lunedì 9 settembre 2019

Ritratto di Michele Romito



IL QUINDICENNE CHE FERMÒ I TEDESCHI
Il giorno eroico (9 settembre 1943)
e la lunga giovinezza del comunista di Bari Vecchia



Ho avuto per mia fortuna l’amicizia e la stima di Michele Romito, il ragazzo che fermò l’esercito tedesco a colpi di bombe a mano, il 9 settembre 1943 a Bari. Ho potuto dargli un ultimo saluto in ospedale, il giorno prima che morisse, a ottantadue anni, il 31 agosto 2009. Sono trascorsi dieci anni, e volgere il pensiero alla memoria di Michele è doveroso, tanto più nella circostanza del 76° anniversario di quella vicenda straordinaria nella storia di Bari. Fu un tempo drammatico in tutta Italia, l’8 settembre e i giorni che seguirono: quando lo Stato e l’esercito italiani si sfaldarono, il re e il governo fuggirono, le truppe tedesche dilagarono e sembrò arrivata – come è stato detto – la morte della Patria. Se la Patria non morì, lo si deve ad alcune migliaia di persone, che in modo pressoché spontaneo reagirono, fecero scelte cui pochissime di loro erano preparate, salvando soldati fuggiaschi, opponendosi nei modi possibili ai nazisti e ai fascisti redivivi, impugnando un’arma. Fu uno di quei passaggi sconvolgenti in cui – per opera di una minoranza non sparuta – un popolo e una nazione che erano sul punto di morire invece rinascono, si riconoscono, si rifondano come ex novo.
     Successe anche a Bari, dove protagonista fu un miscuglio estemporaneo di popolo, soldati, marinai, postelegrafonici, donne, ragazzi che soprattutto nella città vecchia e nel porto trovarono la scena del loro imprevisto momento di gloria, ed ebbero la loro rappresentazione in due figure emblematiche: il generale Nicola Bellomo, che senza ordini superiori (anzi, contro la riluttanza di buona parte dei comandi) diresse l’azione improvvisata di una compagnia eterogenea di militari e seppe coinvolgere anche i civili, impedendo alle truppe tedesche di distruggere le installazioni portuali; e il quindicenne Michele Romito, a capo di una banda di ragazzini che, sostenuti da numerosi altri scugnizzi e ragazze, si unirono ai soldati, si armarono di bombe e dall’alto della Muraglia bersagliarono l’autocolonna della Wehrmacht che tentava, penetrando in Bari Vecchia, di prendere alle spalle chi combatteva al porto. Fu proprio Romito a fare centro, causando l’incendio di un autocingolato che bloccò l’intera colonna tedesca, mentre i combattimenti continuavano davanti all’arco di San Nicola. Nel tardo pomeriggio i tedeschi dovettero ritirarsi, per seminare distruzione lungo il loro cammino verso Nord; si concluse così, con sei morti italiani sul terreno, una giornata violenta e tempestosa che è stata più volte raccontata ma sulla quale molto si vorrebbe ancora sapere.  
    
Michele Romito riceve la medaglia dal sindaco Vernola.
Fra i due nella foto, Tommaso Sicolo e Arrigo Boldrini.  
     Chi era Michele Romito? Apparteneva a una numerosa famiglia “barivecchiana”, 7 figli maschi e 3 femmine; aveva poca istruzione, si arrangiava in lavori portuali saltuari. Non saprei dire se nella scelta di campo istantanea di quel 9 settembre – cui non fu estraneo, certo, l’istinto popolare di autodifesa del proprio territorio – influì già un orientamento politico; forse sì, visto che nel dopoguerra Michele seguirà il fratello maggiore Antonio, suo punto di riferimento, nella adesione al Partito comunista. La famiglia Romito gravitava verso le due grandi istituzioni sociali e formative di Bari Vecchia: da una parte il Pci, dall’altra la Cattedrale. Michele crebbe lavorando nel porto e nei cantieri edili. Non si sposò, visse con i familiari nella casa madre del quartiere San Marco. Gli anni si allontanavano dall’epica giornata del ’43, e Bari era smemorata.  
     Il tempo di gloria tornò dopo il ’68, quando studenti di idee rivoluzionarie entrarono a frotte in Bari Vecchia per cercare le proprie ragioni interrogando la città proletaria che fino a quel momento ignoravano. Solidarizzarono con molti loro coetanei, ma in Michele Romito, quarantenne, trovarono insieme un padre e un compagno da ammirare: un ragazzo cresciuto e rimasto ribelle, insofferente, critico verso il Pci. La mia amicizia con lui non fu solo mia, ma fu quella di una comunità, specialmente il Circolo Lenin, che si strinse intorno a lui, facendosi raccontare in un estroverso dialetto barese non solo la storia emozionante di quelle bombe, ma tanti episodi della sua vita di lavoratore. Erano gli anni delle stragi e dello squadrismo nero, del nuovo antifascismo; l’Italia riscopriva la Resistenza, e Bari riscoprì gli insorti del settembre ’43. Il 25 aprile 1974 Romito riceve dal sindaco Nicola Vernola la medaglia d’oro della civica amministrazione, nel teatro Petruzzelli, alla presenza  del presidente nazionale dell’Associazione Partigiani, Arrigo Boldrini. La sera, una festa di giovani abbraccia l’“eroe” (titolo che Romito mai avrebbe pensato di attribuirsi). È merito indubbio dell’ANPI l’aver dato il dovuto rilievo alla figura di Romito, l’aver fatto conoscere la sua testimonianza, come anche l’aver valorizzato in anni recenti i “ragazzi” di Bari Vecchia che sono ancora fra noi e possono raccontare quei fatti.
Romito a una manifestazione
dell'Anpi a Bari 
     In seguito Michele frequentò la comunità di Santa Chiara, gruppo cristiano di base, si riavvicinò al Pci e, dopo lo scioglimento, a Rifondazione Comunista. Non mancava mai alle celebrazioni antifasciste; era a suo modo un personaggio: un giorno anche Moni Ovadia andò a trovarlo. Ma visse poveramente, come custode dei bagni comunali, infine come modestissimo pensionato. La sua ultima apparizione pubblica risale a due mesi prima della morte: fisicamente malandato, non volle mancare nel giugno 2009 alla manifestazione per i quaranta anni del Circolo Lenin di Puglia, nella Vallisa, dove fu calorosamente riabbracciato da quei giovani con i capelli ormai imbiancati che lo avevano avuto amico e compagno.
     Due anni dopo, nel 2011, venne deposta la “pietra d’inciampo” che lo ricorda, nel luogo che era stato teatro del gesto di coraggio per il quale Bari gli è debitrice.

Pasquale Martino    
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 settembre 2019