Storia
di un Sessantotto sequestrato
Praga così vicina, così lontana e sola
21 agosto 1968 a Brno (dal sito extrastory.cz) |
La
ribellione del ’68 nacque in molte parti del mondo, contemporaneamente, secondo
dinamiche simili ma con obiettivi in parte diversi, e con durate differenti. C’è
il “lungo Sessantotto” italiano e c’è il ’68 breve del maggio francese, quasi
una insurrezione generale contro il sistema. E c’e n’è un altro, che interessò
i paesi comunisti dell’Est europeo: il «Sessantotto sequestrato», così lo
definisce il titolo di un libro uscito in occasione di questo Cinquantennale. Curato
e introdotto da Guido Crainz, il denso volumetto (Donzelli, Roma) raccoglie
saggi di vari autori dedicati a diverse realtà nazionali, Cecoslovacchia,
Polonia, Jugoslavia. Una pagina di storia “sequestrata” come in una dimensione in
disparte, sia per volontà dei regimi interni, sia (nel caso della Polonia e
soprattutto della Cecoslovacchia) per le pressioni e l’intervento dell’Urss a
difesa del monolitismo, pilastro del proprio impero nella guerra fredda. Sequestrata,
anche perché ignorata o sottovalutata dai “movimenti fratelli” nel resto del mondo,
e sostanzialmente snobbata dalla sinistra europea. Eppure proprio l’effervescente
e drammatica «primavera di Praga» fu un evento capitale di quell’anno
memorabile.
Tutto
ha inizio qualche tempo prima, in un paese binazionale (oggi diviso fra Cechia
e Slovacchia), culturalmente e industrialmente avanzato, che dal 1960 si è
voluto fregiare – unico fra i satelliti dell’Urss – del titolo di repubblica
«socialista»; in cui, cioè, il socialismo non è in via di costruzione ma si dà
per realizzato. E precisamente l’idea di un socialismo proprio e autonomo anima
il ’68 praghese, desideroso di innestare sulle conquiste sociali il tema fino a quel momento eluso dal mondo
sovietico: la libertà e la democrazia. La rivolta antiautoritaria ha come punta
di diamante gli studenti universitari, nell’autunno 1967 – e ciò accomuna il movimento praghese alle
ribellioni studentesche di tutto il mondo – , conquista gli intellettuali
animando un dibattito culturale che esalta vivaci tradizioni, e trova un solido
sostegno nello stesso Partito comunista, in cui la vecchia e screditata
direzione di Antonin Novotny (che ha scagliato la polizia contro gli studenti e
ha vietato la influente rivista Literární noviny) viene sostituita a
gennaio del ’68 da una nuova maggioranza guidata dallo slovacco Alexander
Dubcek.
Fiorisce la primavera di Praga, giornali e riviste si moltiplicano e vanno a ruba, anche gli operai partecipano e si discute di forme di autonomia e di direzione consiliare ispirate per certi versi alla «autogestione» iugoslava. L’economista Ota Sik elabora il «nuovo corso» dell’economia sburocratizzata che dovrà coniugarsi con un rinnovato ruolo di avanguardia del partito di Dubcek, di cui non si contesta il monopolio. La prudenza è necessaria, se si ricorda quanto sia costata la “fuga in avanti” dell’Ungheria nel 1956, sanguinosamente schiacciata dai carri armati russi. Ma anche ora, a Praga, i conservatori reagiscono e a Mosca i sovietici sono nervosi: a fine giugno il Manifesto delle Duemila parole, con cui gli intellettuali cechi affermano l’irreversibilità del nuovo corso, suscita forti contrasti e convince la dirigenza del Pcus capeggiata da Leonid Breznev a preparare l’intervento militare; l’indipendenza praghese potrebbe essere il principio di uno sgretolamento. Il 21 agosto le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia, in coincidenza con la celebrazione del congresso del partito comunista cecoslovacco che si svolge ugualmente nella clandestinità. La popolazione protesta in modo per lo più nonviolento, con grandi raduni in piazza San Venceslao, con l’ironia e le scritte murali; ai giovanissimi soldati sovietici convinti di essere lì per “combattere il fascismo” i manifestanti mostrano le tessere di iscritti al partito comunista cecoslovacco (Umberto Eco è lì e racconta questi fatti). Tuttavia la normalizzazione ha la meglio, nonostante le tragiche code dei suicidi di protesta di Jan Palach e Jan Zajic. Dubcek viene rimosso e umiliato (verrà riabilitato dopo l’’89).
Fiorisce la primavera di Praga, giornali e riviste si moltiplicano e vanno a ruba, anche gli operai partecipano e si discute di forme di autonomia e di direzione consiliare ispirate per certi versi alla «autogestione» iugoslava. L’economista Ota Sik elabora il «nuovo corso» dell’economia sburocratizzata che dovrà coniugarsi con un rinnovato ruolo di avanguardia del partito di Dubcek, di cui non si contesta il monopolio. La prudenza è necessaria, se si ricorda quanto sia costata la “fuga in avanti” dell’Ungheria nel 1956, sanguinosamente schiacciata dai carri armati russi. Ma anche ora, a Praga, i conservatori reagiscono e a Mosca i sovietici sono nervosi: a fine giugno il Manifesto delle Duemila parole, con cui gli intellettuali cechi affermano l’irreversibilità del nuovo corso, suscita forti contrasti e convince la dirigenza del Pcus capeggiata da Leonid Breznev a preparare l’intervento militare; l’indipendenza praghese potrebbe essere il principio di uno sgretolamento. Il 21 agosto le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia, in coincidenza con la celebrazione del congresso del partito comunista cecoslovacco che si svolge ugualmente nella clandestinità. La popolazione protesta in modo per lo più nonviolento, con grandi raduni in piazza San Venceslao, con l’ironia e le scritte murali; ai giovanissimi soldati sovietici convinti di essere lì per “combattere il fascismo” i manifestanti mostrano le tessere di iscritti al partito comunista cecoslovacco (Umberto Eco è lì e racconta questi fatti). Tuttavia la normalizzazione ha la meglio, nonostante le tragiche code dei suicidi di protesta di Jan Palach e Jan Zajic. Dubcek viene rimosso e umiliato (verrà riabilitato dopo l’’89).
Per
l’Urss è una vittoria di Pirro. La fine violenta del «socialismo dal volto
umano», replica della repressione in Ungheria di dodici anni prima, è la prova definitiva che il sistema
sovietico non è riformabile. Anche se questo segno dei tempi non viene colto
immediatamente a sinistra. Nell’ambito anticomunista la critica è scontata, ma
la condanna americana è sempre rispettosa della sfera di influenza altrui e
pretende rispetto per la propria (Cile docet).
Fra i paesi socialisti, Cuba e Vietnam del Nord approvano l’intervento, la Cina
condanna egualmente Breznev e Dubcek, solo la Iugoslavia appoggia Praga. Il Pci
si dissocia da Mosca, non senza resistenze interne, e Berlinguer incomincia il
suo cammino di critica all’Urss, irto di difficoltà e contraccolpi. Il Psi dà
spazio alla opposizione praghese e candida al parlamento europeo Jiri Pelikan,
ex direttore della televisione cecoslovacca. Nell’universo della nuova
sinistra, che non ama l’Urss, la simpatia per la primavera di Praga è però tiepida:
a Ovest il sogno non è di riformare con la democrazia un socialismo che c’è, ma
di conquistare con la rivoluzione un socialismo che non c’è. Solo Rudi
Dutskche, leader del movimento studentesco tedesco, fraternizza apertamente con
i giovani cechi. In Italia fa eccezione «il Manifesto», la rivista eretica
diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, che nel 1969 con l’editoriale Praga è sola auspica la sconfitta interna dei regimi sovietici a opera
delle forze progressiste di quei paesi. «il Manifesto» è stampato da Dedalo a
Bari, dove a dicembre Laterza pubblica uno dei suoi libri sul ’68 che escono
con riuscito tempismo: Praga 1968, le
idee del nuovo corso, illuminante raccolta di saggi i cui curatori si
firmano con lo pseudonimo collettivo di Jan Cech.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 8 agosto 2018