendo, sottraendosi cosí al processo e alla condanna, gli accusatori tentano di correre ai ripari, temendo che venga loro contestato il diritto di riscuotere quanto di loro spettanza dei beni di Cremuzio (questa norma odiosa che premiava i delatori era infatti molto criticata, e solo pochi mesi prima Tiberio aveva dovuto porre un freno alla proposta di renderla inapplicabile in caso di morte di un imputato prima della condanna). Come somma ingiuria verso Cremuzio, gli si vorrebbe perfino impedire di suicidarsi, ma per fortuna è ormai troppo tardi. I libri invece vengono per senatoconsulto consegnati agli edili che li gettano nelle fiamme.
Nondimeno, non si può certo rintracciare e distruggere tutte le copie esistenti, per quanto poche esse siano: Marcia ne conserva accuratamente una e qualche altra è in buone mani. L’opera storica di Cremuzio viene riabilitata dopo la morte di Tiberio, nel 37, quando il successore Caligola allenta la morsa repressiva e censoria e consente la circolazione degli scritti di Cremuzio, Labieno e altri (sebbene, a detta di Quintiliano, imponendo l’espunzione dei passi piú contestati).



LE FONTI: Seneca, Consolatio ad Marciam 1 e 22; Quintiliano, Institutio oratoria X, 1, 104; Tacito, Annales IV, 30 e 34-35; Svetonio, Divus Augustus 35 e Caligula 16; Cassio Dione, Storia di Roma LVII, 24. 

Pasquale Martino

Dai materiali online di Pagina nostra. Storia e antologia della letteratura latina, D’Anna casa editrice (imparosulweb.it).