Debiti,
trattati, sottomissione: come
soffocare un Paese.
Una lezione antica per la Grecia e l'Europa di oggi
Giambattista Tiepolo, La conquista di Cartagine |
La
Grecia di Tsipras è stata spinta a una drammatica guerra difensiva: assediata dall’Europa dei creditori, è stata
infine piegata. Ci si è ricordati, per analogia, di episodi noti della storia
antica: la battaglia delle Termopili, per esempio, dove un pugno di Spartani
rallentò l’armata persiana ma fu sterminato (poi però i Greci vinsero la guerra);
e la distruzione di Cartagine, freddamente decisa da Roma e perseguita a passi
sempre più stringenti. E questo secondo
esempio, in verità, appare più calzante.
Dopo
due tragiche guerre, Cartagine era prostrata. Aveva perso il lungo duello con la rivale Roma, che era diventata,
vincendo, padrona del Mediterraneo. La fiorente e secolare città situata sulla
costa dell’odierna Tunisia pagava regolarmente alla vincitrice le rate ingenti
di un esoso debito di guerra; non aveva più un impero, non aveva diritto a una
politica estera, era vincolata da un trattato-capestro e tenuta a bada dal cane
da guardia dei Romani, il re numida Massinissa.
Ciononostante, a Roma il fantasma punico faceva ancora paura. Quando il
debito imposto a Cartagine fu interamente saldato, nel 152 a.C., l’ex
creditrice decise che la mucca ormai munta doveva morire. La maggioranza della
classe dirigente voleva vedere rasa al suolo la patria di Annibale «che
infiniti addusse lutti» ai Romani; il più noto dei liquidatori era Catone il
Censore, che, ottuagenario, andò in delegazione a visitare Cartagine e tornò
più che mai convinto che la città di Didone costituisse tuttora una minaccia
per Roma: bisognava distruggerla. Altri, come Scipione Nasica detto Corculone,
dissentivano dall’ex censore non per spirito umanitario, ma perché temevano
che, scomparsa la Grande Nemica, Roma
non avrebbe avuto più nessun collante di difesa “nazionale” e – come in effetti
avvenne – sarebbe caduta preda delle discordie intestine. I pacifisti però
erano in minoranza. Roma dunque aspettava solo il pretesto per dare il via alla
soluzione finale della questione punica.
Quando,
esasperati dalle provocazioni di Massinissa, i Cartaginesi risposero a mano
armata, scoccarono forse inconsapevolmente la scintilla della terza e ultima
guerra punica. Si videro subito dichiarare guerra da Roma. Traditi anche da
Utica, l’altra grande città della costa africana, che si arrese ai Romani,
decisero di offrire a loro volta la resa. Per prima cosa, i nemici imposero
loro di consegnare trecento giovani come ostaggi, e di attendere ulteriori
ordini dei consoli. Nonostante la protesta di chi, come Magone, faceva osservare
che il primo cedimento avrebbe reso inevitabile il successivo crollo, i
Cartaginesi accettarono. I Romani misero le mani sugli ostaggi, dopodiché i
consoli emanarono il secondo ordine : consegnare tutte le armi. E fu ancora un amarissimo
sì. «Allora apparve evidente – scrive Polibio – quando grande fosse il
potenziale della città: essi consegnarono a Romani più di duecentomila armature
e duemila catapulte». Per inciso, il greco Polibio conosceva bene i fatti, essendo
amico, accompagnatore e “ospite” (in realtà ostaggio) di Scipione Emiliano, il
“risolutore”. Si scoprì a questo punto che le concessioni non bastavano ancora.
L’ultima feroce ingiunzione fu di abbattere Cartagine per ricostruirla altrove,
lontano. Solo allora i Cartaginesi, inermi,
dissero no. E nonostante tutto, chiusi dentro le mura,riuscirono a resistere
per qualche anno, grazie anche all’inettitudine dei generali romani che
dirigevano l’assedio. Finché non fu
mandato Scipione Emiliano, nipote del vincitore di Annibale e dotato di indubbia
attitudine militare. Fu lui a dare adempimento all’odio vendicativo dei Romani,
e a piangere sulle rovine di Cartagine che egli stesso mise a ferro e fuoco. L’ultimo comandante punico, Asdrubale, si era
comunque arreso; ma sua moglie, sebbene avesse avuto dai nemici garanzia di
salvezza, aveva preferito uccidersi con i figli gettandosi tra le fiamme come
Didone. Era il 146 a.C. La Cartagine punica non esisteva più; ma in seguito, in
quella terra che diventerà una provincia romana, nello stesso sito, sorgerà una
nuova e florida città con lo stesso nome.
I Romani sfruttarono in proprio quelle fertili campagne e quei centri di
commercio, e fecero tradurre in latino
un trattato punico di agricoltura per capire meglio le tecniche cartaginesi di
coltivazione.
Mosaico nel Museo del Bardo, Tunisi |
Il
“sadismo” con cui i Romani eseguirono l’assassinio di Cartagine per progressivo
soffocamento sarà in qualche modo riproposto milletrecento anni dopo
dall’imperatore Federico Barbarossa: ricevuta la resa dei milanesi, nel 1162,
comunicò in seguito la sua decisione di radere al suolo Milano, sollecitata
invero dalle città rivali, Pavia, Cremona, Como, Lodi. Vae victis, «guai ai vinti», aveva detto – si narrava – il gallo
Brenno quando aveva occupato Roma due secoli e mezzo prima della catastrofe
cartaginese. Legge inossidabile della storia. La vicenda attuale della Grecia –
paese ricchissimo di risorse culturali e paesaggistiche che fanno gola a
eserciti di “privatizzatori” –, però, è
ancora aperta e non sappiamo come andrà a finire; né sappiamo che cosa ne sarà
dell’Europa strozzina e dell’implacabile Germania. Scipione piangeva
soprattutto perché pensava che ciò che era capitato a Cartagine sarebbe potuto
succedere in futuro anche a Roma. Scipione presagiva i Visigoti e i Vandali
alla porte della propria città.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 19 luglio 2015