sabato 27 giugno 2015

Leonard Peltier

Un Sioux in carcere, icona della resistenza indiana


«L’unico indiano buono è quello morto», è il celebre aforisma attribuito al generale P. H. Sheridan, veterano delle guerre indiane negli Usa del XIX secolo; si potrebbe aggiungere: se non morto, almeno in galera. Tali concetti non sembrano del tutto sorpassati. Il caso emblematico è quello di Leonard Peltier: nativo americano del Nord Dakota, 71 anni, attivista dell’AIM (American Indian Movement), Peltier sconta da 39 anni l’ergastolo sotto l’accusa – mai provata, secondo molti osservatori indipendenti fra cui Amnesty International – di aver ucciso due agenti dell’FBI il 26 giugno 1975, esattamente quarant’anni fa. L’anniversario della sparatoria di Pine Ridge che è all’origine della condanna spinge i difensori dei diritti dei nativi a tentare di riaprire il caso e di ottenere la grazia dal presidente Obama: cosa assai difficile, visto che quindici anni fa l’orientamento di Clinton favorevole alla scarcerazione fu revocato dopo un raduno di protesta (sedizioso, verrebbe da dire) di 500 agenti federali davanti alla Casa Bianca.   

Tutta la vicenda si presta a molte riflessioni. Incominciamo dall’AIM: associazione militante, fondata nel 1968, raccoglie le mai sopite istanze di riscatto delle comunità superstiti di nativi confinati nelle riserve-ghetto dove regnano povertà e disoccupazione; l’AIM rilancia l’orgoglio indiano ispirandosi alla radicalità dei nuovi movimenti politici e sociali degli anni ’60, a partire da quello afroamericano. I leader neri Malcolm X e Luther King avevano guardato con interesse alla convergenza fra i due movimenti.  L’AIM viene subito classificata come associazione sovversiva al pari del Black Panther Party ed entra nel mirino dell’FBI, che J. Edgar Hoover (morto nel 1972) ha plasmato come gendarme della maggioranza bianca anglosassone protestante. I federali sono coadiuvati dal BIA (Bureau of Indian Affairs), che, capeggiato da cricche clientelari e autoritarie di nativi, funge da agente del governo per il controllo e la repressione nelle riserve indiane. È proprio il malcontento contro le vessazioni dei rappresentanti ufficiali che induce l’AIM a promuovere nel 1973 la più grande rivolta indiana del XX secolo: Wounded Knee II. Circa 200 indiani Oglala, membri della nazione Sioux, occupano il sito della riserva di Pine Ridge in Sud Dakota, proprio dove ottantatre anni prima, nel 1890, le truppe statunitensi avevano compiuto l’ultimo massacro di nativi (Wounded Knee I). la rivendicazione è, sulla carta, assai poco radicale: si chiede il rispetto dei trattati e un contatto  diretto con il governo, che esautori gli odiati rappresentanti. Gli occupanti resistono 71 giorni all’assedio della polizia; in questo frangente si mette in luce il ventinovenne Leonard Peltier, che organizza azioni di supporto ai ribelli. Pur senza esiti pratici significativi, la rivolta costituisce una prova di forza e un esempio per tutte le tribù indiane. Nello stesso anno Marlon Brando non ritira l’Oscar del Padrino per solidarietà con i nativi. Il bilancio delle vittime è relativamente modesto (due attivisti uccisi), ma nel biennio successivo 60 attivisti vengono assassinati uno alla volta, senza dar luogo a indagini; pare evidente che essi siano vittime di una sorta di squadrone della morte dotato di ampie coperture. 


È in questo contesto di vendetta e di autodifesa che si verifica l’«incidente di Oglala» del 1975. Due agenti federali entrati nella riserva di Pine Ridge per arrestare un piccolo delinquente – è la spiegazione fornita dall’FBI – vengono bersagliati da un gruppo di nativi a colpi di arma da fuoco. Nella sparatoria restano uccisi, oltre ai due agenti, anche un attivista dell’AIM. Prima stortura giudiziaria: per la morte dell’indiano non si indaga, mentre per quella dei federali vengono incriminati tre nativi fra cui Peltier. Questi fugge in Canada; gli altri due vengono processati e assolti. Seconda aberrazione: estradato in Usa, Peltier è processato separatamente in base allo stesso materiale probatorio, ma da una giuria diversa, ed è condannato. Nessuno testimonia di averlo visto uccidere; perfino la testimonianza in base alla quale gli Usa avevano ottenuto l’estradizione viene ritirata, ma il tribunale non consente alla difesa di utilizzare questa circostanza.  
Nel 1992 venne realizzato il film-inchiesta Incident at Oglala, prodotto da Robert Redford che prestò anche la voce narrante, e diretto da Michael Apted, già allora famoso come regista di Gorky Park e di Gorilla nella nebbia. Recensendo il documentario il Washington Post commentò: «è difficile vedere il film senza concludere che Leonard Peltier è innocente. Solo chi è volutamente fazioso negherebbe che il suo processo sia stato altro che una parodia orchestrata dal governo».
Nella sua lunga prigionia Peltier ha sempre proclamato la propria innocenza, pur affermando di essere presente a Pine Ridge durante i fatti, e ha continuato a battersi per i diritti dei nativi americani, diventando quasi un simbolo e un’icona della loro fiera resistenza. Sperare in un atto di clemenza è d’obbligo, ma il pessimismo è pure giustificato quando si considera che le prigioni statunitensi traboccano di poveri, di afroamericani e – in proporzione al piccolo numero – di indiani. Né maggior fortuna ha avuto il tema della memoria storica: in Usa esiste un grande memoriale della Shoah, ma nessun monumento pubblico che ricordi lo sterminio degli indiani o la schiavitù degli afroamericani.  Da oltre mezzo secolo i Sioux vanno faticosamente realizzando in Sud Dakota un enorme monumento a Cavallo Pazzo, il vincitore del generale Custer. 

 Pasquale Martino     

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 27 giugno 2015     

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