venerdì 5 agosto 2016

I cinquanta anni delle guardie rosse


La Cina era vicina.
Storia e leggenda della rivoluzione culturale


Mezzo secolo dalla rivoluzione culturale, che sconvolse la Cina ed ebbe vasta eco nel mondo: celebrata allora, o guardata con simpatia e interesse; oggi per lo più esecrata. Rimossa a Pechino, dove – a parte la condanna ufficiale – si stenta a trovarne traccia nella memoria e nel discorso pubblico. Si è ancora lontani da una riflessione storiografica spassionata, da un lavoro sistematico su fonti di prima mano poco accessibili agli stessi studiosi cinesi. Quanto a noi, è il caso di ripensare alle proiezioni di quell’evento epocale nella cultura e nei movimenti politici occidentali.
Un primo errore di prospettiva fu vedere la ribellione delle guardie rosse – gli studenti protagonisti del ’66 – come un sviluppo armonico della recente storia della Cina rivoluzionaria guidata da Mao Zedong. La Lunga Marcia del ’34, l’Esercito di Liberazione, la dura guerra antigiapponese che fece della Cina una potenza vincitrice della Seconda guerra mondiale, e infine la nascita della repubblica popolare nel ’49 avevano conferito enorme credito a Mao e ai comunisti cinesi; giornalisti e scrittori ne avevano narrato la vicenda, con una partecipazione pari a quella suscitata dalla guerra di Spagna. Di tutto ciò la «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria» sembrava lineare prosecuzione.

In realtà essa era la risposta al primo fallimento della pianificazione economica, il cosiddetto «Grande balzo in avanti» (1958-60), che tentando di accelerare l’industrializzazione aveva causato una crisi agricola, una catastrofica carestia e la morte per fame di una popolazione quantificabile in alcuni milioni. Di conseguenza Mao era stato messo ai margini, ma nel maggio ‘66 reagiva facendo appello ai giovani: il bersaglio era la nuova “borghesia rossa” nata nel partito e fra gli intellettuali, rappresentata dal presidente della repubblica Liu Shaoqi e dal futuro leader Deng Xiaoping. La rivoluzione culturale viene ufficializzata il 5 agosto, mentre l’azione delle guardie rosse si espande in tutto il paese, scuole e università sono bloccate, numerosi accademici vengono sottoposti a “processi popolari”, a riti di umiliazione, a detenzioni e violenze che produrranno morti e suicidi. La cultura tradizionale – il confucianesimo, le feste, il teatro, l’arte – è investita da una critica radicale in nome di una nuova cultura del popolo e per il popolo. Il movimento diventa autonomo e incontrollabile e genera scontri sanguinosi fra gli stessi studenti. Alla fine sarà l’esercito a intervenire per mettere il freno alle guardie rosse e sancire comunque la vittoria di Mao, la destituzione di Liu e la promozione del maresciallo Lin Biao, acclamato come delfino del Grande Timoniere. Nel ’69 è annunciata la fine della rivoluzione, la cui influenza politica però si protrae nel tempo, passando per la misteriosa e tuttora inspiegata scomparsa di Lin nel ’71, e favorendo il predominio della «banda dei quattro», capeggiata da Jiang Quing moglie di Mao e annientata dopo la morte del presidente nel 1976. E sarà il tramonto di quello che la memorialistica delle vittime ha descritto come un decennio terribile; sarà la rivincita di Deng Xiaoping: la totale inversione di rotta che, salvaguardando l’icona del Grande Timoniere, ne rovescerà la politica facendo della Cina un’economia potente, singolare mix di liberismo economico e dispotismo politico.

La parabola della rivoluzione culturale coincise con il ’68 internazionale, suggestionandolo profondamente (e il cinema, come sempre, ne è testimone: da Godard a Bellocchio, da Antonioni a Bertolucci*). Era l’utopia degli studenti che vanno incontro al popolo contestando le diseguaglianze; era l’immagine della Cina contadina che si libera dall’involuzione burocratica e borghese, imperante nell’Urss, sostituendosi a quest’ultima come baluardo dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Entrarono nell’uso comune parole come dazebao («giornale murale»), aforismi e slogan come «bombardare il quartier generale», «che cento fiori sboccino», «la rivoluzione non è un pranzo di gala». Peraltro la credenza estremistica che il pensiero di Mao fosse il marxismo dei nuovi tempi incoraggiò nella sinistra giovanile europea una deriva dogmatica, fino a qualche esasperazione grottesca come l’esibizione del “libretto rosso” e i matrimoni maoisti (si pensi all’inizio del Caimano di Moretti). E tuttavia anche l’alta cultura si confrontò seriamente con l’incognita Cina; nell’ottobre ’68 una firma prestigiosa della «Gazzetta del Mezzogiorno», Michele Abbate, recensiva su queste colonne La contestazione cinese di Edoarda Masi, novità di Einaudi.
In definitiva quel sommovimento caotico che dette spazio a estesi comportamenti delittuosi non dovrebbe essere descritto unicamente come un grande crimine. È doveroso denunciare la distruzione di vite umane e di opere d’arte. Ma vi furono anche esperienze di solidarietà e di innovazione politico-culturale riconosciute da intellettuali non allineati e tramandatesi sottotraccia fino alla rivolta di piazza Tienamen nel 1989. Del resto dentro l’opaca macchina del partito comunista cinese continuano a generarsi conflitti che ripropongono la critica allo squilibrio sociale crescente in seno al gigante asiatico: il potentissimo Bo Xilai, silurato nel 2012, era accreditato come referente in ascesa dell’ala neo-maoista. In Europa, a colpire nel segno è forse ancora una volta un genere letterario “di massa” come il noir – e il noir scandinavo : Il cinese di Henning Mankel (2008) racconta a suo modo la storia della Cina negli ultimi due secoli, rievoca con bonaria ironia l’infatuazione filocinese nella Svezia degli anni ’70 e apre una finestra sull’attuale lotta per il potere fra gli strateghi dell’espansionismo economico di Pechino nel mondo ex coloniale e i non rassegnati nostalgici della purezza rivoluzionaria perduta.

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 agosto 2016   
 con poche modifiche rispetto al testo stampato

*Jean-Luc Godard, La chinoise, 1967;
Marco Bellocchio, La Cina è vicina, 1967;
Michelangelo Antonioni, Chung Kuo, Cina (1972); 
Bernardo Bertolucci, The dreamers - I sognatori (2003) dove l’iconografia maoista è onnipresente nel Maggio francese del 1968.

Immagini: manifesti della rivoluzione culturale.
La seconda immagine («Il potere politico deve mescolarsi con i lavoratori») e la terza (agricoltori con il libretto rosso) sono tratte dal sito: