Il corteo storico
libro VI dell'Eneide
Nel
libro VI è narrata la discesa agli Inferi di
Enea, che vi incontra lo spirito del padre Anchise; questi gli rivela il
destino dei suoi discendenti, profetizza la missione universale di Roma e gli
fa conoscere i grandi Romani dei secoli venturi, sotto forma di anime che
soggiornano nell’Ade in attesa di raggiungere i corpi cui sono destinate.
L’episodio (vv. 752-887) si può dividere in sequenze:
1) presentazione della serie dei re di Alba, a partire da Silvio qui considerato figlio di Enea (vv. 756-776);
2) apparizione di Romolo,
il primo dei re di Roma, e subito dopo di Augusto, il nuovo Romolo, del quale
si celebra la gloria futura (vv. 777-807);
3) presentazione dei re di
Roma e degli eroi repubblicani, fra i quali il primo console Bruto, i Deci, L.
Manlio Torquato, Camillo, Mummio, Catone, gli Scipioni, Fabrizio, Fabio Massimo
(vv. 808-846; i vv. 826-835 sono riferiti a Cesare e
a Pompeo);
4) enunciazione della
missione imperiale dei Romani (vv. 847-853);
5) presentazione dei
Marcelli e «epicedio» (dal greco epikédeion, «compianto funebre») per il
giovane Marcello destinato a morte precoce (vv. 854-886).

Enea e la Sibilla accompagnatrice salgono su un’altura dalla quale possono meglio distinguere le figure e i volti dei personaggi (anime in attesa di incarnarsi, secondo la concezione orfico-pitagorica); la scena sarà ripresa nel IV canto dell’Inferno dantesco, quando Virgilio mostrerà a Dante gli «spiriti magni» dell’antichità. Gli eroi appaiono in fila, quasi in processione, secondo una prospettiva non dissimile da quella rappresentata nei posteriori rilievi dell’Ara Pacis, suggerita anche, forse, dall’uso – attestato da Polibio – di portare nei cortei funebri le immagini degli antenati. L’originalità è che qui si tratta di un corteo di personaggi non defunti né viventi, ma “imminenti”. Va da sé che Virgilio compie una scelta: dei re albani sono nominati soltanto alcuni fra quelli altrimenti attestati, e in ordine apparentemente casuale; ciò vale a maggior ragione per i molti eroi repubblicani. Significativo è l’abbinamento Romolo-Augusto; il primo è menzionato subito dopo la serie dei re albani, ma, prima di proseguire la serie dei re romani, Virgilio inserisce Augusto col pretesto di presentare la gens Iulia; egli è appunto il nuovo Romolo, colui che in qualche modo ha rifondato Roma riportandola alla purezza delle origini e estendendo l’impero «oltre le stelle».
Ancor
piú interessante è il modo in cui è presentata la figura di Cesare: non si fa
menzione esplicita di lui (tranne forse che al v. 789, dove però potrebbe
trattarsi ancora di Augusto), nemmeno quando compare nella sfilata insieme con
Pompeo (neanche lui nominato), costituendo la coppia di autori della sciagurata
guerra civile. Dunque Cesare – che pure è il Divus la cui paternità è
stata decisiva per l’avvio della carriera di Ottaviano (Divi genus, v.
792) – viene rimosso e, per cosí dire, messo tra parentesi, come responsabile
di un eccessivo spargimento di sangue romano. Un tassello rilevante del mosaico
politico e ideologico augusteo è la presa di distanze dal grande antesignano,
funzionale a presentare il princeps Augusto come l’estirpatore delle
lunghe guerre civili (lui, che ne aveva provocate altre!) e l’instauratore
della pace universale. Non si può escludere, peraltro, che in questo passaggio
di ripudio della guerra civile Virgilio intenda esprimere il suo personale
orrore per tali guerre (delle quali aveva fatto amara esperienza) e l’auspicio
che il nuovo signore di Roma se ne astenga d’ora in poi fermamente. La
tendenza alla riprovazione dell’operato di Cesare e alla affermazione di una
discontinuità fra Cesare e Augusto si può osservare anche in Tito Livio,
contemporaneo di Virgilio, il quale si chiedeva se la nascita di Cesare fosse
stato un bene o un male per Roma, e non nascondeva una riabilitazione di Pompeo.
Del resto se si confronta il pur breve catalogo di grandi Romani offerto nelle Georgiche
(II, 169-172) si nota che i Deci, Camillo, gli Scipioni ricompaiono
nel corteo storico dell’Ade (VI, 824-825), Caio Mario invece sparisce: certo
perché non fu soltanto il vincitore di Giugurta e dei Cimbri (motivo per cui
era citato con onore nell’opera piú antica) ma anche il coautore con Silla
della prima terrificante guerra civile. La linea di interpretazione
storico-ideologica delle vicende romane contemporanee si era andata affinando e
puntualizzando nei primi anni del principato trionfante, probabilmente
attraverso un dibattito di posizioni comunque tollerate dal regime. Perfino
Catone l’Uticense, campione del senato e avversario implacabile di Cesare,
veniva rivalutato; ed è quasi certamente lui il Catone citato da Virgilio
nell’ultima rassegna di «grandi» (libro VIII) raffigurati sullo scudo di Enea,
subito dopo il reprobo Catilina, altro sobillatore di conflitti intestini e
perciò punito negli Inferi, mentre l’Uticense vigila sulle anime dei pii (VIII,
668-670): del che si ricorderà Dante quando affiderà a Catone il suo
Purgatorio.
Segue la
celeberrima definizione, per bocca di Anchise, della peculiare funzione dei
Romani nel mondo. Il termine di paragone, innominato, sono i Greci, il popolo
che vantava piú d'un primato, anzi contendeva ai Romani l'eccellenza fra i
popoli. Ai Greci è concessa la supremazia – evidentemente innegabile (credo
equidem) – nelle arti della scultura bronzea e marmorea, nella retorica,
nell'astronomia, probabilmente con implicita estensione alla cultura in
generale; ai Romani è assegnata l'arte (haec tibi erunt artes) del
dominio militare e politico sui popoli: dominio che è una realtà anche questa
innegabile, sebbene trionfalisticamente esagerata (v. 287). La "sentenza" virgiliana
arriva dopo quasi due secoli di dibattito sulla questione del rapporto fra le
civiltà di Grecia e di Roma, di confronto tra filellenismo e antiellenismo. Già
Cicerone, pur essendo un cultore e un teorico della humanitas, aveva
rivendicato il predominio dei Romani nell'arte politica (De re publica)
ma anche nell'arte oratoria (De oratore): due attività solidalmente
unite, che nella visione ciceroniana costituivano la piú alta forma di abilità
dell'essere umano e da cui derivava la supremazia generale dei Romani sui
Greci. Virgilio non si esprime ufficialmente circa la contesa fra le arti, ma
lascia intendere che il primato va al "governo mondiale", di pertinenza romana.
Risuona in lui, come in Livio (l'altro grande "provinciale" contemporaneo),
l'orgoglioso sentimento di potenza per cui il Romano dovrà «perdonare» i popoli
che si sottomettono (parcere subiectis) e «sgominare» quelli che
rifiutano di piegarsi (debellare superbos), e per questa via «imporre la
pace»: slogan propagandistico di tutti gli imperi "gendarmi del mondo", passati
e presenti; uno slogan che il capo barbaro Calgaco – nel discorso attribuitogli
da Tacito (Agricola, 30) – demistificherà radicalmente: ubi
solitudinem faciunt, pacem appellant, «dove (i Romani) portano la
desolazione, la chiamano pace».
Infine,
l’episodio di Marcello. Questi è il giovanissimo erede designato del princeps,
morto a diciannove anni nel 23 a.C. Il ragazzo compare all’improvviso quando la
rassegna e la processione sembravano concluse: è accanto al grande avo M.
Claudio Marcello, vincitore dei Galli a Casteggio. Egli è protagonista di una
scena autonoma e tutta sua: è l’unico personaggio pervaso da una delicata
atmosfera di tristezza, quasi presago dell’avvenire infelice che gli è
riservato. Certo, anche questa è celebrazione della domus augustea; ma
qui si può percepire la peculiare sensibilità di Virgilio nei confronti della
giovinezza spezzata, che ispirerà gli accenti di commiserazione dedicati
a Pallante, Lauso, Camilla. L’episodio non è strettamente
indispensabile al sistema ideologico cui lo scrittore è chiamato a dare
rappresentazione poetica. Ci piace pensare che esso, come la ripulsa della
guerra civile, costituisca uno degli spazi di libera espressione che il poeta
si concede e ricava nella sua opera; e che proprio per questo abbia sorpreso
Augusto e sua sorella Ottavia – madre di Marcello – durante la recitazione del
libro VI, come racconta Elio Donato, commuovendo la
donna fino alla perdita dei sensi.
Pasquale Martino
da: Virgilio, Antologia di passi tratti dalle Bucoliche, dalle Georgiche e dall'Eneide, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007.
La prima immagine: Francesco Del Cairo, Enea negli Inferi.
dal sito: http://fe.fondazionezeri.unibo.it/catalogo/