giovedì 13 febbraio 2014

Andreotti

Così il divo Giulio amministrò il caos

Fino alla caduta del Muro di Berlino
L’“antibiografia” di Andreotti firmata da Gambino per Manni


Non è un instant book, l’«antibiografia del Divo Giulio» – così il sottotitolo – scritta da Michele Gambino (Andreotti il Papa nero, Piero Manni, San Cesario di Lecce, 2013, pp. 216, euro 16). Esce quasi simultaneamente alla morte del novantaquattrenne ex primo ministro, ma l’idea nacque – racconta l’autore – quando il giovane giornalista allievo di Giuseppe Fava (il direttore de I Siciliani ucciso a Catania dalla mafia nel 1984) ebbe per la prima volta la percezione dell’inattaccabile influenza di Giulio Andreotti in Sicilia. Lunga gestazione per questo accattivante racconto di mezzo secolo di vita nazionale sub specie andreottiana (fino al 1992, quando la mancata elezione a capo dello Stato determinò il pensionamento del pupillo di De Gasperi). Gambino – che, ricordiamolo, ha vinto nel 1996 il premio «Ilaria Alpi» con i reportage dall’Afghanistan talebano – non rimarca le ovvie differenze fra Andreotti e Berlusconi; se mai si diverte a scoprire le analogie fra le corti dei due principi (non inappropriato il parallelo Evangelisti / Letta, Vitalone / Previti, Ciarrapico / Verdini). Ma il libro non tratta del recente ventennio, se non per analizzare le carte dei processi, che riguardano però fatti passati. Un’analisi che diventa quasi preponderante: perché le motivazioni delle sentenze, sia quando riconoscono la responsabilità dell’imputato Andreotti, pur dichiarando prescritto il reato (la sentenza d’appello del 2001, confermata dalla Cassazione, accerta i legami del leader democristiano con la mafia fino al 1980), sia quando lo assolvono (per la condotta successiva a quella data, nonché, nel processo di Perugia, per l’omicidio del giornalista Pecorelli), scrivono in realtà delle straordinarie pagine di storia. Spesso i giudici sono degli storici, anche – e forse soprattutto – quando non emettono verdetti di colpevolezza. Pure l’ «Io so» di Pasolini nasce dal rigore di chi indaga il senso delle cose con gli strumenti intellettuali, anche se non raggiunge prove giudiziarie. E la storia si dipana sotto il segno della complessità: come ebbe a dire – ricorda Gambino – il giudice Giovanni Falcone, che, alla sua domanda se Andreotti fosse davvero Belzebù (il nomignolo non innocente affibbiatogli da Craxi), rispose che «certe domande erano sbagliate, perché semplificavano argomenti complessi». Risposta simile a quella data nel film di Sorrentino (Il Divo, 2008) dal personaggio di Andreotti – un memorabile Toni Servillo – a un Eugenio Scalfari che lo incalza con l’elenco degli intrighi in cui il suo nome è coinvolto: appunto la «complessità». Da questo agile profilo biografico, che poco concede alla dietrologia, emerge comunque la presenza cruciale del politico romano nella instabile intersezione fra i poteri “esterni” che hanno condizionato lo Stato italiano: Cosa nostra, gli Americani e il Vaticano. Una presenza dialogante, negoziatrice, non gregaria e non conflittuale, quella di un “papa nero” che – preferibilmente fuori della ribalta – si pone come mediatore di un vasto magma di forze; che tenta di amministrare il caos con la necessaria dose di cinismo bene espressa dai suoi celebri aforismi («meglio tirare a campare che tirare le cuoia») e con la granitica convinzione che quanti si illudono di contrastare il disordine senza scendere a patti con esso (i Moro, i Dalla Chiesa, gli Ambrosoli) sono gente che «se la va a cercare».
Citando il documentato studio di Aldo Giannuli, storico e consulente della commissione stragi (Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro, Tropea editore, Milano, 2011), Gambino attinge agli archivi che comprovano il ruolo di Andreotti come referente politico dei settori più opachi dei servizi segreti. Il paradosso della guerra fredda era che, dentro quell’equilibrio mondiale, un uomo di destra come Andreotti risultasse il miglior garante (lui, non Moro) della sostenibilità di un governo democristiano appoggiato dai comunisti; che un politico di provata fede atlantica potesse compiere spregiudicate aperture al mondo arabo (non tanto per amore della causa palestinese, quanto, forse, per la freddezza vaticana verso Israele); che un anticomunista potesse sperare nella mancata unificazione della Germania. Perché questa sarebbe stata la vera fine di quell’equilibrio di contrasti grazie al quale il politico romano fu «maestro e donno». E non è un caso che la sua caduta sia coincisa con la fine dell’impero sovietico; perché questa fine inverava cose impensabili come la vittoria di Mandela in Sudafrica, la rivelazione della rete Gladio in Italia, e anche la profezia pasoliniana del «processo alla Dc» sia pure celebrato in un tribunale di giustizia e non nella pubblica piazza.
Pasquale Martino

pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» 28 maggio 2013