giovedì 12 settembre 2019

Il processo Petrone


Le due città al palazzo di Giustizia
1978-1981: i neofascisti sul banco degli imputati* 

Sembrava ancora nuovo fiammante il giovane Palazzo di Giustizia di piazza De Nicola, quel 13 novembre 1978 quando ebbe inizio uno dei dibattimenti destinati a segnare in qualche modo la storia di Bari: il processo per l’omicidio di Benedetto Petrone. Il diciottenne comunista era stato ucciso un anno prima, il 28 novembre ’77, in un agguato neofascista. 
Il processo ebbe in verità un prologo, pochi mesi prima: il procedimento per ricostituzione del partito fascista, a carico di militanti della sezione Passaquindici del Msi, formazione erede della Repubblica di Salò. Prologo assai significativo, per l’ampiezza dell’impianto accusatorio (il Pm Nicola Magrone collegava in un disegno premeditato decine di episodi dello squadrismo nero imperversante), per l’oggettivo carico politico che ricadeva sulle spalle dei testimoni (fra i quali il solo a sostenere coraggiosamente il proprio compito fu il segretario della sezione del Pci di Carrassi, l’intellettuale Raffaele Licinio, mentre altri testimoni si sfilarono indebolendo l’accusa), e per la conclusione (la sentenza respinse la tesi accusatoria, condannando alcuni imputati soltanto per «attività fascista»): essa costituiva in effetti un precedente che avrebbe condizionato il processo per il delitto Petrone.
     Fra gli imputati del primo processo c’era anche il latitante Giuseppe Piccolo, unico chiamato in causa per omicidio nel successivo processo Petrone, mentre i 7 coimputati, in libertà provvisoria, rispondevano solo di favoreggiamento. Il che già indica che si arrivava al dibattimento dopo un’indagine e un’istruttoria lacunose: da una parte era innegabile la «aggressione missina» (del Msi), come affermò il Pm Carlo Curione, dall’altra non erano stati individuati i responsabili di concorso in omicidio, che avevano spalleggiato Piccolo contro Petrone. I testimoni neofascisti, presenti ai fatti, erano stati più che reticenti. Il dibattimento non sciolse questo nodo; si indirizzò, anzi, nella direzione già indicata dal processo-prologo: l’assenza di una responsabilità politica del delitto. Due circostanze favorirono un tale esito. Innanzitutto il prolungamento e la complicazione dell’iter processuale, rallentato da rinvii (in attesa della estradizione di Piccolo che intanto era stato arrestato in Germania), dalle ripetute richieste dilatorie della difesa: la richiesta di trasferire il processo per legittima suspicione, che fu  respinta, e la richiesta di una perizia psichiatrica, che fu invece accolta. L'attesa della perizia impegnò nove mesi e poi ci furono le scene di impazzimento di Piccolo in aula e in carcere, e i ripetuti tentativi di suicidio. Finalmente il dibattimento riprese il 2 marzo 1981, a più di tre anni dai fatti. Il secondo fattore fu proprio la figura dell’omicida, “oggetto misterioso” di questa vicenda. Personaggio inquietante, per molti versi sconosciuto, venuto da un comune dell’Avellinese, di sicura fede fascista ma implicato in altre attività losche oltre che in prove di infiltrazione nella estrema sinistra, uomo imbarazzante assurto alla statura di condottiero sul campo della folta squadra missina nella delittuosa impresa, spietato esecutore di un omicidio e di un tentato omicidio (di Franco Intranò, compagno di Benedetto). Aiutato con molta efficienza a espatriare, nel contempo additato dai camerati come il “folle” e unico colpevole (in uno scontro ad armi pari, arrivarono a sostenere alcuni!), indotto a recitare la parte dello squilibrato di fronte alle telecamere in aula, e consegnato a una difesa quasi “d’ufficio” (i legali Franza e Preziosi del foro di Avellino); laddove i sette coimputati, appartenenti a famiglie della Bari “bene”, godono di un collegio prestigioso nel quale figura un autentico principe del foro barese come Achille Lombardo Pijola, oltre agli avvocati Plotino, Crocco e altri ancora.         
          Anche la parte civile poté disporre di un collegio importante che prestò opera volontaria e gratuita: fra gli altri Pietro Leonida Laforgia, Giuseppe Castellaneta, Mario Russo Frattasi e un giovane Niki Muciaccia. Accusato dalla difesa di essere troppo “militante”, il collegio di parte civile dové fronteggiare il progressivo diradarsi di quella atmosfera di tensione civile che aveva accompagnato la risposta della città al delitto e i primi passi dell’iter giudiziario (manifestazioni, cortei, presidî fuori del Palazzo di Giustizia e nutrite presenze di pubblico in aula si registrarono nelle prime fasi), e d’altro canto la crescente, ferrea volontà di una classe dirigente moderata di chiudere l’“incidente” derubricandolo a parentesi incresciosa e irrilevante da dimenticare. Volontà che fece pressione anche sulla delicata posizione del Pci, oggetto di polemica per un presunto uso politico del processo; e produsse qualche incrinatura nel collegio di parte civile. Era in gioco la faccia perbenista della città, con la sorte di quei «giovani figli di buona famiglia – così li definì l’avvocato Montesano della difesa – terrorizzati, dopo l'accaduto, da questo terribile impatto con i giovani di sinistra, e dalla prospettiva delle conseguenze giudiziarie»; quelli che invece, secondo Castellaneta, avvocato della parte civile, erano «i nipotini degeneri della borghesia bottegaia degli anni '50, che si incappucciano, che si armano, che occupano i quartieri per il gusto della violenza fine a se stessa».
     Il giorno della sentenza, 23 marzo 1981, lo spazio del pubblico in aula era di nuovo gremito fino all’inverosimile. I «giovani di buona famiglia» se la cavarono con pene irrisorie. Piccolo fu condannato a 22 anni, che diventarono 16 in appello. Nell’agosto del 1984 si suicidò per davvero, in carcere.

Pasquale Martino     
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 settembre 2019

* Nicola Signorile ha letto il testo e mi ha dato utili suggerimenti, dei quali lo ringrazio. 

lunedì 9 settembre 2019

Ritratto di Michele Romito



IL QUINDICENNE CHE FERMÒ I TEDESCHI
Il giorno eroico (9 settembre 1943)
e la lunga giovinezza del comunista di Bari Vecchia



Ho avuto per mia fortuna l’amicizia e la stima di Michele Romito, il ragazzo che fermò l’esercito tedesco a colpi di bombe a mano, il 9 settembre 1943 a Bari. Ho potuto dargli un ultimo saluto in ospedale, il giorno prima che morisse, a ottantadue anni, il 31 agosto 2009. Sono trascorsi dieci anni, e volgere il pensiero alla memoria di Michele è doveroso, tanto più nella circostanza del 76° anniversario di quella vicenda straordinaria nella storia di Bari. Fu un tempo drammatico in tutta Italia, l’8 settembre e i giorni che seguirono: quando lo Stato e l’esercito italiani si sfaldarono, il re e il governo fuggirono, le truppe tedesche dilagarono e sembrò arrivata – come è stato detto – la morte della Patria. Se la Patria non morì, lo si deve ad alcune migliaia di persone, che in modo pressoché spontaneo reagirono, fecero scelte cui pochissime di loro erano preparate, salvando soldati fuggiaschi, opponendosi nei modi possibili ai nazisti e ai fascisti redivivi, impugnando un’arma. Fu uno di quei passaggi sconvolgenti in cui – per opera di una minoranza non sparuta – un popolo e una nazione che erano sul punto di morire invece rinascono, si riconoscono, si rifondano come ex novo.
     Successe anche a Bari, dove protagonista fu un miscuglio estemporaneo di popolo, soldati, marinai, postelegrafonici, donne, ragazzi che soprattutto nella città vecchia e nel porto trovarono la scena del loro imprevisto momento di gloria, ed ebbero la loro rappresentazione in due figure emblematiche: il generale Nicola Bellomo, che senza ordini superiori (anzi, contro la riluttanza di buona parte dei comandi) diresse l’azione improvvisata di una compagnia eterogenea di militari e seppe coinvolgere anche i civili, impedendo alle truppe tedesche di distruggere le installazioni portuali; e il quindicenne Michele Romito, a capo di una banda di ragazzini che, sostenuti da numerosi altri scugnizzi e ragazze, si unirono ai soldati, si armarono di bombe e dall’alto della Muraglia bersagliarono l’autocolonna della Wehrmacht che tentava, penetrando in Bari Vecchia, di prendere alle spalle chi combatteva al porto. Fu proprio Romito a fare centro, causando l’incendio di un autocingolato che bloccò l’intera colonna tedesca, mentre i combattimenti continuavano davanti all’arco di San Nicola. Nel tardo pomeriggio i tedeschi dovettero ritirarsi, per seminare distruzione lungo il loro cammino verso Nord; si concluse così, con sei morti italiani sul terreno, una giornata violenta e tempestosa che è stata più volte raccontata ma sulla quale molto si vorrebbe ancora sapere.  
    
Michele Romito riceve la medaglia dal sindaco Vernola.
Fra i due nella foto, Tommaso Sicolo e Arrigo Boldrini.  
     Chi era Michele Romito? Apparteneva a una numerosa famiglia “barivecchiana”, 7 figli maschi e 3 femmine; aveva poca istruzione, si arrangiava in lavori portuali saltuari. Non saprei dire se nella scelta di campo istantanea di quel 9 settembre – cui non fu estraneo, certo, l’istinto popolare di autodifesa del proprio territorio – influì già un orientamento politico; forse sì, visto che nel dopoguerra Michele seguirà il fratello maggiore Antonio, suo punto di riferimento, nella adesione al Partito comunista. La famiglia Romito gravitava verso le due grandi istituzioni sociali e formative di Bari Vecchia: da una parte il Pci, dall’altra la Cattedrale. Michele crebbe lavorando nel porto e nei cantieri edili. Non si sposò, visse con i familiari nella casa madre del quartiere San Marco. Gli anni si allontanavano dall’epica giornata del ’43, e Bari era smemorata.  
     Il tempo di gloria tornò dopo il ’68, quando studenti di idee rivoluzionarie entrarono a frotte in Bari Vecchia per cercare le proprie ragioni interrogando la città proletaria che fino a quel momento ignoravano. Solidarizzarono con molti loro coetanei, ma in Michele Romito, quarantenne, trovarono insieme un padre e un compagno da ammirare: un ragazzo cresciuto e rimasto ribelle, insofferente, critico verso il Pci. La mia amicizia con lui non fu solo mia, ma fu quella di una comunità, specialmente il Circolo Lenin, che si strinse intorno a lui, facendosi raccontare in un estroverso dialetto barese non solo la storia emozionante di quelle bombe, ma tanti episodi della sua vita di lavoratore. Erano gli anni delle stragi e dello squadrismo nero, del nuovo antifascismo; l’Italia riscopriva la Resistenza, e Bari riscoprì gli insorti del settembre ’43. Il 25 aprile 1974 Romito riceve dal sindaco Nicola Vernola la medaglia d’oro della civica amministrazione, nel teatro Petruzzelli, alla presenza  del presidente nazionale dell’Associazione Partigiani, Arrigo Boldrini. La sera, una festa di giovani abbraccia l’“eroe” (titolo che Romito mai avrebbe pensato di attribuirsi). È merito indubbio dell’ANPI l’aver dato il dovuto rilievo alla figura di Romito, l’aver fatto conoscere la sua testimonianza, come anche l’aver valorizzato in anni recenti i “ragazzi” di Bari Vecchia che sono ancora fra noi e possono raccontare quei fatti.
Romito a una manifestazione
dell'Anpi a Bari 
     In seguito Michele frequentò la comunità di Santa Chiara, gruppo cristiano di base, si riavvicinò al Pci e, dopo lo scioglimento, a Rifondazione Comunista. Non mancava mai alle celebrazioni antifasciste; era a suo modo un personaggio: un giorno anche Moni Ovadia andò a trovarlo. Ma visse poveramente, come custode dei bagni comunali, infine come modestissimo pensionato. La sua ultima apparizione pubblica risale a due mesi prima della morte: fisicamente malandato, non volle mancare nel giugno 2009 alla manifestazione per i quaranta anni del Circolo Lenin di Puglia, nella Vallisa, dove fu calorosamente riabbracciato da quei giovani con i capelli ormai imbiancati che lo avevano avuto amico e compagno.
     Due anni dopo, nel 2011, venne deposta la “pietra d’inciampo” che lo ricorda, nel luogo che era stato teatro del gesto di coraggio per il quale Bari gli è debitrice.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 settembre 2019