giovedì 19 febbraio 2015

Malcolm X

Il Principe dell’orgoglio nero


L'edizione originale della biografia di Marable
Malcolm X ha un posto significativo tra le icone del Novecento. Una figura affascinante per i giovani ribelli nei decenni ‘60-70; e tutto fa pensare che il leader nero ucciso a 39 anni il 21 febbraio 1965, esattamente mezzo secolo fa, continui a incarnare una leggenda e un principio per la parte più consapevole della popolazione afroamericana. Una celebre fotografia lo ritrae sorridente con Martin Luther King, in occasione del loro unico incontro. Lontani nella filosofia e nel metodo; accomunati da un obiettivo: la liberazione della loro gente; uguali nella morte, venuta da mano assassina (a King toccò tre anni dopo, nel 1968).
Guida autorevole del grande movimento per i diritti civili nei primi anni ’60, il reverendo King aveva visto appannarsi il suo prestigio dopo aver ottenuto una chiara vittoria con il Civil Right Act del 1964, al prezzo però di una riduzione della protesta nera contro la guerra nel Vietnam. A quel punto, Malcolm X (al secolo, Malcolm Little, nato il 19 maggio 1925) aveva già catalizzato su di sé le attese di una lotta più radicale, che non riponeva nessuna fiducia nelle trattative col potere bianco, poco intenzionato ad attuare concretamente la legge anti-segregazione, e faceva appello all’orgoglio nero, alla volontà di autodeterminazione, alla presa di coscienza di una identità storica, nazionale e culturale. Idee per il nascente movimento del Black Power che si sarebbe ispirato in gran parte a questi insegnamenti influenzando una generazione di militanti, intellettuali, artisti afroamericani.  
L’Autobiografia di Malcolm X fu un bestseller per un ventennio. A scriverla materialmente era stato il giornalista Alex Haley, che una dozzina d’anni dopo fece il bis del successo con il romanzo Radici e con l’omonimo sceneggiato televisivo del 1977: l’epopea nera, la storia raccontata dal punto di vista degli ex schiavi, sia pure con la retorica del teleromanzo, entrava nelle case di tutti gli americani e anche degli italiani. Nel 1992 ancora un’altra generazione conobbe Malcolm X, grazie al film (basato sull’Autobiografia) che Il regista Spike Lee collocò al centro di un’ideale storia degli afroamericani narrata attraverso il cinema. Trascorsero altri anni, e lo studioso Manning Marable intraprese la lunga ricerca che avrebbe fruttato nel 2011 la pubblicazione della nuova e monumentale biografia, Malcolm X, tutte le verità oltre la leggenda (titolo italiano, editore Donzelli). Marable – che morì appena prima di vedere la sua fatica data alle stampe – ricostruiva la vita del leader nero sfrondandola degli elementi mitizzanti accentuati da Haley (e voluti in qualche misura dallo stesso protagonista), ma restituendone appieno l’arduo percorso di maturazione umana e politica.
Piccolo criminale cresciuto nel ghetto nero, carcerato, il giovane Malcolm fa i conti con se stesso; studia in prigione, scopre la necessità del riscatto del suo popolo, aderisce alla Nation of Islam: una setta sincretista nata negli Usa circa trent’anni prima – i cui aderenti sono detti Black Muslims – che rilegge la storia del popolo nero come iniziatore della civiltà e della stessa religione islamica, costretto dall’uomo bianco a una misera decadenza. Scontata la pena, Malcolm assume il cognome simbolico di X (in sostituzione dell’ignoto nome originario, cancellato dagli schiavisti) e diventa il più apprezzato e popolare predicatore dei Musulmani neri. Ma ad avere crescente risalto è il senso politico più che religioso dei suoi discorsi: la rivendicazione dell’autonomia afroamericana, che si spinge fino a preconizzare il separatismo nero. Come tutti i leader neri e più degli altri, Malcolm X è oggetto delle invadenti attenzioni dell’FBI. La sua evoluzione politica e la popolarità personale lo rendono inviso anche ai dirigenti dei Black Muslims, con i quali rompe: convertitosi all’Islam sunnita ortodosso, predica ora una visione universalistica, che ammette la collaborazione dei neri con i bianchi nella lotta antirazzista degli oppressi. Viaggia in Africa, va in Egitto e alla Mecca. Attento all’esperienza della diaspora africana, fonda l’Organizzazione per l’Unità afroamericana (OAAU); dialoga con il panarabismo in funzione antimperialista e guarda con simpatia alle rivoluzioni di popolo come quella cubana. Riceve anche un messaggio di solidarietà da Che Guevara; ed è così che Malcolm entra nel pantheon della sinistra rivoluzionaria e internazionalista, nera e bianca.
Marable si sofferma giustamente sulle circostanze della morte, i cui veri responsabili a suo avviso non sono mai stati individuati. Malcolm X fu ucciso a colpi d’arma da fuoco in una sala pubblica a New York, mentre si accingeva a parlare. Furono arrestati tre militanti dei Black Muslims, che per iniziativa personale avrebbero interpretato alla lettera le minacce virtuali scagliate dai vertici della setta. Lo studioso afroamericano ipotizza una verità più complessa, in cui il disegno omicida si situa in una opaca intersezione fra alcuni capi della Nation of Islam da un lato, e l’FBI dall’altro, organizzazione in grado di sapere e di manovrare. In quel momento il servizio di polizia alla manifestazione dell’OAAU era pressoché inesistente.
L’orazione funebre dell’attore Ossie Davis, futuro interprete di Fa’ la cosa giusta, conteneva il seguente passaggio: «Malcolm era il nostro essere uomini, la nostra vita, il nostro essere neri. Un principe: il nostro luminoso principe nero che non ha esitato a morire perché ci amava tanto».

Pasquale Martino     


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 19 febbraio 2015