venerdì 21 luglio 2017

Memorie di un prigioniero di guerra


Giovanni Tedone in Etiopia (1896-97) 
Una storia e un libro dimenticati

1937, ottanta anni fa: il regime fascista celebra con una spietata repressione in Africa Orientale i fasti dell’Impero proclamato un anno prima; in Italia muore un semisconosciuto sessantacinquenne, Giovanni Tedone. È nato a Ruvo di Puglia nel 1872 e avrebbe aspirato alla sua parte di fama se non fosse stato messo in ombra dal fratello maggiore, il ben più noto Orazio, illustre uomo di scienza cui è intitolato il liceo di Ruvo. Giovanni invece intraprende la carriera militare; ma ciò fa di lui, inaspettatamente, il protagonista di due storie non comuni.
La storia-madre è davvero straordinaria: in qualità di sergente dei bersaglieri, Tedone partecipa alla battaglia di Adua il 1° marzo 1896 contro l’armata del negus Menelik II, sopravvive alla carneficina (oltre seimila soldati uccisi in un solo giorno, il più grave disastro dell’esercito italiano prima di Caporetto) e resta prigioniero in Etiopia per un anno. La storia-figlia è la vicenda del libro che narra la drammatica esperienza. Le memorie del sergente ruvese (nel frattempo diventato maresciallo) attendono quasi vent’anni prima di andare in stampa, nel 1915, per le edizioni del «Sottufficiale Italiano», col titolo I ricordi di un prigioniero di Menelik. L’Italia sta entrando nella Grande Guerra, Tedone è addetto allo stato maggiore di Cadorna e ciò facilita forse la pubblicazione del libro, recensito bene dallo scrittore Antonio Baldini. Tuttavia la memoria di una sconfitta risulta poco interessante: l’Italia si è rifatta prendendosi la Libia e ora marcia verso Trento e Trieste. Anche la ristampa del 1922 ha scarso successo. Di queste prime edizioni il Sistema bibliotecario nazionale non censisce oggi più di una dozzina di copie nelle biblioteche italiane (nessuna in Puglia). 
Neppure la conquista dell’Etiopia nel 1936 fa uscire il volume dal dimenticatoio. Tedone si spegne ma la storia del libro continua. Esso è riscoperto da un intellettuale di genio, il napoletano Nino Sansone (1915-1968), originario di Ostuni, giornalista de «l’Unità» e figura singolare della cultura meridionale e nazionale. A Bari, nel dopoguerra, Sansone partecipa alla breve impresa del quotidiano «La Voce della Puglia»; animatore della casa editrice milanese Giordano, ritrova il memoriale del sottufficiale ruvese e lo ripubblica nel 1964 col nuovo titolo Angerà: il pane tradizionale etiope di cui Tedone si nutrì nei lunghi mesi di prigionia. Questa bella edizione, arricchita da una sostanziosa nota dello stesso Sansone, ebbe migliore sorte ma non “sfondò” più di tanto; il Sistema bibliotecario ne registra una quarantina di presenze di cui quattro in Puglia (due a Bari). A quel punto, il Paese preferiva scordare un passato coloniale punteggiato da insuccessi e da atrocità imbarazzanti. Ancora oggi si tende a pensare che quella storia sia una nicchia per specialisti. Ma proprio il massimo studioso del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, ha dato la giusta importanza di documento storico al libro dimenticato di Tedone.
L’autore di Angerà non sfugge al pregiudizio di una superiorità “bianca”; resta insensibile alla cultura e alla civiltà millenarie del Corno d’Africa, facendo proprio lo stereotipo della barbarie e della arretratezza incolmabile. Tanto maggiore è la sua credibilità quando afferma verità scomode: l’incompetenza dei comandi militari e il calcolo politico sbagliato del governo Crispi, responsabili dell’attacco e della disfatta; il trattamento non certo disumano riservato dagli etiopi ai duemila prigionieri, i quali – scampati  alla furia vendicativa delle prime 24 ore dopo la battaglia – vivono poi una condizione dura, sì, ma non più dei loro vincitori. Il cibo è lo stesso per tutti – l’angerà con un intingolo di capra piccantissimo che sconvolge il palato –, le condizioni igieniche sono quelle comuni, la marcia di trasferimento da Adua a Addis Abeba è a piedi per tutti: un esercito popolare in cammino, quasi un esodo biblico, con animali, famiglie, servitori e prigionieri al seguito. Poi il grosso dei soldati italiani viene disperso nel vasto territorio: Tedone va nella provincia di Harar, a prevalenza islamica e annessa di recente all’impero del negus. Vive ospite di una giovane vedova benestante, che non disdegnerebbe di sposarlo (ma lui non ci sta). Una descrizione inedita è quella di Harar con le sue cinque porte, il minareto, il mercato, il palazzo di ras Makonnen (padre del futuro negus Haile Selassie): è la città dove fino a pochi anni prima (ma Tedone non lo sa) il poeta Arthur Rimbaud ha vissuto trafficando in armi e in altre merci. Con gli accordi Italia-Etiopia arriva infine la liberazione. Il rimpatrio è rattristato però dall’atmosfera di sospetto, dalle accuse di viltà (che si riproporranno su larga scala contro i prigionieri italiani nel 1918). La nave che trasporta Tedone e i commilitoni attende all’ancora, al largo di Napoli, per sbarcare il suo carico umano a mezzanotte, di nascosto. Con pretesti burocratici i reduci vengono depredati degli oggetti che hanno portato per ricordo; a Tedone è tolta una bella mantellina di Harar. In seguito – riconoscimento amaro e un po’ beffardo – gli verrà data una medaglia di bronzo.

Pasquale Martino      
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 21 luglio 2017