Ingiustizia
è fatta, ma la verità è detta.
Storia
di un’odissea giudiziaria (che passò anche da Bari).
Il libro di B. Tobagi e gli altri
Mezzo
secolo ci separa dal memorabile 1969, quando la grande avanzata del movimento
operaio conquistò con i rinnovi contrattuali anche lo statuto dei diritti dei
lavoratori pensato da Gino Giugni, docente di diritto del lavoro a Bari, e
approvato all’inizio del 1970. Ma l’anno fu pure concluso tragicamente – e non
a caso – dalla strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre a Milano: la
“madre di tutte le stragi”, che inaugurò la sequenza dello stragismo nero
culminata con la bomba di Bologna (1980). L’attentato del ‘69 fu il più grave
della storia repubblicana fino a quel momento, per numero di morti: 17
(l’ultimo dei quali deceduto anni dopo per i postumi delle ferite), e in più il
ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, innocente, fermato nelle prime indagini di
polizia e morto il 15 dicembre nella questura milanese dove era trattenuto irregolarmente
da più di tre giorni (sulla sua vicenda ci soffermeremo a tempo debito).
Tuttavia, di questo evento cruciale e simbolico c’è scarsa conoscenza: indagini
su campioni di giovani mostrano che solo una esigua minoranza sa che gli
attentatori furono neofascisti; il resto attribuisce le responsabilità ad altri
soggetti e soprattutto alle Brigate Rosse (il gruppo terroristico cui una versione
falsante addebita tutte le violenze degli anni successivi). Sono perciò
benvenute le novità librarie che incominciano ad apparire per il
cinquantenario, e aiutano a capire la storia messa in moto da quella bomba.
Vanno menzionati due bei volumi editi da Laterza: 12 dicembre 1969, chiara sintesi dello storico Mirco Dondi, uscita
nel 2018 per la serie «10 giorni che hanno fatto l’Italia», e Prima di Piazza Fontana, del giornalista
Paolo Morando (2019), che racconta la prova generale della strage, la serie di
attentati senza vittime del 1969, uno «sciame sismico» secondo l’efficace
definizione di Benedetta Tobagi, giornalista e storica. Tobagi, da parte sua,
dopo avere dato alle stampe nel 2013 un ottimo lavoro sulla strage di Brescia
del 1974 (Una stella incoronata di buio,
Einaudi), pubblica ora per lo stesso editore Piazza Fontana. Il processo impossibile.
Un
libro importante: spiega le verità fondamentali sulla bomba raccontando trent’anni
di vicenda processuale con scrupoloso studio dei documenti e con avvincente
piglio narrativo.
Se il regista Marco Tullio Giordana intitolò il suo film del 2012 Romanzo di una strage, il libro di Tobagi è a sua volta il romanzo di un’odissea giudiziaria. Il segmento più ampiamente trattato è quello dei processi di Catanzaro (1975-79) e di Bari (1984-85). Sì, perché proprio nel trasferimento del processo dalla sua sede naturale, Milano (ritenuta troppo politicizzata), a un Sud distante e, nel caso del capoluogo calabrese, perfino difficile da raggiungere, qualcuno aveva riposto la speranza che il caso finisse insabbiato. Non fu così. La sentenza di primo grado di Catanzaro (che assolve gli anarchici e condanna i neofascisti veneti di Ordine Nuovo individuando le complicità nei servizi segreti), sebbene riformata in appello e cancellata poi dalla Cassazione che rinvia il nuovo processo a Bari, sarà ricordata come la sentenza più vicina alla verità: è convalidata nella sostanza proprio dall’ultima pronuncia della Cassazione, che nel 2005 pone termine al tormentato iter giudiziario sancendo che gli ordinovisti Freda e Ventura (sebbene ormai assolti in via definitiva) sono responsabili della strage. La pagina barese del processo (affiancata da un giudizio collaterale a Potenza, per falsa testimonianza), pur deludente negli esiti, si distingue per l’assoluzione degli anarchici con formula piena (non più per insufficienza di prove), per la corposa argomentazione del ricorso scritto dal procuratore generale di Bari Umberto Toscani (respinto dalla Cassazione che conferma l’assoluzione anche dei fascisti), e inoltre per le puntuali cronache della «Gazzetta del Mezzogiorno» firmate dal veterano Italo del Vecchio. Quella esperienza stimolò l’azione di studiosi baresi, cui Tobagi tributa un giusto riconoscimento: la pionieristica raccolta di saggi e documenti a cura di Nicola Magrone e Giulia Pavese (Ti ricordi di piazza Fontana?, Edizioni Dall’Interno, Bari, 1986); l’annosa ricerca dello storico Aldo Giannuli, consulente della commissione stragi e di molte procure, che nel 1989 stampa per le Edizioni Associate la riedizione della controinchiesta cult del 1970, La strage di Stato, prima di una serie di opere da lui dedicate alle trame dei fascisti e dei servizi segreti (la più recente: Storia della “Strage di Stato”, Ponte alle Grazie, 2019); e infine la stessa riflessione più complessiva di Franco De Felice, docente di storia contemporanea a Bari e a Roma, che in quegli anni formulò la tesi – oggi ampiamente accolta – del «doppio Stato» e della «doppia lealtà», osservando come in molti apparati statali e in una parte della classe politica dietro all’ossequio apparente per la costituzione democratica si celassero una obbedienza alle logiche della guerra fredda e una disponibilità a tramare o a coprire progetti incostituzionali di limitazione della democrazia.
Se il regista Marco Tullio Giordana intitolò il suo film del 2012 Romanzo di una strage, il libro di Tobagi è a sua volta il romanzo di un’odissea giudiziaria. Il segmento più ampiamente trattato è quello dei processi di Catanzaro (1975-79) e di Bari (1984-85). Sì, perché proprio nel trasferimento del processo dalla sua sede naturale, Milano (ritenuta troppo politicizzata), a un Sud distante e, nel caso del capoluogo calabrese, perfino difficile da raggiungere, qualcuno aveva riposto la speranza che il caso finisse insabbiato. Non fu così. La sentenza di primo grado di Catanzaro (che assolve gli anarchici e condanna i neofascisti veneti di Ordine Nuovo individuando le complicità nei servizi segreti), sebbene riformata in appello e cancellata poi dalla Cassazione che rinvia il nuovo processo a Bari, sarà ricordata come la sentenza più vicina alla verità: è convalidata nella sostanza proprio dall’ultima pronuncia della Cassazione, che nel 2005 pone termine al tormentato iter giudiziario sancendo che gli ordinovisti Freda e Ventura (sebbene ormai assolti in via definitiva) sono responsabili della strage. La pagina barese del processo (affiancata da un giudizio collaterale a Potenza, per falsa testimonianza), pur deludente negli esiti, si distingue per l’assoluzione degli anarchici con formula piena (non più per insufficienza di prove), per la corposa argomentazione del ricorso scritto dal procuratore generale di Bari Umberto Toscani (respinto dalla Cassazione che conferma l’assoluzione anche dei fascisti), e inoltre per le puntuali cronache della «Gazzetta del Mezzogiorno» firmate dal veterano Italo del Vecchio. Quella esperienza stimolò l’azione di studiosi baresi, cui Tobagi tributa un giusto riconoscimento: la pionieristica raccolta di saggi e documenti a cura di Nicola Magrone e Giulia Pavese (Ti ricordi di piazza Fontana?, Edizioni Dall’Interno, Bari, 1986); l’annosa ricerca dello storico Aldo Giannuli, consulente della commissione stragi e di molte procure, che nel 1989 stampa per le Edizioni Associate la riedizione della controinchiesta cult del 1970, La strage di Stato, prima di una serie di opere da lui dedicate alle trame dei fascisti e dei servizi segreti (la più recente: Storia della “Strage di Stato”, Ponte alle Grazie, 2019); e infine la stessa riflessione più complessiva di Franco De Felice, docente di storia contemporanea a Bari e a Roma, che in quegli anni formulò la tesi – oggi ampiamente accolta – del «doppio Stato» e della «doppia lealtà», osservando come in molti apparati statali e in una parte della classe politica dietro all’ossequio apparente per la costituzione democratica si celassero una obbedienza alle logiche della guerra fredda e una disponibilità a tramare o a coprire progetti incostituzionali di limitazione della democrazia.
Se
è vero che la storia processuale di piazza Fontana – punteggiata da voluti
rallentamenti, rinvii, depistaggi – non ha fatto giustizia perché non ha punito
i colpevoli, è altresì indubbio (e Tobagi lo sottolinea) che essa ha prodotto –
grazie anche alla feconda riapertura delle indagini negli anni ’90 – un progressivo
accertamento delle responsabilità storiche e politiche, tanto del neofascismo
quanto degli apparati di intelligence e di esponenti dei governi di allora. E
ha lasciato una enorme mole di documentazione e testimonianze: materia per gli
studi storici che continueranno a svilupparsi, e anche, ci si augura, per l’impegno
delle scuole cui spetta il compito di trasmettere la conoscenza critica di una pagina
che ha plasmato in modo decisivo la storia del nostro Paese.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 22 giugno 2019
Cronache
dal tribunale
Italo
Del Vecchio, morto nel 2000 a 75 anni, giustamente ricordato nel libro di
Benedetta Tobagi, è stato una firma storica della «Gazzetta del Mezzogiorno»,
capocronista e inviato speciale, maestro di giornalismo in un’epoca in cui gli
strumenti del mestiere non erano il computer e lo smartphone, ma il telefono
fisso e la macchina da scrivere portatile. Specialista di cronaca giudiziaria
(seguì a Bari il processo contro il capomafia Luciano Liggio, nel 1969) fu tra le
figure più operose di quell’area di corrispondenti di varie testate che Aldo
Giannuli nel suo libro Bombe a inchiostro
(Rizzoli, 2008) chiama la «controinformazione democratica», di cui fecero parte
per esempio Camilla Cederna, Giorgio Bocca e Walter Tobagi, padre di Benedetta.
Giornalisti che, in sintonia con la parte più avvertita dell’opinione pubblica,
contribuirono a mettere in dubbio i risultati fuorvianti delle prime indagini
su piazza Fontana e a fare emergere verità nascoste. I réportage di Del Vecchio
dal processo di Bari furono un punto di riferimento per colleghi di altri
giornali.
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