venerdì 6 dicembre 2013

Virgilio


Il corteo storico
libro VI dell'Eneide

 
Nel libro VI è narrata la discesa agli Inferi di Enea, che vi incontra lo spirito del padre Anchise; questi gli rivela il destino dei suoi discendenti, profetizza la missione universale di Roma e gli fa conoscere i grandi Romani dei secoli venturi, sotto forma di anime che soggiornano nell’Ade in attesa di raggiungere i corpi cui sono destinate. L’episodio (vv. 752-887) si può dividere in sequenze:




1) presentazione della serie dei re di Alba, a partire da Silvio qui considerato figlio di Enea (vv. 756-776);
    2) apparizione di Romolo, il primo dei re di Roma, e subito dopo di Augusto, il nuovo Romolo, del quale si celebra la gloria futura (vv. 777-807);
    3) presentazione dei re di Roma e degli eroi repubblicani, fra i quali il primo console Bruto, i Deci, L. Manlio Torquato, Camillo, Mummio, Catone, gli Scipioni, Fabrizio, Fabio Massimo (vv. 808-846; i vv. 826-835 sono riferiti a Cesare e a Pompeo);
     4) enunciazione della missione imperiale dei Romani (vv. 847-853);
     5) presentazione dei Marcelli e «epicedio» (dal greco epikédeion, «compianto funebre») per il giovane Marcello destinato a morte precoce (vv. 854-886).
 
La rassegna dei grandi di Roma è cosí concepita: Anchise,
Enea e la Sibilla accompagnatrice salgono su un’altura dalla quale possono meglio distinguere le figure e i volti dei personaggi (anime in attesa di incarnarsi, secondo la concezione orfico-pitagorica); la scena sarà ripresa nel IV canto dell’Inferno dantesco, quando Virgilio mostrerà a Dante gli «spiriti magni» dell’antichità. Gli eroi appaiono in fila, quasi in processione, secondo una prospettiva non dissimile da quella rappresentata nei posteriori rilievi dell’Ara Pacis, suggerita anche, forse, dall’uso – attestato da Polibio – di portare nei cortei funebri le immagini degli antenati. L’originalità è che qui si tratta di un corteo di personaggi non defunti né viventi, ma “imminenti”. Va da sé che Virgilio compie una scelta: dei re albani sono nominati soltanto alcuni fra quelli altrimenti attestati, e in ordine apparentemente casuale; ciò vale a maggior ragione per i molti eroi repubblicani. Significativo è l’abbinamento Romolo-Augusto; il primo è menzionato subito dopo la serie dei re albani, ma, prima di proseguire la serie dei re romani, Virgilio inserisce Augusto col pretesto di presentare la gens Iulia; egli è appunto il nuovo Romolo, colui che in qualche modo ha rifondato Roma riportandola alla purezza delle origini e estendendo l’impero «oltre le stelle».

Ancor piú interessante è il modo in cui è presentata la figura di Cesare: non si fa menzione esplicita di lui (tranne forse che al v. 789, dove però potrebbe trattarsi ancora di Augusto), nemmeno quando compare nella sfilata insieme con Pompeo (neanche lui nominato), costituendo la coppia di autori della sciagurata guerra civile. Dunque Cesare – che pure è il Divus la cui paternità è stata decisiva per l’avvio della carriera di Ottaviano (Divi genus, v. 792) – viene rimosso e, per cosí dire, messo tra parentesi, come responsabile di un eccessivo spargimento di sangue romano. Un tassello rilevante del mosaico politico e ideologico augusteo è la presa di distanze dal grande antesignano, funzionale a presentare il princeps Augusto come l’estirpatore delle lunghe guerre civili (lui, che ne aveva provocate altre!) e l’instauratore della pace universale. Non si può escludere, peraltro, che in questo passaggio di ripudio della guerra civile Virgilio intenda esprimere il suo personale orrore per tali guerre (delle quali aveva fatto amara esperienza) e l’auspicio che il nuovo signore di Roma se ne astenga d’ora in poi fermamente. La tendenza alla riprovazione dell’operato di Cesare e alla affermazione di una discontinuità fra Cesare e Augusto si può osservare anche in Tito Livio, contemporaneo di Virgilio, il quale si chiedeva se la nascita di Cesare fosse stato un bene o un male per Roma, e non nascondeva una riabilitazione di Pompeo. Del resto se si confronta il pur breve catalogo di grandi Romani offerto nelle Georgiche (II, 169-172) si nota che i Deci, Camillo, gli Scipioni ricompaiono nel corteo storico dell’Ade (VI, 824-825), Caio Mario invece sparisce: certo perché non fu soltanto il vincitore di Giugurta e dei Cimbri (motivo per cui era citato con onore nell’opera piú antica) ma anche il coautore con Silla della prima terrificante guerra civile. La linea di interpretazione storico-ideologica delle vicende romane contemporanee si era andata affinando e puntualizzando nei primi anni del principato trionfante, probabilmente attraverso un dibattito di posizioni comunque tollerate dal regime. Perfino Catone l’Uticense, campione del senato e avversario implacabile di Cesare, veniva rivalutato; ed è quasi certamente lui il Catone citato da Virgilio nell’ultima rassegna di «grandi» (libro VIII) raffigurati sullo scudo di Enea, subito dopo il reprobo Catilina, altro sobillatore di conflitti intestini e perciò punito negli Inferi, mentre l’Uticense vigila sulle anime dei pii (VIII, 668-670): del che si ricorderà Dante quando affiderà a Catone il suo Purgatorio.

Segue la celeberrima definizione, per bocca di Anchise, della peculiare funzione dei Romani nel mondo. Il termine di paragone, innominato, sono i Greci, il popolo che vantava piú d'un primato, anzi contendeva ai Romani l'eccellenza fra i popoli. Ai Greci è concessa la supremazia – evidentemente innegabile (credo equidem) – nelle arti della scultura bronzea e marmorea, nella retorica, nell'astronomia, probabilmente con implicita estensione alla cultura in generale; ai Romani è assegnata l'arte (haec tibi erunt artes) del dominio militare e politico sui popoli: dominio che è una realtà anche questa innegabile, sebbene trionfalisticamente esagerata (v. 287). La "sentenza" virgiliana arriva dopo quasi due secoli di dibattito sulla questione del rapporto fra le civiltà di Grecia e di Roma, di confronto tra filellenismo e antiellenismo. Già Cicerone, pur essendo un cultore e un teorico della humanitas, aveva rivendicato il predominio dei Romani nell'arte politica (De re publica) ma anche nell'arte oratoria (De oratore): due attività solidalmente unite, che nella visione ciceroniana costituivano la piú alta forma di abilità dell'essere umano e da cui derivava la supremazia generale dei Romani sui Greci. Virgi­lio non si esprime ufficialmente circa la contesa fra le arti, ma lascia intendere che il primato va al "governo mondiale", di pertinenza romana. Risuona in lui, come in Livio (l'altro grande "provinciale" contemporaneo), l'orgoglioso sentimento di potenza per cui il Romano dovrà «perdonare» i popoli che si sottomettono (parcere subiectis) e «sgominare» quelli che rifiutano di piegarsi (debellare superbos), e per questa via «imporre la pace»: slogan propagandistico di tutti gli imperi "gendarmi del mondo", passati e presenti; uno slogan che il capo barbaro Calgaco – nel discorso attribuitogli da Tacito (Agricola, 30) – demistificherà radicalmente: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, «dove (i Romani) portano la desolazione, la chiamano pace».

Infine, l’episodio di Marcello. Questi è il giovanissimo erede designato del princeps, morto a diciannove anni nel 23 a.C. Il ragazzo compare all’improvviso quando la rassegna e la processione sembravano concluse: è accanto al grande avo M. Claudio Marcello, vincitore dei Galli a Casteggio. Egli è protagonista di una scena autonoma e tutta sua: è l’unico personaggio pervaso da una delicata atmosfera di tristezza, quasi presago dell’avvenire infelice che gli è riservato. Certo, anche questa è celebrazione della domus augustea; ma qui si può percepire la peculiare sensibilità di Virgilio nei confronti della giovinezza spezzata, che ispirerà gli accenti di commiserazione dedicati a Pallante, Lauso, Camilla. L’episodio non è strettamente indispensabile al sistema ideologico cui lo scrittore è chiamato a dare rappresentazione poetica. Ci piace pensare che esso, come la ripulsa della guerra civile, costituisca uno degli spazi di libera espressione che il poeta si concede e ricava nella sua opera; e che proprio per questo abbia sorpreso Augusto e sua sorella Ottavia – madre di Marcello – durante la recitazione del libro VI, come racconta Elio Donato, commuovendo la donna fino alla perdita dei sensi. 

Pasquale Martino

da: Virgilio, Antologia di passi tratti dalle Bucoliche, dalle Georgiche e dall'Eneide, a cura di P. Martino, D'Anna, Messina-Firenze, 2007.


La prima immagine: Francesco Del Cairo, Enea negli Inferi.
dal sito: http://fe.fondazionezeri.unibo.it/catalogo/