A
quaranta anni dal libro di Sciascia
Periodicamente,
si assiste alla “ricomparsa” di Ettore Majorana. Segnalazioni di avvistamenti
sono pervenute nel corso del tempo alla famiglia dello scienziato di cui
si persero le tracce il 27 marzo del 1938. Cinque anni fa qualcuno volle
riconoscerlo in una fotografia che ritraeva un gruppo di passeggeri su un transatlantico
in rotta per l’America, subito dopo la guerra (nella foto c’era anche il
criminale nazista Eichmann; pura coincidenza o sodalizio fra i due? donde lo
snodarsi di congetture romanzesche). Ora la procura di Roma certifica che lo
scienziato di Catania era vivo in Venezuela negli anni ’50, accogliendo la
testimonianza di un connazionale che tempo addietro esibì una fotografia (sulla
quale i nipoti del fisico scomparso hanno espresso tutto il loro scetticismo)
e, inoltre, una cartolina che sarebbe appartenuta al presunto Majorana e che
risulta spedita nel 1920 da uno zio di Ettore, Quirino Majorana, anche lui
professore di fisica, a un corrispondente americano. Questo documento, che la
procura considera probante (ma lo ha visto materialmente? ha effettuato una
perizia?) per quel che è dato sapere lascia in verità molto perplessi. Come mai
una missiva arrivata in Usa nel 1920 sarebbe poi finita nelle mani di Majorana
fuggiasco vent’anni dopo in America del Sud? E se la storia fosse invece
un’altra? Qualcuno, venuto in possesso di quel documento per qualche motivo,
avrebbe potuto decidere di ricamare sulla parentela fra il mittente e il grande
fisico sparito nel nulla. Ovviamente, questa è solo un’ipotesi astratta, non
più inverosimile di quella accreditata (in mancanza di riscontri).
Fra
Quirino ed Ettore, peraltro, non doveva esistere una profonda sintonia
scientifica, visto che lo zio impegnò gran parte delle sue energie
intellettuali nella vana presunzione di confutare la teoria della relatività di
Einstein. Lo ricorda Leonardo Sciascia ne La
scomparsa di Majorana: un classico che in questi giorni mette conto
rileggere. Il libro, non si sa perché, viene spesso catalogato fra i romanzi. È
invece un saggio storico-biografico e, insieme, una meditazione morale e
filosofica. Non c’è in esso nulla di inventato o romanzato; vi è l’apertura di
scenari in cui l’immaginazione prende le mosse da fatti concreti, documenti,
indizi. A nostro avviso, La scomparsa di
Majorana è uno dei più manzoniani fra gli scritti di Sciascia: come nella Storia della colonna infame o nei
capitoli storiografici dei Promessi sposi,
lo scrittore siciliano, sperimentatore del “giallo” politico-storico, svolge un
ragionamento la cui densa qualità letteraria non fa il minimo torto alla verità
effettuale. I fatti restano fatti, le ipotesi si manifestano come tali in tutta
la loro suggestione.
Il
fisico Erasmo Recami – che ha pubblicato nel 1987 un volume di lettere,
testimonianze e documenti sul caso Majorana – racconta la scrupolosità con cui
Sciascia all’inizio degli anni ’70 interloquì con i familiari dello scienziato
catanese ed esaminò i documenti da loro messi a disposizione, mentre preparava
il suo libro. Questo uscì nel 1975 per Einaudi (dopo Todo modo, 1974, e prima de I
pugnalatori, 1976: due fra i testi più famosi dello scrittore di Racalmuto),
e sollevò subito una contestazione da parte di Edoardo Amaldi, uno dei «ragazzi
di via Panisperna», lo straordinario gruppo di giovani scienziati che negli
anni ’30 operò a Roma intorno a Enrico Fermi. Amaldi, grande nome della fisica
italiana, ha lasciato importanti testimonianze sui rapporti del gruppo con
Majorana, che ne era un componente geniale e inquieto. Il disaccordo di Amaldi
riguardava in particolare la ricostruzione di un episodio che nel libro assume
un significato cruciale: il concorso del 1937 per la cattedra universitaria di
fisica teorica, cui Majorana decise di partecipare all’ultimo momento. C’erano
già tre vincitori in pectore per tre cattedre (niente di nuovo sotto il cielo)
e il sopraggiungere di Majorana, che per unanime riconoscimento li sovrastava
tutti, avrebbe tagliato fuori uno di essi, presumibilmente Giovanni Gentile
jr., il figlio dell’omonimo filosofo e accademico di spicco del regime
fascista. Si ricorse all’espediente di far nominare il trentenne catanese su
una quarta cattedra, a Napoli, direttamente dal ministero, senza concorso e
«per chiara fama»; in tal modo venne salvaguardata la posizione precostituita dei
tre concorrenti. Sciascia interpreta l’episodio come un sintomo del crescente
distacco fra la personalità indipendente di Majorana e la cerchia dell’Istituto
di Fisica diretto da Fermi, cui faceva capo anche Giovannino Gentile. D’altra
parte, è un dato di fatto che in varie fasi questi ebbe rapporti di
collaborazione e di familiarità con Majorana.
Ma
la vicenda della cattedra fu solo un momento sebbene emblematico nella
maturazione di un disincanto e di un disagio che secondo Sciascia andavano
sempre più tormentando il giovane scienziato. Com’è noto, la tesi dello
scrittore siciliano è che Majorana abbia messo in scena un apparente suicidio
ma abbia voluto in realtà scomparire, come il Mattia Pascal del conterraneo
Pirandello, o ancor più come il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila nascosto in un convento; e che abbia fatto
ciò perché spaventato dalle conseguenze distruttive che la ricerca scientifica
sull’atomo lasciava prefigurare. Effetti che nella sua genialità egli intuiva
lucidamente. Ed è soprattutto questo il punto su cui la maggior parte degli
scienziati ha dissentito da Sciascia; il quale, quasi presagendo la critica, si
sofferma da parte sua a controbatterla preventivamente.
Il
tema a nostro avviso resta aperto. C’erano nel 1937-38 le condizioni
sufficienti per cui uno studioso di fisica teorica, di enorme talento, potesse
prevedere la bomba atomica? Per quanto molti rifiutino di ammettere questa
possibilità, non ci sentiamo di negarla. Che Majorana fosse «un genio», lo ha
affermato esplicitamente lo stesso Fermi, paragonandolo a Galilei e a Newton. Egli
era formalmente allievo di Fermi ma il suo rapporto col maestro – come
testimoniato da più fonti – era assolutamente paritario, quale nessun altro a
via Panisperna poteva vantare. Addirittura Majorana aveva abbozzato quasi per
diletto estemporaneo la teoria del nucleo costituito di protoni e neutroni
prima che questa venisse formulata dal suo autore, Werner Heisemberg. Quello
dei rapporti fra Majorana ed Heisemberg, scopritore del principio di
indeterminazione e premio Nobel nel 1932 per i suoi studi di meccanica
quantistica, è un altro capitolo di rilievo nel libro di Sciascia. I lunghi
colloqui fra i due, avvenuti in Germania nel 1933 (proprio mentre il nazismo
andava al potere), proverebbero una relazione intellettuale più profonda di
quella fra Majorana e Fermi. Qui si innesta il paradosso morale che riassume La scomparsa di Majorana: il confronto
fra gli scienziati «schiavi» – cioè i tedeschi come Heisemberg, sottoposti al
potere tirannico di Hitler – e gli scienziati «liberi», quelli che operarono nella
democrazia statunitense, compresi Fermi e gli altri emigrati italiani. I primi
non contribuirono a inventare la bomba atomica, i secondi sì. Altra tesi quasi
provocatoria, oggetto di polemiche. Ma ancora Erasmo Recami ha fatto rilevare
come gli stessi Alleati, che nel 1945 tennero prigionieri per alcuni mesi
Heisemberg e altri nove scienziati tedeschi, indagando su di loro, ebbero a constatare
che essi non erano stati in procinto di realizzare l’arma nucleare, e forse non
ne avevano avuta neppure l’intenzione. Nel frattempo, e proprio nell’agosto di
quell’anno, la morte atomica si era scatenata su Hiroshima e Nagasaki.
È
il caso di ricordare che dopo Sciascia la bibliografia sulla scomparsa di
Majorana è grandemente cresciuta, dando spazio a disparate supposizioni. Tuttavia sarebbe bene – come qualcuno ha osservato – che Majorana (al quale sono intitolate numerose scuole italiane) venga studiato
soprattutto per i suoi lavori scientifici, dedicati all’atomo, all’elettrone e
al positrone, al valore delle leggi statistiche in fisica e perfino nelle scienze sociali.
Vorremmo
presentare, concludendo, un punto di vista aggiuntivo che si ricava dalla semplice
cronologia. Majorana scompare nel marzo del 1938. A maggio Hitler è accolto trionfalmente a Roma, in visita ufficiale: l'alleanza nazifascista è una realtà. A luglio viene pubblicato in
Italia il Manifesto della razza, fra settembre e novembre vengono emanate le
leggi razziste. Dei ragazzi di via Panisperna, uno, Bruno Pontecorvo, ebreo, si
trova in Francia; non tornerà in Italia; nel 1940, quando i tedeschi occuperanno
Parigi, fuggirà in America. Emilio Segrè, ebreo, è a Berkeley e non rientrerà
in Italia.
A
novembre viene annunciata l’assegnazione del premio Nobel a Enrico Fermi. In un
clima di freddezza della stampa di regime, le autorità fasciste non partecipano
alla festa in onore dello scienziato, sposato con un’ebrea. Fermi va a
Stoccolma a ritirare il premio, non indossa la camicia nera, non fa il saluto
romano e stringe semplicemente la mano al re di Svezia. In Italia lo scandalo è
grande. Lo scienziato non torna in patria e va direttamente in America. 1939, l'anno della guerra:
un altro “ragazzo” di Fermi, Franco Rasetti, abbandona l’Italia per il Canada e
– quasi sulle orme del Majorana di Leonardo Sciascia – rinuncia alla fisica per
dedicarsi alla paleontologia e alla botanica.
Un’esperienza
di ricerca di avanguardia, probabilmente la più importante che l’Italia abbia
mai conosciuto, aveva cessato di esistere.
Pasquale Martino