Giovanni Tedone in Etiopia (1896-97)
Una storia e un libro dimenticati
1937,
ottanta anni fa: il regime fascista celebra con una spietata repressione in
Africa Orientale i fasti dell’Impero proclamato un anno prima; in Italia muore
un semisconosciuto sessantacinquenne, Giovanni Tedone. È nato a Ruvo di Puglia
nel 1872 e avrebbe aspirato alla sua parte di fama se non fosse stato messo in
ombra dal fratello maggiore, il ben più noto Orazio, illustre uomo di scienza cui
è intitolato il liceo di Ruvo. Giovanni invece intraprende la carriera
militare; ma ciò fa di lui, inaspettatamente, il protagonista di due storie non
comuni.
La
storia-madre è davvero straordinaria: in qualità di sergente dei bersaglieri,
Tedone partecipa alla battaglia di Adua il 1° marzo 1896 contro l’armata del
negus Menelik II, sopravvive alla carneficina (oltre seimila soldati uccisi in
un solo giorno, il più grave disastro dell’esercito italiano prima di
Caporetto) e resta prigioniero in Etiopia per un anno. La storia-figlia è la
vicenda del libro che narra la drammatica esperienza. Le memorie del sergente
ruvese (nel frattempo diventato maresciallo) attendono quasi vent’anni prima di
andare in stampa, nel 1915, per le edizioni del «Sottufficiale Italiano», col
titolo I ricordi di un prigioniero di
Menelik. L’Italia sta entrando nella Grande Guerra, Tedone è addetto allo stato
maggiore di Cadorna e ciò facilita forse la pubblicazione del libro, recensito
bene dallo scrittore Antonio Baldini. Tuttavia la memoria di una sconfitta risulta
poco interessante: l’Italia si è rifatta prendendosi la Libia e ora marcia
verso Trento e Trieste. Anche la ristampa del 1922 ha scarso successo. Di
queste prime edizioni il Sistema bibliotecario nazionale non censisce oggi più
di una dozzina di copie nelle biblioteche italiane (nessuna in Puglia).
Neppure
la conquista dell’Etiopia nel 1936 fa uscire il volume dal dimenticatoio. Tedone
si spegne ma la storia del libro continua. Esso è riscoperto da un
intellettuale di genio, il napoletano Nino Sansone (1915-1968), originario di
Ostuni, giornalista de «l’Unità» e figura singolare della cultura meridionale e
nazionale. A Bari, nel dopoguerra, Sansone partecipa alla breve impresa del
quotidiano «La Voce della Puglia»; animatore della casa editrice milanese
Giordano, ritrova il memoriale del sottufficiale ruvese e lo ripubblica nel
1964 col nuovo titolo Angerà: il pane
tradizionale etiope di cui Tedone si nutrì nei lunghi mesi di prigionia. Questa
bella edizione, arricchita da una sostanziosa nota dello stesso Sansone, ebbe migliore
sorte ma non “sfondò” più di tanto; il Sistema bibliotecario ne registra una
quarantina di presenze di cui quattro in Puglia (due a Bari). A quel punto, il
Paese preferiva scordare un passato coloniale punteggiato da insuccessi e da
atrocità imbarazzanti. Ancora oggi si tende a pensare che quella storia sia una
nicchia per specialisti. Ma proprio il massimo studioso del colonialismo
italiano, Angelo Del Boca, ha dato la giusta importanza di documento storico al
libro dimenticato di Tedone.
L’autore di Angerà non sfugge al pregiudizio di una
superiorità “bianca”; resta insensibile alla cultura e alla civiltà millenarie
del Corno d’Africa, facendo proprio lo stereotipo della barbarie e della arretratezza
incolmabile. Tanto maggiore è la sua credibilità quando afferma verità scomode:
l’incompetenza dei comandi militari e il calcolo politico sbagliato del governo
Crispi, responsabili dell’attacco e della disfatta; il trattamento non certo
disumano riservato dagli etiopi ai duemila prigionieri, i quali – scampati alla furia vendicativa delle prime 24 ore dopo
la battaglia – vivono poi una condizione dura, sì, ma non più dei loro
vincitori. Il cibo è lo stesso per tutti – l’angerà con un intingolo di capra piccantissimo che sconvolge il
palato –, le condizioni igieniche sono quelle comuni, la marcia di
trasferimento da Adua a Addis Abeba è a piedi per tutti: un esercito popolare in
cammino, quasi un esodo biblico, con animali, famiglie, servitori e prigionieri
al seguito. Poi il grosso dei soldati italiani viene disperso nel vasto territorio:
Tedone va nella provincia di Harar, a prevalenza islamica e annessa di recente
all’impero del negus. Vive ospite di una giovane vedova benestante, che non
disdegnerebbe di sposarlo (ma lui non ci sta). Una descrizione inedita è quella
di Harar con le sue cinque porte, il minareto, il mercato, il palazzo di ras
Makonnen (padre del futuro negus Haile Selassie): è la città dove fino a pochi
anni prima (ma Tedone non lo sa) il poeta Arthur Rimbaud ha vissuto trafficando
in armi e in altre merci. Con gli accordi Italia-Etiopia arriva infine la
liberazione. Il rimpatrio è rattristato però dall’atmosfera di sospetto, dalle
accuse di viltà (che si riproporranno su larga scala contro i prigionieri
italiani nel 1918). La nave che trasporta Tedone e i commilitoni attende
all’ancora, al largo di Napoli, per sbarcare il suo carico umano a mezzanotte,
di nascosto. Con pretesti burocratici i reduci vengono depredati degli oggetti che
hanno portato per ricordo; a Tedone è tolta una bella mantellina di Harar. In
seguito – riconoscimento amaro e un po’ beffardo – gli verrà data una medaglia
di bronzo.
Pasquale Martino
«La Gazzetta del
Mezzogiorno», 21 luglio 2017