Memorie e storia dello sterminio
I
triangoli, cuciti sulla casacca, erano di vari colori. La gamma cromatica
tristemente nota riflette l’enormità del sistema concentrazionario nazista. Una
rete capillare di campi e sottocampi, disseminati fra l’Alsazia e i paesi
baltici, moltiplicata a dismisura durante la guerra, quando il Nuovo ordine
europeo annunciato da Hitler sembrò prendere forma. Un continente all’ombra
della croce uncinata, dalla Norvegia alla Grecia. Migliaia di vagoni ferroviari
che corrono per tutta l’Europa gravitando verso il centro, per sorreggere lo
sforzo immane dell’economia di guerra, per trasportare tutto il trasportabile,
dalle materie prime agli esseri umani, verso la fornace che si alimenta di
ininterrotto saccheggio. Una catena di violenza che colpisce tutte le masse
umane utilizzabili e le destina senza soluzione di continuità a deportazione,
internamento, lavoro forzato e morte. Nei gironi infernali del lager quelli a
cui va meno peggio sono i prigionieri di guerra, purché non siano sovietici:
ché in tal caso vengono schiavizzati e uccisi, perché bolscevichi e perché
razza slava, anch’essa inferiore. Qualche possibilità di sopravvivere (ma fino
a quando?) ce l’hanno i triangoli verdi e neri, internati per crimini comuni o
«asociali», fra i quali vengono scelti molti kapò. Nel girone più insondabile e
oscuro sprofondano le stelle gialle, che hanno zero probabilità di cavarsela.
Eppure neanche la «soluzione finale» riservata agli ebrei – la mala razza per
eccellenza, con gli zingari (ma questi meno pericolosi di quelli, perché meno
numerosi e non integrati) – sarebbe stata messa in atto senza la condizione
eccezionale di incontrastato dominio ottenuta dai nazisti grazie alla conquista
dell’Est europeo. Ferma restando la profezia annientatrice, che, come
sottolinea Raul Hilberg, si incarnava primariamente nella volontà di Hitler.
Occorre perciò, nella persistenza della memoria, dare valore alla storia: non
smettere di guardare alla Seconda guerra mondiale come al tragico culmine del
XX secolo, in cui sono precipitate tutte le contraddizioni e si è delineata
quella “unicità” di una organizzazione scientifica dello sterminio su scala
industriale, che non a caso si impone nello stravolgimento morale del conflitto
più devastante di sempre (60-70 milioni di vittime in sei anni, in maggioranza
civili). La «distruzione degli ebrei d’Europa» (ancora Hilberg, che così
intitola il suo ineguagliato saggio storiografico) si determina non tanto come
apice di un processo diacronico – un destino metastorico di persecuzione –
quanto come risultato intenzionale e catastrofico di una dimensione sincronica:
i fascismi, il razzismo hitleriano, la guerra. La cosa giusta è dunque
confrontare e far dialogare le memorie nello spazio pubblico.
Un
prezioso contributo alla memoria dei «triangoli rossi» – gli oppositori
politici, i resistenti – è venuto dallo scrittore triestino-sloveno Boris
Pahor, il cui capolavoro, Necropoli
(1967; Fazi, 2008), è a nostro parere il libro che più merita di essere
accostato a Se questo è un uomo di
Primo Levi. Arrestato a Trieste nel 1944 come membro del Fronte di liberazione
sloveno, fu deportato a Dachau, Natzweiler, Dora-Mittelbau e a Bergen Belsen.
Vide i forni crematori funzionare a pieno regime. Si salvò anche perché venne
scelto come infermiere. Con il suo libro più famoso Pahor ha rievocato la terrificante
odissea, ma oggi, instancabile testimone a 102 anni, torna a parlarne in un
agile volumetto, Triangoli rossi
(Bompiani, 2015); dove stupiscono ancora la qualità narrativa e la delicatezza
poetica che ripercorre l’orrore con tratti sobri e senza farsi mancare un filo
di ironia. Ma il libro è anche una rivendicazione di orgoglio del triangolo
rosso: di quanti, nel loro piccolo ma con tutte le forze di cui disponevano,
hanno alzato nel Vecchio Continente la bandiera della Resistenza. Concorrendo
alla vittoria contro il nazifascismo. Già protagonista della prima stagione di
racconto del lager, con l’opera capostipite, La specie umana di Robert Antelme (1947) e con il film Notte e nebbia di Alain Resnais (1956;
NN, Nacht und Nebel: così erano
designati dai tedeschi i prigionieri politici), la generazione internazionale
dei resistenti e dei partigiani è stata consacrata in un libro memorabile come
le Lettere di condannati a morte della
Resistenza europea (Einaudi 1954, con prefazione di Thomas Mann), che
raccoglie testimonianze da 18 paesi sotto il tallone nazista. Anche questa leva
di “degeneri” per scelta – ci ricorda Pahor – ha conosciuto le camere a gas,
oltre che le celle di tortura della Gestapo. Non senza aver continuato a
lottare: per esempio sabotando nel lager di Dora-Mittelbau i missili che
Wernher von Braun faceva partire contro l’Inghilterra. È la generazione degli
antifascisti pugliesi Filippo D’Agostino, Alfredo Violante, Vincenzo Gigante, inceneriti
ad Hartheim, a Mauthausen, alla Risiera di San Sabba. Ma il libro contiene
altri episodi rivelatori. Eccone uno. A Struthof alcuni deportati istriani
protestano perché una SS li insulta come «zingari», ma il milite li picchia urlando:
«Italiani e zingari, è lo stesso!». Nella ossessione nazionalsocialista gli
italiani – già traditori, fannulloni e falsi ariani – scivolano facilmente
verso il fondo dell’abisso.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 27 gennaio 2016