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venerdì 26 gennaio 2024

Internati Militari Italiani

Un'altra deportazione e un'altra Resistenza 

La tragica guerra degli "invisibili"


«Internati militari italiani». Italienische Militärinternierte, IMI. È il nome imposto dai nazisti ai soldati italiani presi prigionieri dopo l’8 settembre 1943, in Italia e all’estero. Furono circa 800.000: un numero esorbitante, che si spiega soltanto con l’impreparazione cui le truppe italiane, tenute all’oscuro dell’imminente armistizio, furono abbandonate dal re e dal governo Badoglio. La Wehrmacht invece, ben preparata, riuscì quasi dappertutto ad aver ragione delle difese italiane mandate allo sbando. 

     Internati militari – una definizione coniata per loro – e non prigionieri di guerra: non dovevano godere dei diritti e del trattamento prescritti dalla convenzione di Ginevra. Agli occhi dell’ex alleato germanico gli italiani erano traditori, e soprattutto erano – i militari di truppa – ulteriore massa da schiavizzare al servizio della insaziabile economia bellica del Reich. Almeno la grande maggioranza di essi. Gli IMI furono infatti posti di fronte a un’alternativa: arruolarsi nelle forze armate della neonata RSI, il governo fantoccio creato in Italia dai tedeschi, o restare a marcire nei Lager. Non furono proprio pochissimi quelli che andarono con i fascisti (quasi 200.000), anche se una parte di questi, rientrata in patria, disertò. Il che aggiunge valore alla scelta dei 600.000 e più, che preferirono dire no restando dietro il filo spinato ad affrontare la sofferenza, la malattia e non di rado la morte. In quasi 50.000 morirono, senza contare i tanti che tornarono dai Lager affetti da malattie incurabili e in fin di vita. Al sacrificio degli IMI ogni regione, ogni città d’Italia ha dato un doloroso contributo. L’apporto della Puglia è stato messo in evidenza, di recente, da una bella mostra allestita a Lecce: si calcola che almeno 30.000 siano stati gli internati pugliesi, e fra i 12.000 circa di cui si ha documentata notizia quasi 3.000 sono i caduti. Fra i pugliesi vogliamo citare una delle figure eminenti: il colonnello Francesco Grasso, che guidò la resistenza militare a Barletta l’11 settembre ’43, e il giorno dopo fu arrestato dai tedeschi, quindi deportato in Germania, riuscendo a tenere clandestinamente un diario che è stato pubblicato dalla figlia e poi dal nipote.

     Questa storia enorme – storia nazionale e collettiva – è stata a lungo poco studiata, sebbene incrociasse la memoria familiare di qualche milione di persone (protagonisti, figli, nipoti); memoria essa stessa riluttante ad esprimersi , perché «la guerra è acqua passata», e «questa brutta cosa è meglio dimenticarla». Né si è valutato, per molto tempo, che quella degli IMI fosse una vicenda che incontrava la Resistenza patriottica contro il nazifascismo; che l’internato militare fosse – per dirla con Alessandro Natta, reduce del Lager – «una via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico». Proprio il libro di Natta, dirigente comunista di spicco, costituisce un caso esemplare: scritto negli anni ’50, rifiutato allora da una casa editrice pur vicina al PCI, dové attendere quarant’anni per essere infine pubblicato da Einaudi (nel 1997) col titolo emblematico L’altra Resistenza. Perché, appunto, anche la reclusione degli IMI – animata da cosciente motivazione ideale in alcuni, da istintiva ripulsa in altri – fu espressione di quella Resistenza di cui si vanno riscoprendo da tempo le molteplici forme, armate e disarmate. Dopo gli studi pioneristici degli anni ’80-’90 (alcuni dei quali, fra i più notevoli, si devono a studiosi tedeschi: citiamo per tutti il saggio di Gerhard Schreiber edito nel 1992 dall’Ufficio storico dell’Esercito italiano), e dopo la messe di lavori biografici curati da parenti e amici che hanno scandagliato archivi privati e di famiglia oltre a quelli pubblici, il tema degli IMI ha conquistato un posto consolidato nella storiografia e in alcune sintesi di storia della Resistenza (si veda quella di Santo Peli, Einaudi 2006). 

     Giustamente atteso, dunque, è il convegno di studi che l’Associazione nazionale partigiani d’Italia e l’Istituto nazionale Ferruccio Parri (rete degli istituti storici della Resistenza) hanno deciso di svolgere a Bari il 17 e 18 novembre, chiamando al confronto alcuni dei più qualificati studiosi e studiose di quella vicenda, provenienti da varie università italiane (per l’Università di Bari, che patrocina l’evento con il Comune e la Regione, c’è lo storico Carlo Spagnolo che presiederà la sessione inaugurale) e chiedendo a Nicola Labanca dell’Università di Siena, fra i massimi studiosi di storia militare, di proporre l’introduzione generale ai lavori. Segno, la scelta del capoluogo pugliese, di attenzione verso la città e la regione, che stanno sviluppando un programma di celebrazione degli 80 anni della Resistenza senza dimenticare quanto di importante accadde allora in Puglia, parte integrante di quella grande storia.        

Pasquale Martino

"La Gazzetta del Mezzogiorno" 17 novembre 2023  

L'immagine è tratta dalla mostra Il treno degli IMI (Lecce, gennaio-marzo 2023)

domenica 13 maggio 2018

Mauthausen Memorial


Memoria e Liberazione.
La manifestazione internazionale del 6 maggio


Lettura del giuramento nella Appelplatz
Il bel sole di domenica 6 maggio accoglie nel Mauthausen Memorial i partecipanti all’incontro internazionale che ogni anno commemora la liberazione del Lager nazista avvenuta il 5 maggio 1945. La piana antistante l’ingresso del pauroso recinto è diventata un parco dei monumenti nazionali – imponente quello sovietico, il memoriale dell’Italia è maestoso nella sua semplicità – davanti ai quali si raccolgono oggi le nutrite delegazioni, una folla variopinta e apparentemente caotica che assomma ad alcune migliaia di persone. La delegazione italiana è forse la più numerosa: una ventina di gonfaloni di enti locali – in testa La Spezia, Empoli, molta Toscana – i labari dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati) e dell’Anpi, tante scolaresche dal Nord Italia; molti hanno al collo fazzoletti a strisce bianche e azzurre come la casacca dei deportati, con al centro il triangolo rosso: lo stigma dei detenuti politici internati a Mauthausen domina dap-pertutto nei simboli di questa incredibile manifestazione.

Anataoi Malevannyi, russo, fra i
più giovani internati di Mauthausen
Certi aspetti enfatici propri della ufficialità – militari di nazionalità diverse in alta uniforme, saluti, squilli di tromba – non offuscano il carattere essenzialmente popolare e informale del grande raduno, in cui gli stendardi arcobaleno della pace si mescolano ai cartelli per Giulio Regeni, agli striscioni della «gioventù contro l’oblio» (Jugendliche gegen das Vergessen), dietro cui sfilano ragazze delle quali parecchie indossano il velo o hijab, alle bandiere dei curdi che ricordano come le lotte di liberazione siano ancora all’ordine del giorno. La manifestazione diventa un lungo corteo, che si snoda attraverso il Lager. Nel vasto piazzale al centro del campo, l’Appelplatz dove le SS eseguivano l’appello e la selezione dei prigionieri, oggi i rappresentanti di vari paesi fra cui anziani ex deportati rileggono ad alta voce in molte lingue il «giuramento di Mauthausen»: pronunciato collettivamente in quella piazza, dopo l’arrivo delle truppe americane e in occasione della partenza degli ex prigionieri russi, i primi a rimpatriare, il giuramento si conclude con la promessa solenne di non dimenticare i «milioni di fratelli assassinati dal nazifascismo» e di promuovere la libertà e la solidarietà internazionale. Non si resta indifferenti sentendo queste parole risuonare in quel luogo, in italiano, spagnolo, francese, tedesco, ungherese, russo, polacco, ceco, serbo-croato e via dicendo. È come se per un solo giorno si fosse ricostituita la grande alleanza antinazista di popoli e di Stati che nel secolo scorso segnò un momento altissimo di lotta per la libertà. Ma, ammonisce un oratore nel corso della giornata, «questo non è più il tempo del ricordo: è il tempo dell’impegno».
Mauthausen è un luogo impressionante, rimasto pressoché intatto: si sono conservati i grigi muraglioni di cinta, le torrette, la «scala della morte», molte baracche, camere a gas e crematori. Sembra inconcepibile che il dolce paesaggio di colline verdi e villaggi armoniosi nella valle danubiana sia stato il teatro di una mostruosa industria di schiavitù e sterminio le cui propaggini tentacolari si diramavano per tutta l’Austria. Era uno dei centri nodali del sistema concentrazionario nazista: un Lager per gli «irrecuperabili» – oppositori politici e partigiani di tutta l’Europa, e inoltre ebrei e prigionieri di guerra russi – destinati a sfiancarsi nelle cave di granito e per la produzione di armi, a morire di sfinimento, denutrizione e malattie, fucilati, gasati, gettati giù dalle rupi. Si conta che fra il 1938 e il 1945 vi siano stati internati 200.000 esseri umani, di cui 10.000 donne, e che almeno 103.000 vi siano stati uccisi. Gli italiani furono circa 8000 di cui la metà morì nel campo.


Antifascisti e partigiani pugliesi a Mauthausen

     
La delegazione italiana davanti al proprio memoriale
C’è un cospicuo drappello di pugliesi deportati e uccisi a Mauthasen, le cui vicende dovrebbero essere raccontate, e che citiamo qui in un elenco provvisorio e incompleto. Ai nomi più noti – l’avvocato Alfredo Violante, socialista liberale nato a Rutigliano; il sindacalista comunista Filippo D’Agostino, di Gravina – si affianca ora il nome dell’antifascista cattolico barese Giuseppe Zannini, la cui memoria il Comune di Bari ha onorato il 9 maggio, in una delle pietre d’inciampo per il quarantennale del suo amico Aldo Moro. Fra i triangoli rossi del Lager austriaco si annoverano cinque antifascisti di vecchia data, schedati nel Casellario politico centrale: due socialisti (Francesco Re, nato a Oria, e Antonio Brunetti, di Spinazzola, entrambi operai Fiat a Torino) e tre comunisti (Vincenzo Aulisio di Ascoli Satriano, partigiano delle Brigate Garibaldi, il ruvese Michele Rossini, operaio Fiat e partigiano, e l’elettricista tarantino Mario De Pasquale, il solo che sopravvisse). Operai Fiat erano anche il barlettano Pasquale Valente e il coratino Felice Scaringella, partigiano; lavoravano a Milano come operai o impiegati Giovanni Compagnone di Sansevero, Vladimiro Fratini di Taranto, Nicola Gangale e Giuseppe Rinella di Andria, Rocco Riefolo di Barletta e Pietro Carucci di Martina Franca (gli ultimi due sono sopravvissuti). 

      Trova conferma in questi dati la numerosa emigrazione meridionale nelle fabbriche del Nord rappresentata anche negli scioperi del marzo ’44 che dettero impulso alla Resistenza cui i tedeschi reagirono intensificando la deportazione di operai. Fra gli internati troviamo figure borghesi: il commerciante Pietro Civitano di Grumo Appula, arrestato in provincia di Siena; l’artista Girolamo Lopez, nato e residente a Bari, catturato a Milano; l’ufficiale dell’esercito e partigiano garibaldino Antonio Salcito, di Casalnuovo Monterotaro (Foggia), arrestato a Foligno. Sangue pugliese, versato unitamente a quello d’Italia e d’Europa, per la liberazione e per la fede in un mondo migliore.

Pasquale Martino
"La Gazzetta del Mezzogiorno", 12 maggio 2108   
Le fotografie sono state scattate da Maria Vittoria De Padova il 6 maggio 2018.

mercoledì 26 aprile 2017

Giuseppe Zannini, seconda puntata

Bari – Bologna – Mauthausen  
Una storia che viene alla luce

Gruppo della Fuci di Bari con Aldo Moro, Pompei 1941.
Fotografia inedita, concessa da Ida Lamacchia (seconda da destra in piedi)
Continua a riaffiorare la storia sommersa di Giuseppe Zannini, nato a Bari il 2 febbraio 1917, entrato nella Resistenza a Bologna nel 1943, arrestato dai tedeschi il 21 maggio 1944, deportato a Mauthausen dove morì per sfinimento il 15 maggio 1945 (data presunta) subito dopo la liberazione del Lager. Una storia che abbiamo raccontato su questa pagine («La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 gennaio 2017) componendo per la prima volta le rare e sparse notizie esistenti con alcuni materiali d’archivio che erano rimasti inesplorati. L’articolo della «Gazzetta» e il ritratto fotografico che abbiamo rinvenuto con l’archivista dell’Università di Bari sono stati pubblicati anche nel  sito Storia e Memoria di Bologna 
della Istituzione Bologna Musei, emanazione del Comune per la  memoria storica, così importante in quella città dove la guerra, l’occupazione germanica e la lotta di liberazione hanno lasciato il segno.
Ma la ricerca sta dando ulteriori frutti. Grazie al liceo scientifico Arcangelo Scacchi di Bari e al suo dirigente, sono stati trovati nell’archivio della scuola i registri generali dei voti che permettono di ricostruire gli ultimi anni del curriculum scolastico di Zannini (1933-1936): un allievo che non è quasi mai assente ed è promosso con la media del sette, ottenendo la dispensa parziale dalle tasse. Nell’ultimo anno ha però una defaillance, conseguendo la maturità soltanto nella sessione autunnale. Iscrittosi a Scienze politiche, ha un vero exploit: supera tutti gli esami con voti alti e arriva alla laurea, il 6 giugno 1940, con una media di 106,7, ottenendo il punteggio finale di 110 e lode. L’argomento della tesi in economia politica, Modernità di Galiani nella teoria del valore, fa comprendere gli interessi di Giuseppe specie se si pensa che il relatore è Angelo Fraccacreta: docente prestigioso e non allineato, già firmatario del manifesto antifascista di Benedetto Croce nel 1925 e primo rettore democratico dell’Ateneo barese dopo la caduta del fascismo. Ma in facoltà Zannini ha un altro incontro decisivo: quello con il quasi coetaneo Aldo Moro, giovanissimo docente nonché dirigente della Fuci. La federazione degli studenti universitari cattolici, in cui milita Giuseppe, è uno spazio relativamente autonomo dal regime. Ha conservato viva memoria di quegli anni Ida Lamacchia Mininni (classe 1920), allora studentessa di Lettere a Napoli ma iscritta alla Fuci di Bari, cara amica di Rina Moro e per suo tramite del fratello Aldo. La signora Lamacchia, che ha parlato a lungo con noi, non ricorda Zannini (le sezioni maschili e femminili della Fuci si incontravano solo in alcuni momenti) ma rievoca le riunioni presso la chiesa dei domenicani, l’attività di assistenza rivolta ad anziani e infermi, le gite, le conferenze di Moro; in occasioni speciali, rammenta, comparivano nei dintorni i carabinieri. «Eravamo sorvegliati», dice. L’amicizia fra Moro e Zannini, attestata dalle memorie della madre, della fidanzata e dell’amico bolognese Achille Ardigò, è confermata da quanto è a conoscenza di Renato Moro (nipote dello statista e fra i maggiori studiosi della sua biografia politica) il quale ci ha scritto cortesemente dicendosi convinto che il rapporto fra i due giovani possa essere documentato nelle carte di Moro, tuttora non riordinate e non accessibili come non lo è al momento l’archivio nazionale della Fuci.

Carta personale del prigioniero Zannini a Mauthausen
1.1.26.3 / 1856431 ITS Archives Bad Arolsen 
È stato invece possibile trovare un fascicolo di straordinario interesse: i documenti di Mauthausen, conservati nel grande archivio della deportazione, a Bad Arolsen in Germania. Vi si trova la «carta personale del prigioniero» (Häftlingspersonalkarte) con il numero di matricola 82553 e il disegno di un triangolo (che cucito sulla casacca era di colore rosso), all’interno l’abbreviazione It. (Italia) e, accanto, Sch. (Schutz, «sicurezza», sigla che indica i deportati politici). Si leggono poi le generalità di Zannini e la descrizione (fra cui: altezza 1,77, nessun segno caratteristico, lingue parlate il tedesco e il francese oltre all’italiano), il luogo di cattura (San Lazzaro di Savena nella cintura bolognese), e la spedizione verso il Lager il 7 agosto ’44 tramite la Sipo (polizia politica) di Verona.
Zannini, impiegato in banca, fu arrestato nel corso di un blitz delle SS che coinvolse il convento di Santa Maria dei Servi dove il giovane era ospitato. Fu il tentativo di disarticolare sul nascere il movimento antifascista cattolico che Giuseppe con i suoi amici della Fuci di Bologna stava costruendo coraggiosamente. Tentativo fallito, perché il giovane bancario non rivelò nomi, la retata non si allargò, la brigata partigiana “cattolica” (la 6a Brigata Giacomo) prese il suo posto nella lotta di liberazione nel capoluogo emiliano. Dopo la guerra fu riconosciuta a Zannini la qualifica di partigiano. A Bari, lo commemorarono i colleghi di lavoro del Credito Italiano, pubblicando un necrologio sulla «Gazzetta» del 31 marzo 1946. Fra i parenti rimasti (Giuseppe non aveva fratelli né figli) se ne perse la memoria, e non abbiamo trovato tracce di altre iniziative in suo ricordo.
Mentre la ricerca non si ferma, si sa già quanto basta perché le istituzioni pubbliche (il Comune, la Scuola, l’Università), e non solo loro, assumano l’impegno della memoria. Giuseppe Zannini deve tornare a essere conosciuto nella città e nella regione e onorato per aver dato la vita in nome della libertà.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 aprile 2017 


Leggi anche: Il partigiano ritrovato (prima puntata)

giovedì 26 gennaio 2017

Giuseppe Zannini

Il partigiano ritrovato.
Dalla Bari di Aldo Moro al martirio di Mauthausen


Questa storia viene raccontata qui per la prima volta. 
29 marzo 1946, l’ufficio per la Lombardia del Ministero dell’Assistenza Postbellica scrive al sindaco di Bari, riferendo quanto affermato da quattro reduci del campo di concentramento di Mauthausen; fra questi figurano Gianfranco Maris, futuro presidente dell’Aned (l’associazione ex deportati), l’architetto Barbiano di Belgioioso e il designer Germano Facetti. Essi dichiarano che a metà maggio del ‘45, pochi giorni dopo la liberazione del campo, vi è morto «per sfinimento» il barese dott. Giuseppe Zannini. L’ufficio ministeriale chiede che si rintraccino i familiari nel capoluogo pugliese, per dare loro notizia del decesso e per verificare l’informazione. Una coppia di zii consegna al comune una nota poi trasmessa al ministero. Vi si comunica con brevi cenni quanto è a conoscenza dei familiari: Zannini è nato a Bari il 2 febbraio 1917, è stato «partigiano e deportato politico da Bologna», internato nel lager austriaco; si chiede, a nome della madre, di sapere ove sia tumulata la salma. Il carteggio è custodito nell’Archivio di Stato di Bari. Il Ministero dell’Assistenza Postbellica era stato creato dal governo di unità nazionale per coordinare gli immani sforzi di ricerca e assistenza dei prigionieri, internati, dispersi e profughi italiani in un Paese sconvolto dalla guerra.
Questa di Giuseppe Zannini è la vicenda di un «triangolo rosso», da rievocare giustamente in prossimità di quel giorno della memoria che ricorda anche «gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte» (art. 1 legge 211). Notizia del giovane antifascista pugliese è conservata nel capoluogo emiliano, presso l’Istituzione Bologna Musei; schede su di lui sono comprese nel Dizionario Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese e nella banca dati dell’Aned. Ulteriori e sparse reminiscenze ampliano un quadro che resta comunque lacunoso. Lo presentiamo nei tratti essenziali.  
Di famiglia semplice, Zannini si laurea in scienze politiche a pieni voti. Milita nella Fuci, l’associazione degli studenti cattolici, frequenta Aldo Moro facendo propri i nuovi sentimenti antifascisti che si affermano nei tragici anni della guerra. È figlio unico e orfano di padre. Impiegato presso il Credito Italiano, nell’agosto 1943 – durante i 45 giorni di Badoglio – viene trasferito a Bologna, prendendovi alloggio in compagnia della madre Adele Lubrano. E sarà proprio Adele a lasciare una toccante testimonianza sull’impegno del figlio. Dopo l’8 settembre Giuseppe si trova nel cuore della guerra civile. Entra subito nella Resistenza, stimolando la formazione politica e la partecipazione del movimento cattolico alla lotta armata. La sua personalità è quella di un «leader naturale»: lo afferma il sociologo Achille Ardigò, che è al suo fianco in quel momento (con Angelo Salizzoni, futuro costituente, parlamentare democristiano e braccio destro di Moro). Incontra studenti e operai, sollecita il clero antifascista, propugna l’adesione al CLN come guida della Resistenza. È stato riconosciuto combattente della 6a Brigata «Giacomo», collegata alle formazioni partigiane cattoliche Stelle Verdi e confluita agli inizi del ’45 sotto il comando unitario della Divisione Bologna del Corpo Volontari della Libertà. 
Ma Giuseppe è arrestato il 21 maggio ’44. Qui si innesta un’altra testimonianza, depositata presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana: quella di Matilde Camaiori (1920-2007), di Pisa, fidanzata di Zannini. La ragazza si era recata pochi giorni prima a Bologna per incontrare Giuseppe. Viene arrestata con lui; entrambi sono accusati di aver progettato un attentato dinamitardo alla caserma tedesca. Nella brutale retata delle SS vengono coinvolti anche i Servi di Maria del convento vicino alla caserma, ove Zannini era ospitato avendo la casa inagibile per sinistro. Matilde è rilasciata dopo qualche giorno, diventerà una figura stimata di antifascista e di docente. Giuseppe è trattenuto; ha resistito agli interrogatori, viene mandato nel lager di Fossoli in provincia di Modena: un campo di transito, dove gli è impedito di vedere la madre che vuole visitarlo, e dove sfuggirà alla fucilazione di 68 partigiani per rappresaglia (luglio ’44), ma soltanto per continuare la funesta odissea che lo porterà prima a Bolzano e infine a Mauthausen fra gli Schutzhaeftlinge (prigionieri «per motivi di sicurezza»: uno dei tipici eufemismi della burocrazia nazionalsocialista). È con lui un altro eminente triangolo rosso, don Paolo Liggeri, il prete di Milano che pubblicherà un libro sulla propria esperienza di deportato e assisterà al calvario di Zannini nel sottocampo di Gusen I. E chissà se il giovane barese ebbe modo di incontrare un internato più anziano, il grande conterraneo Alfredo Violante, venuto anch’egli da Fossoli e gasato a Mauthausen il 24 aprile ’45. In nove mesi di lager gli aguzzini ammazzano ferocemente Giuseppe di fatica e di tormenti. La vita lo abbandona a 28 anni poco dopo l’arrivo dell’esercito americano. La data approssimativa è il 15 maggio ’45.
La sua città e la regione dovrebbero ricordarlo degnamente, farne conoscere la storia nelle scuole. Nonostante il sollecito ausilio dell’assessorato ai Servizi demografici di Bari, non abbiamo finora rintracciato eventuali parenti del martire antifascista. Grazie all’archivio dell’Università, abbiamo trovato il solo ritratto  fotografico disponibile. La ricerca continuerà; chi ha elementi per aiutarci, scriva al nostro indirizzo: martinopas@virgilio.it.

Pasquale Martino     


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 gennaio 2017

Immagini: In alto, il solo ritratto fotografico esistente di Zannini (Archivio Uniba). 
In basso, un disegno (probabile autoritratto) di Germano Facetti, testimone della morte di Zannini nel lager di Gusen I.  

La pagina originale di questo articolo, con la fotografia, è allegata alla scheda su Giuseppe Zannini nel sito Storia e Memoria di Bologna, dell'Istituzione Bologna Musei.  

sabato 21 gennaio 2017

L'enigma Brema-Bari

Sulle tracce dei criminali nazisti


Mappa dell'asse Brema-Bari in Italia
(dal romanzo Eva di I. Melchior)
La storia della via di fuga di criminali nazisti chiamata «asse BB, Brema-Bari» – di cui abbiamo incominciato a parlare qui («La Gazzetta del Mezzogiorno», 9.7.2016) – ha l'aria di voler restare a lungo un enigma irrisolto. È esistito realmente questo asse? Gli ex SS lo percorrevano davvero, per salpare da Bari verso il Vicino Oriente? Non ebbe dubbi il “cacciatore di nazisti” Simon Wiesenthal, che ne dà conto nei suoi due libri più significativi. Ma nello stesso Centro Wiesenthal di Vienna non vi sono documenti a tale proposito. La letteratura sulle «vie dei ratti» o ratlines, da noi in larga parte esaminata (con l’aiuto di Giulia Santamaria e Silvia Scaramuzzi), ignora la pista barese o la menziona con un calco ripetitivo della notizia wiesenthaliana. Ciò vale anche per la sola opera di storiografia pugliese – a nostra conoscenza – che vi accenni in nota, il libro di Francesco Terzulli sul campo di concentramento di Alberobello (La casa rossa, Mursia, 2003). L’eccellente studio di Gerald Steinacher sulla «via segreta dei nazisti» (Rizzoli, 2010) certifica che lo snodo austriaco-sudtirolese era il passaggio essenziale delle fughe – il che risponde alla tesi di Wiesenthal – ma non sviluppa l’analisi sui “terminali” italiani, eccetto il porto di Genova. Ciò vuol dire che i principali archivi accessibili al pubblico non contengono riferimenti immediatamente riconoscibili, tali da attirare l’interesse degli studiosi.
La nostra sensazione è che Wiesenthal abbia accolto la notizia sull’«asse BB» da una fonte dei servizi segreti alleati, o da agenti tedeschi convertiti alla collaborazione con gli alleati; una fonte analoga, secondo il suo racconto, gli rivelò l’esistenza della Odessa, la trama clandestina di protezione degli ex SS che avrebbe sostituito il primitivo asse Brema-Bari con un’organizzazione più sofisticata. Diversi storici contestano l’esistenza della Odessa dando più rilievo, nel salvataggio dei criminali di guerra, al ruolo di organismi teoricamente neutrali come la Croce Rossa e la Pontificia Commissione di Assistenza. Ma è innegabile la parte attiva svolta dai nazisti stessi, comunque la si chiami. Ed è probabile – e, in qualche caso, provato – che la rete nazista sia stata infiltrata e utilizzata in vario modo dai servizi inglesi, americani, sovietici e del nascente Israele.

Gli assassini sono fra noi
di S. Wiesenthal  
Bari era occupata dagli alleati fin dal settembre ’43: via via più lontana dal fronte, era il luogo ideale dove sperimentare inedite convergenze per il futuro, e fu d’altronde un grande imbuto verso cui precipitò il flusso di profughi dall’Europa. Nel 1943-44 Ivan Babic, ufficiale della Legione Croata, prende contatti nel capoluogo pugliese con i servizi alleati; il punto è impedire la vittoria comunista in Iugoslavia, ma sono evidenti i nessi di questa iniziativa con l’attivismo dei nazisti croati assistiti da strutture ecclesiastiche, per assicurarsi una protezione nel dopoguerra. Quella croata è una diramazione non certo piccola del salvataggio dei criminali nazifascisti. Un’altra notizia vuole che Otto Skorzeny (il liberatore di Mussolini nonché organizzatore, dopo il ’47, del soccorso ai propri camerati) abbia avuto a Bari una sorta di “ufficio” della sua rete logistica. Lo sostiene tra gli altri lo storico tedesco Gerhard Feldbauer (che però, da noi interpellato, non ha potuto dirci di più). In questo caso la nostra impressione è che la fonte sia di provenienza sovietica. Che il pezzo grosso SS Walter Rauff sia scappato da Bari grazie ai buoni uffici dei servizi americani, lo afferma lo storico statunitense David Talbot (ne abbiamo riferito nel precedente articolo). La via di fuga attraverso l’Alto Adige in direzione del porto barese è stata attentamente studiata, per quanto riguarda i profughi ebrei, da Eva Pfanzelter dell’università di Innsbruck, che ci ha cortesemente scritto: «mi sembrava ovvio che tutti – anche i nazisti criminali – usavano le stesse vie di fuga, gli stessi “alberghi“ e organizzazioni che li assistevano». Infine va ricordata la reclusione di numerosi militari tedeschi, austriaci e altoatesini (fra i quali si mimetizzavano i criminali) nei campi di Taranto e di Alberobello, da dove ci si poteva eclissare avendo il sostegno giusto.

Giustizia, non vendetta
di S. Wiesenthal
Di tali fatti, classificabili fra le emigrazioni a volte legali ma più spesso clandestine, non vi è traccia, comprensibilmente, nei fondi della prefettura, della questura e del comune di Bari, che abbiamo consultato con l’intelligente supporto del personale dell’Archivio di Stato. Ma questa documentazione è per altri versi uno straordinario racconto del contesto storico e sociale in cui le emigrazioni avevano luogo. Dal ’45 al ’48 il capoluogo pugliese è movimentato dall’arrivo – in certi momenti pressoché quotidiano – di profughi, reduci, ex internati, migranti. Le strutture di accoglienza sono improvvisate, accanto all’impegno solidale di alcuni si registrano reazioni negative e ostili di molti altri. Vi sono liste di rifugiati di varie nazionalità assistiti alla meno peggio; fra questi figurano austriaci e iugoslavi dai nomi di foggia germanica. L’infiltrazione con falsi documenti non sarebbe stata per nulla difficile. Alcuni profughi ottengono in assegnazione appartamenti requisiti dagli angloamericani, i cui proprietari tentano di recuperarne la disponibilità accusando gli assegnatari di svolgervi attività illecite. Chi sa che uno di questi alloggi – per esempio – non abbia ospitato una base logistica come quella attribuita in seguito a Skorzeny. C’è chi sta analizzando le carte relative agli imbarchi da Bari per l’esodo ebraico verso la Palestina; non si può escludere che spuntino indizi di presenze “anomale” riferibili alla rete nazista. È importante che il tema si faccia strada come indice di attenzione in una pluralità di indagini diversificate.

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 20 gennaio 2017

sabato 9 luglio 2016

Ratline nel porto barese

Criminali nazisti.
La via di fuga che passava per Bari

L'imboccatura del porto di Bari, veduta serale
Per due anni dopo la Seconda guerra mondiale, nel ’45-47, Il porto di Bari fu uno snodo cruciale nella fuga dei criminali nazisti dall’Europa. Ad affermarlo autorevolmente è Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, nel suo libro più noto, Gli assassini sono fra noi (1967). In proposito, l’uomo che fece catturare Adolf Eichmann è estremamente preciso: esisteva una linea di fuga principale, denominata in codice «asseB-B, Brema-Bari», che raccoglieva i fuggiaschi dalle varie città tedesche e li convogliava verso Memmingen in Baviera; da qui la «linea dei ratti» (Rattenlinie in tedesco, Ratline in inglese, così definita dagli anglo-americani) si volgeva a Innsbruck in Austria, quindi penetrava in Italia attraverso il Brennero, percorrendo infine la costa adriatica sino a Bari. Una variante – si apprende da altra fonte – era il passaggio attraverso il Territorio Libero di Trieste, allora controllato dagli Alleati, con prosecuzione verso il capoluogo pugliese. 
Per quanto riportata in un testo di quasi mezzo secolo fa, questa notizia non è mai stata ripresa né ha dato spunto a ricerche storiche specifiche, tanto meno nella città direttamente coinvolta. Vero è che verso la fine degli anni ’40 e nei primi ’50 l’asse B-B era in disuso: le partenze dei gerarchi in incognito avvenivano soprattutto da Genova. Si era ormai strutturata la cosiddetta «Odessa», l’organizzazione clandestina di protezione delle ex SS, resa celebre da un romanzo di Frederick Forsyth (cui Wiesenthal fece da consulente). Da Genova si levava l’ancora verso il Sud America, dove specialmente l’Argentina peronista dava ospitalità ai rifugiati del Terzo Reich. Gli studi sulle Ratlines prendono in esame per lo più il porto ligure oltre che la rete di appoggi supportata dal Vaticano e da varie strutture conventuali. Lo stesso centro di documentazione di Vienna, possessore dell’archivio di Wiesenthal – ci scrive Michaela Vocelka che lo dirige e alla quale ci siamo rivolti – contiene «alcuni materiali sulla via di fuga nazista e sulle Ratlines, ma nessun documento su Bari».
Simon Wiesenthal
Ma i riscontri ci sono, e sembrano pervenire dagli ambienti dei servizi segreti anglo-americani. Il volume di David Talbot su Allen Dulles e sulla nascita della Cia, The Devil’s Chessboard («La scacchiera del diavolo», New York, 2015), racconta le attenzioni riservate ai pezzi grossi delle SS da parte del capo dell’Oss (Office of Strategic Services) in Europa e negoziatore della resa germanica in Italia. Dulles era lungimirante: tornava utile arruolare i nazisti sconfitti, per la nuova guerra che si andava profilando contro l’Unione sovietica. Un simile calcolo ispirava il Vaticano o quanto meno importanti settori ecclesiastici, che non dimenticavano il nemico di sempre, la Russia atea. Del resto nell’anno convulso seguito al maggio ’45 il Vecchio Continente era un immenso campo profughi di tutte le nazionalità: c’erano molti ex prigionieri di guerra tedeschi, e molte SS che era praticamente impossibile trattenere in detenzione; il dileguamento era facile se si godeva di appoggi efficaci. Fra i criminali cui fu riservato dai servizi americani un trattamento di favore vi fu Walter Rauff, tenente colonnello delle SS in Italia, che partì da Bari per Alessandria in Egitto; lo afferma Talbot, comprovando così che Bari era il porto privilegiato per il Vicino e Medio Oriente. 
Rauff visse in Siria e in Libano, ma operò anche per i servizi segreti israeliani – lo rivelò nel 2007 il quotidiano israeliano «Haaretz» basandosi su fonti Cia – e si guadagnò il viaggio verso il Cile dove concluse la sua carriera come consigliere della Dina, la polizia politica del dittatore Pinochet. Clamorosa poi (ma priva di controprove) è la testimonianza di Ian Bell, agente inglese – la si può ascoltare anche su Youtube – che afferma di aver rintracciato a Bari nientemeno che Martin Bormann, il braccio destro del Führer, e di averlo visto salire su una nave senza poter intervenire, a causa di ordini superiori. Ma la sparizione di Bormann fa parte della mitologia del post-nazismo, che si nutre di supposizioni suggestive. Fiction dichiarata è il romanzo Eva (1984) di Ib Melchior, scrittore danese-statunitense, che immagina il salvataggio di Eva Braun, consorte di Hitler, incinta, lungo l'asse B-B fino al porto pugliese. Melchior è stato un membro dell'Oss e del Cic (Counter Intelligence Corps) e sulle vie di fuga dei nazisti mostra di saperne parecchio. 
Walter Rauff
Un tassello importantissimo e inesplorato si congiunge, dunque, al mosaico della Bari di quegli anni: città internazionale dove vivono e agiscono inglesi, americani, neozelandesi, iugoslavi, polacchi, oltre agli immigrati dalle colonie; dove sorge un campo profughi per gli ebrei, che vengono dall'Europa sconvolta nella speranza di partire per la Terra promessa. È l'amara ironia della Storia: dallo stesso porto (con le stesse navi?) salpano le vittime e i carnefici. Toccata non di rado dalla Grande Storia, Bari è spesso smemorata, incuriosa del proprio passato, o incline a leggerlo in chiave celebrativa e acritica. Ma questa è un'indagine doverosa, da farsi: come e grazie a chi funzionava il terminale della Ratline in Puglia? Occorrerebbe cercare negli archivi vaticani, suggerisce Enzo Collotti, con il quale abbiamo avuto la possibilità di confrontarci. e innanzitutto  aggiunge il grande studioso della Germania nazista e dei suoi rapporti con l'Italia  si dovrebbe passare al setaccio la letteratura su Odessa e le vie di fuga. Da parte nostra, sappiamo che alcuni ricercatori indipendenti e part time della "diaspora barese" sono già all'opera in Germania. E siamo convinti che tracce di questo traffico giacciano anche in fondo a qualche polveroso archivio locale. Questa ricerca è appena all'inizio. 


Pasquale Martino  
 «La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 luglio 2016

domenica 24 aprile 2016

Sinti e rom nella Resistenza



C'è una Liberazione che racconta gli zingari

Non è vero che su alcuni capitoli storici – la Seconda guerra mondiale, i lager, la Resistenza – si sa già tutto, e il resto è noia. C’è un vasto territorio da esplorare, se si hanno domande nuove e se si aprono le molte pagine poco conosciute. Una di queste, ancora ignota al largo pubblico, riguarda l’odissea degli zingari nell’Europa nazista. Da un po’ di tempo, in verità, lo sterminio di rom e sinti è oggetto di un certo interesse, sebbene i lavori storiografici fondamentali siano introvabili nelle librerie. 
Fortunatamente c’è ora il romanzo di Dario Fo Razza di zingaro (Chiarelettere, 2016) che narra la vita di Johann Trolmann, sinto tedesco, campione di boxe assassinato in un campo di concentramento. 
Mancano invece studi complessivi – a quanto sappiamo – sulla partecipazione di rom e sinti alla Resistenza europea: un dato tuttavia inoppugnabile, di cui esistono numerosi riscontri e testimonianze. Hemingway in Per chi suona la campana? raccontava dei gitani attivi nella guerra di Spagna dalla parte repubblicana. Nell’Est europeo e nei Balcani è documentata l’attività partigiana di raggruppamenti zingari che si guadagnarono anche decorazioni al valore, mentre in Francia i rom dettero un contributo importante all’avanzata angloamericana infiltrandosi oltre le linee nemiche e facilitando le comunicazioni. 
Sparse e frammentarie sono tuttora le notizie sull’Italia. Dove, va ricordato, numerosi zingari furono internati dai fascisti in campi di concentramento da cui vennero liberati dopo il 25 luglio ’43. Alcuni di essi si unirono alla lotta partigiana. Fra i «dieci martiri di Vicenza», partigiani fucilati dai tedeschi l’11 novembre ’44, si conta un gruppo di quattro sinti, tutti cittadini italiani, musicisti, circensi e giostrai: Walter Catter (Vampa), Lino Festini (Ercole), Renato Mastini, Silvio Paina. Il ventunenne Giuseppe Catter (Tarzan), cugino di Walter, cadde ad Aurigo (Imperia) e fu decorato alla memoria; nel 2014 l’Arci e l’Istituto storico imperiese lo hanno onorato con una targa. Presenze zingare sono attestate nel movimento partigiano a Genova, in Trentino, nella Divisione Osoppo in Friuli, nella Divisione Modena Armando in Emilia. Una scarna testimonianza orale fornisce elementi per ricostruire la singolare vicenda dei «Leoni di Breda Salini» (una località presso Rivarolo in provincia di Modena, che prende il nome dal vicino stabilimento). Era così chiamata una banda di sinti, professionisti dello spettacolo ambulante, i quali di notte si trasformavano in combattenti mettendo a segno efficaci azioni contro i tedeschi. Peraltro i musicisti di strada erano malvisti e bistrattati, e una sera proprio alcuni di loro furono costretti a improvvisare un concertino a beneficio dei militari germanici, in compagnia – racconta il testimone – del malcapitato maestro Gorni Kramer.

Amilcare Debar
La storia più nota, assai interessante e straordinaria per molti versi, è quella del piemontese Amilcare Debar, detto familiarmente Taro. Nato nel 1927, avendo perso entrambi i genitori viene allevato con la sorellina in un orfanotrofio, dimenticando la propria origine zingara. Nel '44, a 17 anni, si arruola come staffetta partigiana e diventa poi combattente col nome di battaglia di Corsaro nella 48a Brigata Garibaldi al comando di Pompeo Colajanni. L'Istituto piemontese per la storia della Resistenza conserva una scheda a lui dedicata, nella quale si legge fra l'altro: «Figura molto valida. Un uomo naturalmente capo. Notevole la sua capacità di risolvere i problemi da quelli quotidiani della sopravvivenza alimentare alle decisioni operative di guerra». Taro ha modo di conoscere anche Sandro Pertini, che quarant'anni dopo lo riceverà in Quirinale con un gruppo di ex partigiani, riabbracciandolo calorosamente. 
Dopo la Liberazione, Debar entra in polizia come altri reduci del partigianato. Ed è proprio in veste di poliziotto che gli capita, controllando i documenti di alcuni nomadi, di ritrovare i parenti perduti. Si riappropria della identità sinta, va a vivere in un campo con la sua gente, adottandone i mestieri, impegnandosi nella difesa dei diritti del popolo rom e sinto e parlando a suo nome in varie assise internazionali, fra cui le Nazioni Unite.
Partigiano fino alla morte, che lo coglie nel 2010 a 83 anni, Amilcare Debar ci ricorda che la Costituzione italiana, nata anche grazie al suo contributo e al sacrificio di tanti, recita all'art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». E che la repubblica dovrebbe rimuovere tutto ciò che ostacola l’uguaglianza e limita la libertà. 

Pasquale Martino 

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 aprile 2016  

leggi anche:
Porrajmos, il genocidio rom

sabato 12 marzo 2016

Monumenti a Budapest

Nazismo, Shoah, comunismo
la memoria controversa dell’Ungheria


F. 1. Monumento al soldato sovietico.
F. 2. Memoriale per le vittime dell'occupazione tedesca












«Gloria agli eroi sovietici della Liberazione»: il grande monumento al soldato sovietico (fotografia 1) domina il lato nord della piazza della Libertà (Szabadsag ter) nel centro di Budapest. Esso riporta i nomi dei militari caduti nella battaglia con cui l’Armata rossa liberò la capitale ungherese nel 1945. Il combattimento, protrattosi per mesi e conclusosi il 13 febbraio con la resa tedesca, fu uno dei più duri che si siano svolti nel perimetro di una grande città europea durante il Secondo conflitto mondiale. Il monumento dunque commemora un episodio cruciale della guerra antinazista. Sebbene i russi si siano macchiati del sangue ungherese nel 1956, il complesso monumentale non è stato abbattuto dopo il 1989, e si può dire che esso sia l’unica opera memoriale del quarantennio comunista rimasta intatta in città (molte statue sono state invece trasferite in un apposito parco nella zona sud di Buda o nell’ampio spazio che il Museo Nazionale riserva al periodo della repubblica popolare). Gruppi di estrema destra ne hanno chiesto più volte la rimozione, ma, nonostante l’attuale governo di destra, l’Ungheria non ha soppresso l’emblema di una pagina tragica e inquietante della sua storia, che racconta la vittoria di un’armata straniera contro gli occupanti tedeschi spalleggiati delle formazioni magiare filonaziste delle Croci frecciate. Vero è che alla liberazione contribuì anche la resistenza ungherese, attiva da mesi, erede dell'opposizione antinazista degli anni precedenti, in cui s'era distinto il partito comunista clandestino.    




F. 3. Installazioni davanti al memoriale
Il governo di Viktor Orban, però, ha realizzato nel 2014 un'altra opera lungo il lato sud della stessa piazza: il «Memoriale per le vittime dell’occupazione tedesca» (fotografia 2), in cui si vede l’aquila imperiale germanica piombare addosso all’arcangelo Gabriele simbolo dell’Ungheria inerme. Il monumento è stato oggetto di aspre critiche da parte di numerose associazioni e della comunità ebraica: esso infatti suggerisce una lettura storica auto-assolutoria, come se l’Ungheria fosse stata una vittima innocente, e molti ungheresi oltre agli stessi governanti non fossero stati complici del nazismo. Il governo del reggente Miklos Horty fu alleato della Germania e dell'Italia fascista, attuò politiche antisemite e prese parte attiva all'aggressione contro l'Urss; nel 1944, quando le sorti della guerra volgevano a sfavore dei tedeschi, Horthy tentò di sganciarsi dalla mortale alleanza; i nazisti lo prevennero, invadendo l'Ungheria dove instaurarono un governo fantoccio. Fu in questo ultimo anno di guerra che vennero intensificati i massacri di ebrei, attuati soprattutto dai nazisti magiari.  


F. 4. Scarpe sul Danubio
La contestazione del monumento voluto da Orban si è concretizzata in una serie di installazioni poste davanti allo stesso (fotografie 2 e 3), con esposizione di immagini, oggetti, scritte che si riferiscono appunto alle responsabilità del nazismo tedesco-ungherese. Le installazioni richiamano il memoriale delle «scarpe sul Danubio» (fotografia 4), realizzato nel 2005 dagli artisti Gyula Pauer e Can Togay, sulla sponda del fiume a Pest tra il ponte delle Catene e il palazzo del Parlamento, per ricordare gli ebrei sterminati dalle Croci frecciate nelle ultime e convulse settimane di guerra. Le vittime venivano legate a gruppi di tre, una di esse veniva uccisa con un colpo di pistola alla testa e tutto il gruppo veniva gettato in acqua. 
F. 5. Foto nel museo della Sinagoga
La memoria della Shoah è custodita anche nel museo della Grande Sinagoga e nell'annesso cortile, dove vengono commemorati i «giusti» (fra i quali l'italiano Giorgio Perlasca) che si prodigarono per salvare gli ebrei ungheresi. Una immagine fotografica esposta nel museo (fotografia 5) documenta l'identificazione propagandistica comunisti-ebrei, che era un tema fondante della narrazione nazista, pienamente accolto dalla destra antisemita magiara. Quest'ultima aveva contrastato la repubblica dei consigli di Bela Kun (1919) denunciandone il carattere  «giudaico-bolscevico» (una «baldoria ebraica», scatenata dalla «canaglia ebraica disfattista»: così si esprimono alcuni personaggi del romanzo di Ferenc Körmendi, Un'avventura a Budapest). A fondamento di tale campagna propagandistica si adduceva l'adesione di numerosi israeliti alla rivoluzione (lo stesso Bela Kun aveva il padre ebreo): motivo per cui i neofascisti odierni, riuniti nel movimento Jobbik, non solo non condannano l'Olocausto, ma pretendono che gli ebrei si scusino per le vittime dei comunisti nel '19. Si ricordi che quella di Budapest era una delle più estese e integrate comunità ebraiche d'Europa. 

F. 6. Statua di Imre Nagy
F. 7. Statua di Imre Nagy













A Budapest non mancano i monumenti che ricordano la rivoluzione del 1956, soffocata dall'intervento militare sovietico. il più suggestivo è probabilmente la statua di Imre Nagy, che lo raffigura mentre, appoggiato al corrimano di un ponte, guarda verso il palazzo del Parlamento (fotografie 6-7). Nagy, esponente di spicco del partito comunista ungherese, fu primo ministro nel '56, destituito dai sovietici, arrestato e poi condannato a morte. Fu riabilitato nel 1989 e onorato con un solenne funerale pubblico. 
Il regime comunista era finito con una transizione pacifica e indolore, come in quasi tutti i paesi dell'Europa orientale. E va rammentato che, trent'anni prima, la tragedia della rivoluzione stroncata aveva almeno consigliato al gruppo dirigente comunista post-'56, guidato da Janos Kadar, l'attuazione di una cauta politica di riforme, di amnistia e di aperture democratiche. 



Pasquale Martino
marzo 2016  

Le fotografie sono di Maria Vittoria De Padova. 
    
Postilla del dicembre 2018
L’ungherese senza pace.


La statua di Imre Nagy viene ora rimossa per decisione dell’attuale premier di estrema destra, lo xenofobo e fascistoide Orban, che gode dell’appoggio dei fascisti. Perché – dice – Nagy era “un comunista” (cosa vera ed evidente), e “un agente dell’Urss” (cosa non provata, e comunque non certo nel 1956!) e poco importa se difese l’indipendenza dell’Ungheria a prezzo della vita. Al posto della statua, vuole mettere un monumento alle vittime del “terrore rosso” durante la rivoluzione del 1919. Già i neofascisti ungheresi pretendono per quelle vittime le scuse degli “ebrei”, applicando la già richiamata equazione “giudeo=comunista”. L’ossessione antiebraica continua ad animare la destra magiara i cui progenitori si distinsero come strumenti dell’Olocausto. La memoria pubblica di Budapest è in perpetuo rifacimento, «somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in su le piume».