domenica 19 luglio 2015

Cartagine in fiamme


Debiti, trattati, sottomissione: come soffocare un Paese. 
Una lezione antica per la Grecia e l'Europa di oggi


Giambattista Tiepolo, La conquista di Cartagine
La Grecia di Tsipras è stata spinta a una drammatica guerra difensiva:  assediata dall’Europa dei creditori, è stata infine piegata. Ci si è ricordati, per analogia, di episodi noti della storia antica: la battaglia delle Termopili, per esempio, dove un pugno di Spartani rallentò l’armata persiana ma fu sterminato (poi però i Greci vinsero la guerra); e la distruzione di Cartagine, freddamente decisa da Roma e perseguita a passi sempre più stringenti. E questo secondo esempio, in verità, appare più calzante.
Dopo due tragiche guerre, Cartagine era prostrata. Aveva perso il lungo duello con la rivale Roma, che era diventata, vincendo, padrona del Mediterraneo. La fiorente e secolare città situata sulla costa dell’odierna Tunisia pagava regolarmente alla vincitrice le rate ingenti di un esoso debito di guerra; non aveva più un impero, non aveva diritto a una politica estera, era vincolata da un trattato-capestro e tenuta a bada dal cane da guardia dei Romani, il re numida Massinissa.  Ciononostante, a Roma il fantasma punico faceva ancora paura. Quando il debito imposto a Cartagine fu interamente saldato, nel 152 a.C., l’ex creditrice decise che la mucca ormai munta doveva morire. La maggioranza della classe dirigente voleva vedere rasa al suolo la patria di Annibale «che infiniti addusse lutti» ai Romani; il più noto dei liquidatori era Catone il Censore, che, ottuagenario, andò in delegazione a visitare Cartagine e tornò più che mai convinto che la città di Didone costituisse tuttora una minaccia per Roma: bisognava distruggerla. Altri, come Scipione Nasica detto Corculone, dissentivano dall’ex censore non per spirito umanitario, ma perché temevano che, scomparsa la Grande Nemica,  Roma non avrebbe avuto più nessun collante di difesa “nazionale” e – come in effetti avvenne – sarebbe caduta preda delle discordie intestine. I pacifisti però erano in minoranza. Roma dunque aspettava solo il pretesto per dare il via alla soluzione finale della questione punica.  

Quando, esasperati dalle provocazioni di Massinissa, i Cartaginesi risposero a mano armata, scoccarono forse inconsapevolmente la scintilla della terza e ultima guerra punica. Si videro subito dichiarare guerra da Roma. Traditi anche da Utica, l’altra grande città della costa africana, che si arrese ai Romani, decisero di offrire a loro volta la resa. Per prima cosa, i nemici imposero loro di consegnare trecento giovani come ostaggi, e di attendere ulteriori ordini dei consoli. Nonostante la protesta di chi, come Magone, faceva osservare che il primo cedimento avrebbe reso inevitabile il successivo crollo, i Cartaginesi accettarono. I Romani misero le mani sugli ostaggi, dopodiché i consoli emanarono il secondo ordine : consegnare tutte le armi. E fu ancora un amarissimo sì. «Allora apparve evidente – scrive Polibio – quando grande fosse il potenziale della città: essi consegnarono a Romani più di duecentomila armature e duemila catapulte». Per inciso, il greco Polibio conosceva bene i fatti, essendo amico, accompagnatore e “ospite” (in realtà ostaggio) di Scipione Emiliano, il “risolutore”. Si scoprì a questo punto che le concessioni non bastavano ancora. L’ultima feroce ingiunzione fu di abbattere Cartagine per ricostruirla altrove, lontano.  Solo allora i Cartaginesi, inermi, dissero no. E nonostante tutto, chiusi dentro le mura,riuscirono a resistere per qualche anno, grazie anche all’inettitudine dei generali romani che dirigevano l’assedio. Finché non fu mandato Scipione Emiliano, nipote del vincitore di Annibale e dotato di indubbia attitudine militare. Fu lui a dare adempimento all’odio vendicativo dei Romani, e a piangere sulle rovine di Cartagine che egli stesso mise a ferro e fuoco.  L’ultimo comandante punico, Asdrubale, si era comunque arreso; ma sua moglie, sebbene avesse avuto dai nemici garanzia di salvezza, aveva preferito uccidersi con i figli gettandosi tra le fiamme come Didone. Era il 146 a.C. La Cartagine punica non esisteva più; ma in seguito, in quella terra che diventerà una provincia romana, nello stesso sito, sorgerà una nuova e florida città con lo stesso nome.  I Romani sfruttarono in proprio quelle fertili campagne e quei centri di commercio,  e fecero tradurre in latino un trattato punico di agricoltura per capire meglio le tecniche cartaginesi di coltivazione.  

Mosaico nel Museo del Bardo, Tunisi
Il “sadismo” con cui i Romani eseguirono l’assassinio di Cartagine per progressivo soffocamento sarà in qualche modo riproposto milletrecento anni dopo dall’imperatore Federico Barbarossa: ricevuta la resa dei milanesi, nel 1162, comunicò in seguito la sua decisione di radere al suolo Milano, sollecitata invero dalle città rivali, Pavia, Cremona, Como, Lodi. Vae victis, «guai ai vinti», aveva detto – si narrava – il gallo Brenno quando aveva occupato Roma due secoli e mezzo prima della catastrofe cartaginese. Legge inossidabile della storia. La vicenda attuale della Grecia – paese ricchissimo di risorse culturali e paesaggistiche che fanno gola a eserciti di “privatizzatori” –,  però, è ancora aperta e non sappiamo come andrà a finire; né sappiamo che cosa ne sarà dell’Europa strozzina e dell’implacabile Germania. Scipione piangeva soprattutto perché pensava che ciò che era capitato a Cartagine sarebbe potuto succedere in futuro anche a Roma. Scipione presagiva i Visigoti e i Vandali alla porte della propria città.  

Pasquale Martino 
   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 19 luglio 2015