La
Cina era vicina.
Storia e leggenda della rivoluzione culturale
Mezzo
secolo dalla rivoluzione culturale, che sconvolse la Cina ed ebbe vasta eco nel
mondo: celebrata allora, o guardata con simpatia e interesse; oggi per lo più
esecrata. Rimossa a Pechino, dove – a parte la condanna ufficiale – si stenta a
trovarne traccia nella memoria e nel discorso pubblico. Si è ancora lontani da
una riflessione storiografica spassionata, da un lavoro sistematico su fonti di
prima mano poco accessibili agli stessi studiosi cinesi. Quanto a noi, è il
caso di ripensare alle proiezioni di quell’evento epocale nella cultura e nei
movimenti politici occidentali.
Un
primo errore di prospettiva fu vedere la ribellione delle guardie rosse – gli
studenti protagonisti del ’66 – come un sviluppo armonico della recente storia
della Cina rivoluzionaria guidata da Mao Zedong. La Lunga Marcia del ’34,
l’Esercito di Liberazione, la dura guerra antigiapponese che fece della Cina
una potenza vincitrice della Seconda guerra mondiale, e infine la nascita della
repubblica popolare nel ’49 avevano conferito enorme credito a Mao e ai
comunisti cinesi; giornalisti e scrittori ne avevano narrato la vicenda, con una
partecipazione pari a quella suscitata dalla guerra di Spagna. Di tutto ciò la «Grande
Rivoluzione Culturale Proletaria» sembrava lineare prosecuzione.
In
realtà essa era la risposta al primo fallimento della pianificazione economica,
il cosiddetto «Grande balzo in avanti» (1958-60), che tentando di accelerare
l’industrializzazione aveva causato una crisi agricola, una catastrofica
carestia e la morte per fame di una popolazione quantificabile in alcuni
milioni. Di conseguenza Mao era stato messo ai margini, ma nel maggio ‘66 reagiva
facendo appello ai giovani: il bersaglio era la nuova “borghesia rossa” nata nel
partito e fra gli intellettuali, rappresentata dal presidente della repubblica
Liu Shaoqi e dal futuro leader Deng Xiaoping. La rivoluzione culturale viene
ufficializzata il 5 agosto, mentre l’azione delle guardie rosse si espande in
tutto il paese, scuole e università sono bloccate, numerosi accademici vengono
sottoposti a “processi popolari”, a riti di umiliazione, a detenzioni e
violenze che produrranno morti e suicidi. La cultura tradizionale – il
confucianesimo, le feste, il teatro, l’arte – è investita da una critica
radicale in nome di una nuova cultura del popolo e per il popolo. Il movimento
diventa autonomo e incontrollabile e genera scontri sanguinosi fra gli stessi
studenti. Alla fine sarà l’esercito a intervenire per mettere il freno alle
guardie rosse e sancire comunque la vittoria di Mao, la destituzione di Liu e la
promozione del maresciallo Lin Biao, acclamato come delfino del Grande
Timoniere. Nel ’69 è annunciata la fine della rivoluzione, la cui influenza
politica però si protrae nel tempo, passando per la misteriosa e tuttora
inspiegata scomparsa di Lin nel ’71, e favorendo il predominio della «banda dei
quattro», capeggiata da Jiang Quing moglie di Mao e annientata dopo la morte del
presidente nel 1976. E sarà il tramonto di quello che la memorialistica delle
vittime ha descritto come un decennio terribile; sarà la rivincita di Deng
Xiaoping: la totale inversione di rotta che, salvaguardando l’icona del Grande
Timoniere, ne rovescerà la politica facendo della Cina un’economia potente, singolare
mix di liberismo economico e dispotismo politico.
La
parabola della rivoluzione culturale coincise con il ’68 internazionale,
suggestionandolo profondamente (e il cinema, come sempre, ne è testimone: da Godard
a Bellocchio, da Antonioni a Bertolucci*). Era l’utopia degli studenti che vanno
incontro al popolo contestando le diseguaglianze; era l’immagine della Cina
contadina che si libera dall’involuzione burocratica e borghese, imperante
nell’Urss, sostituendosi a quest’ultima come baluardo dei movimenti di
liberazione del Terzo Mondo. Entrarono nell’uso comune parole come dazebao («giornale murale»), aforismi e
slogan come «bombardare il quartier generale», «che cento fiori sboccino», «la
rivoluzione non è un pranzo di gala». Peraltro la credenza estremistica che il
pensiero di Mao fosse il marxismo dei nuovi tempi incoraggiò nella sinistra
giovanile europea una deriva dogmatica, fino a qualche esasperazione grottesca come
l’esibizione del “libretto rosso” e i matrimoni maoisti (si pensi all’inizio
del Caimano di Moretti). E tuttavia
anche l’alta cultura si confrontò seriamente con l’incognita Cina; nell’ottobre
’68 una firma prestigiosa della «Gazzetta del Mezzogiorno», Michele Abbate,
recensiva su queste colonne La
contestazione cinese di Edoarda Masi, novità di Einaudi.
In
definitiva quel sommovimento caotico che dette spazio a estesi comportamenti delittuosi
non dovrebbe essere descritto unicamente come un grande crimine. È doveroso
denunciare la distruzione di vite umane e di opere d’arte. Ma vi furono anche
esperienze di solidarietà e di innovazione politico-culturale riconosciute da
intellettuali non allineati e tramandatesi sottotraccia fino alla rivolta di
piazza Tienamen nel 1989. Del resto dentro l’opaca macchina del partito
comunista cinese continuano a generarsi conflitti che ripropongono la critica allo
squilibrio sociale crescente in seno al gigante asiatico: il potentissimo Bo
Xilai, silurato nel 2012, era accreditato come referente in ascesa dell’ala
neo-maoista. In Europa, a colpire nel segno è forse ancora una volta un genere
letterario “di massa” come il noir – e il noir scandinavo : Il cinese di Henning Mankel (2008)
racconta a suo modo la storia della Cina negli ultimi due secoli, rievoca con
bonaria ironia l’infatuazione filocinese nella Svezia degli anni ’70 e apre una
finestra sull’attuale lotta per il potere fra gli strateghi dell’espansionismo economico
di Pechino nel mondo ex coloniale e i non rassegnati nostalgici della purezza
rivoluzionaria perduta.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 5 agosto 2016
con poche modifiche rispetto al testo stampato
*Jean-Luc
Godard, La chinoise, 1967;
Marco
Bellocchio, La Cina è vicina, 1967;
Michelangelo
Antonioni, Chung Kuo, Cina (1972);
Bernardo
Bertolucci, The dreamers - I sognatori
(2003) dove l’iconografia maoista è onnipresente nel Maggio francese del 1968.
Immagini: manifesti della rivoluzione culturale.
La seconda immagine («Il potere politico deve mescolarsi con i lavoratori») e la terza (agricoltori con il libretto rosso) sono tratte dal sito: