mercoledì 19 febbraio 2014

Salvatore Domenico Lugarà

Filologo, intellettuale, maestro


Ho incontrato per la prima volta Salvatore Lugarà nel settembre del 1983, quando era già un rinomato docente del Socrate, il liceo presso il quale prendevo allora servizio. Mi impressionò la familiarità con cui si rivolse al nuovo arrivato accogliendolo nell’estraneo ambiente di lavoro. Di quella prima conversazione non rammento gli argomenti precisi: mi rimane impresso lo stato d’animo di chi parla con una persona che gli sembri di conoscere da molto tempo, alla quale lo avvicini un’istintiva e cordiale sintonia.

Lugarà aveva allora 42 anni; era arrivato al Socrate nel 1976, poco dopo la nascita del «secondo liceo classico» di Bari.
Nato nel 1941 a Gioia Tauro, aveva compiuto gli studi superiori a Palmi, conseguendo la maturità classica nel 1959: il suo romanzo, Tutto giusto, rievoca con vivacità appassionata gli anni belli della formazione etica e culturale. In questo libro sofferto Lugarà non dissimula il rammarico per l’eccessiva severità di comportamento della famiglia e specie del padre, inflessibile lavoratore; ma riconosce ai genitori i sacrifici affrontati perché i figli potessero studiare, a cominciare da lui stesso, il primogenito. Dopo il diploma, scartata la possibile alternativa di Messina, si trasferisce a Bari con i familiari per iscriversi all’Università. Si lascia alle spalle l’amata Calabria. Non vi tornerà quasi piú, o lo farà molto raramente. Solo negli ultimi anni di vita i rientri nella terra patria diverranno piú frequenti, quando riallaccerà a Palmi i legami con il gruppo dei compagni di scuola da lui ritratti nel romanzo.
Laureatosi in lettere classiche nel 1965, incomincia subito a insegnare, prima come supplente, a Ostuni, poi con incarico annuale e triennale, a Monopoli; qui fa la conoscenza della collega Teresa De Benedictis, docente delle medesime materie, che diventerà sua moglie e diletta compagna. Nel frattempo consegue l’abilitazione ed entra in ruolo dal 1971, insegnando al liceo classico Sylos di Bitonto e, per cinque anni, al Casardi di Barletta. Infine, trentacinquenne, ottiene il trasferimento al Socrate, dove resterà diciotto anni, fino al 1994, lasciandovi un segno incisivo e duraturo. Si può dire, anzi, che del Socrate egli sia stato uno dei padri fondatori, sia per il prestigio del suo insegnamento che conferiva qualità e spessore al neonato liceo, sia perché fu attivamente impegnato nella lotta per dotare la nuova scuola delle indispensabili strutture. Si ricorda il giorno in cui, seguito dai suoi alunni, spostò i banchi dalla malmessa sede provvisoria fino al vicino immobile di via Guido Dorso, la nuova sede non ancora consegnata dal Comune alla scuola; e lí si mise a fare lezione.

I giudizi sulla sua figura di docente, da parte dei tanti allievi – alcuni di essi, oggi, a loro volta docenti del Socrate – convergono nell’evocare binomi convenientemente antitetici: autorevolezza e umanità; severità e dolcezza; serietà e generosità. Tutti ricordano le sue lezioni sempre interessanti, spesso divertenti, ricche di spirito e di ironia. Austero e paterno al tempo stesso, era «un grande professore» – tale è la definizione che gli si adatta – capace di trasmettere la passione per la letteratura. Adorato dalle sue classi, serbava fedeltà a un codice deontologico rigoroso e inderogabile. Un termine abusato, «professionalità» (e nel suo caso si trattava di professionalità altissima), sembra riduttivo e non rende pienamente giustizia all’ingente magistero di Lugarà. Egli amava definirsi un «artigiano»: in questo termine c’è tutta la sua complessità umana e professionale; la sua riservatezza, il suo minimalismo ironico e sornione, proprio di chi è pienamente conscio e pago di un non comune valore e non ha bisogno di ostentarlo; odiava l’ostentazione sebbene la sua personalità forte lo caratterizzasse come un protagonista. Era un artigiano, cioè un lavoratore e, insieme, un detentore di una raffinata tecnica: di un saper fare, oltre che di un sapere; ma un saper fare libero, creativo, indipendente.
Al primo posto c’erano per lui la serietà e il rigore cognitivo. Nella prefazione a Baden, il libro di versioni greche da lui pubblicato (Laterza, Bari, 1996), in un discorso apparentemente “tecnico” e puramente esplicativo, capita di leggere notazioni di energica efficacia come le seguenti: «[quella che si richiede è] una visione didatticamente chiara ed accurata dei vari fenomeni, del tutto coerente con l’uso che di questo volume dovrà essere fatto nella dura quotidianità della scuola, e lontana, per quanto possibile, da deleterie approssimazioni e facilonerie»; «l’impegnativo lavoro necessario per impadronirsi decentemente dei meccanismi della traduzione dal greco…». Lo studio è da lui inteso come un duro lavoro quotidiano, i cui primi nemici sono la superficialità e il pressapochismo. Come ogni artigiano consapevole, peraltro, e come ogni lavoratore professionale, Lugarà era ben cosciente della sua funzione produttiva e sociale, nonché dei suoi diritti. La materia sindacale stimolava in lui una partecipazione attiva, ragionata e dialogante. Dette un notevole contributo personale di discussione e di elaborazione negli anni 1986-88, allorché s’andò sviluppando un impetuoso movimento rivendicativo degli insegnanti che approdò a qualche risultato non da poco.
Anni che coincisero con la sua malattia e convalescenza. L’infarto di Lugarà fu un episodio memorabile nella storia del Socrate. Novembre 1986: appena entrato in aula, durante la prima ora, si rende contro che un grave malore lo sta attaccando; davanti agli occhi esterrefatti degli alunni lascia la classe, cosa mai prima accaduta, e va in presidenza, dove chiede al capo d’istituto, Giorgio Coluccia, di essere condotto immediatamente in ospedale. Il preside lo accompagna personalmente con la sua automobile, e solo questa tempestività gli salva la vita. La diagnosi medica infatti descrive le sue condizioni come «gravissime».
Ma Lugarà supera la crisi, si riprende. Durante i mesi di assenza si consulta con la sua giovane supplente: ne nasce un’amicizia profonda e duratura, tanto che Salvatore sarà il testimone di nozze della collega (anche lei, oggi, docente del Socrate). Trascorre la convalescenza raccogliendosi nello studio e nella scrittura; redige un promemoria sui problemi sindacali dei docenti: la coscienza professionale e l’innata ripulsa delle ingiustizie lo avvicinano all’idea della rivolta contro il misero trattamento della categoria, alla lotta dura dei comitati di base e dell’appena nata costola dei Cobas, la Gilda, proprio per l’ideale suggestivo di antica “corporazione”, di maestria artistica e di alta responsabilità professionale. Ma Lugarà è troppo “anarchico” per affiliarsi a un’organizzazione, per lasciarsi inquadrare: radicalmente critico, è insofferente verso tutto ciò che tende a configurarsi come gruppo di potere, come nuova gerarchia.

Nello stesso periodo incomincia a scrivere il suo romanzo autobiografico, che pubblicherà nel 1990 (Tutto giusto, Milella, Lecce), con lo pseudonimo «Tore De Vincenzo» (Vincenzo era il nome di suo padre). Si distinguono in lui ancora una volta il riserbo e il pudore: questo lavoro di scrittura intima è inteso quasi come un’evasione, un’applicazione a latere rispetto all’impegno professionale; qui egli si narra e si confessa liberamente, sia pure sotto altro nome. Negli anni successivi, appaiono l’uno dopo l’altro i suoi lavori critici e filologici. Oltre al libro di versioni già citato, pubblica i commenti a due orazioni di Lisia, Per l’uccisione di Eratostene (Loffredo, Napoli, 1992) e Per Mantiteo (ivi, 1996). Ammirevoli sono il rigore, la chiarezza e la sobrietà degli apparati di note e degli approfondimenti di carattere filologico, storico, biografico che accompagnano il testo. Prepara inoltre l’abbozzo di una grammatica greca che non potrà condurre a termine: a quattordici anni dal primo attacco di cuore, un secondo e fulmineo malore lo porterà via, nel 2000, a soli 59 anni di età. Curata e sviluppata da valorosi colleghi, la grammatica uscirà postuma presso Cappelli (Bologna, 2009). Restano altri scritti e abbozzi inediti, ancora da esplorare.
La competenza linguistica di Lugarà era senza alcun dubbio eccezionale. Si trattava di un’assoluta padronanza, che gli consentiva non solo di “parlare” in greco e in latino, ma anche, per esempio, di scomporre e sezionare con alcuni studenti un passo di Tucidide particolarmente complicato – come gli sentii fare una volta – e concludere con meditato convincimento che in quel caso nemmeno il grande scrittore aveva chiaro che cosa intendesse dire.
Si sarebbe indotti a supporre che un filologo di tale perizia ed erudizione si sia laureato con una tesi su un frammento controverso di un poeta raro. Niente affatto: Lugarà si laurea discutendo una tesi di storia delle religioni, relatore Ambrogio Donini; l’argomento verte su Martin Lutero. Salvatore univa la preparazione filologica a una visione culturale di ampio respiro, da intenditore della letteratura moderna, da amante dell’arte e della musica. Il tema Lutero non cesserà di alimentare il suo interesse: nel 1991, nel numero 1 dei «Quaderni del Socrate», pubblica un breve scritto sul riformatore tedesco, in cui si sofferma sulle parole sarcastiche da lui rivolte al re Enrico VIII, le stesse riservate all’imperatore Claudio nella Apokolokyntosis di Seneca, aut regem aut fatuum nasci oportet, «si nasce o re o scemo». E qui, preso atto di quanto piacesse a Salvatore l’irrisione del potere, è anche il caso di accennare con discrezione al suo inquieto rapporto con la religiosità: agnostico, disponibile alla ricerca; anticlericale, amico di religiosi intelligenti. Soprattutto, difensore del libero pensiero, diffidente verso tutte le strutture che si configurano in maniera chiesastica, come ideologie opprimenti, sul piano culturale e su quello politico, come le due “chiese” che negli anni Cinquanta – l’epoca della sua formazione – vede contrapporsi, «chierico rosso, o nero», per dirla con Montale. Ma nel romanzo racconta la sua presa di posizione di studente a sostegno di un professore del liceo di Palmi, perseguitato dalle autorità scolastiche per le sue idee comuniste (che, pure, erano vigorosamente discusse e contestate da quel giovane che lo difendeva).
È assai significativo che l’umanità e la dolcezza di Lugarà si rivelassero in modo disteso anzitutto con gli studenti. Nei rapporti umani si definiva un orso o un istrice; era orgoglioso, insofferente, tanto incline a mettere in tavola generosamente la sua cordialità quanto pronto ad adombrarsi di fronte a comportamenti che riteneva sbagliati o ingiusti nei suoi confronti. Con lui ci si poteva facilmente scontrare. Ricordo quando stroncò immediatamente, con gelida ira, una battuta certo innocente ma stupida che riproponeva lo stereotipo di una Calabria identificata con la criminalità.
Dopo quasi un ventennio, il «grande professore» lasciò la scuola che aveva fatto nascere, per trasferirsi presso il liceo Orazio Flacco dove prestò servizio negli ultimi anni; una scelta favorita dalla vicinanza di questo istituto alla sua abitazione, ma originata anche da disarmonie e logoramenti prodottisi nelle relazioni di lavoro. Un’incrinatura che non si poté o non si volle sanare. Restò l’amaro in bocca per questo divorzio: quello di un padre che si staccava dalla creatura; o della creatura che non badava al distacco del padre.
È anche vero però che, istituendo il certamen a lui intitolato e valorizzando con intelligenza il lascito di un non dimenticato insegnamento, il Socrate ha saputo tributare il riconoscimento dovuto a questo intellettuale e professore, sua nobile guida nell’età eroica della nascita e della crescita.

Pasquale Martino
2011

http://www.liceosocratebari.gov.it/Download/risorse/Agon/salvatore_lugara.pdf