lunedì 9 febbraio 2015

Ricomparse di Majorana

A quaranta anni dal libro di Sciascia


Periodicamente, si assiste alla “ricomparsa” di Ettore Majorana. Segnalazioni di avvistamenti sono pervenute nel corso del tempo alla famiglia dello scienziato di cui si persero le tracce il 27 marzo del 1938. Cinque anni fa qualcuno volle riconoscerlo in una fotografia che ritraeva un gruppo di passeggeri su un transatlantico in rotta per l’America, subito dopo la guerra (nella foto c’era anche il criminale nazista Eichmann; pura coincidenza o sodalizio fra i due? donde lo snodarsi di congetture romanzesche). Ora la procura di Roma certifica che lo scienziato di Catania era vivo in Venezuela negli anni ’50, accogliendo la testimonianza di un connazionale che tempo addietro esibì una fotografia (sulla quale i nipoti del fisico scomparso hanno espresso tutto il loro scetticismo) e, inoltre, una cartolina che sarebbe appartenuta al presunto Majorana e che risulta spedita nel 1920 da uno zio di Ettore, Quirino Majorana, anche lui professore di fisica, a un corrispondente americano. Questo documento, che la procura considera probante (ma lo ha visto materialmente? ha effettuato una perizia?) per quel che è dato sapere lascia in verità molto perplessi. Come mai una missiva arrivata in Usa nel 1920 sarebbe poi finita nelle mani di Majorana fuggiasco vent’anni dopo in America del Sud? E se la storia fosse invece un’altra? Qualcuno, venuto in possesso di quel documento per qualche motivo, avrebbe potuto decidere di ricamare sulla parentela fra il mittente e il grande fisico sparito nel nulla. Ovviamente, questa è solo un’ipotesi astratta, non più inverosimile di quella accreditata (in mancanza di riscontri).

Fra Quirino ed Ettore, peraltro, non doveva esistere una profonda sintonia scientifica, visto che lo zio impegnò gran parte delle sue energie intellettuali nella vana presunzione di confutare la teoria della relatività di Einstein. Lo ricorda Leonardo Sciascia ne La scomparsa di Majorana: un classico che in questi giorni mette conto rileggere. Il libro, non si sa perché, viene spesso catalogato fra i romanzi. È invece un saggio storico-biografico e, insieme, una meditazione morale e filosofica. Non c’è in esso nulla di inventato o romanzato; vi è l’apertura di scenari in cui l’immaginazione prende le mosse da fatti concreti, documenti, indizi. A nostro avviso, La scomparsa di Majorana è uno dei più manzoniani fra gli scritti di Sciascia: come nella Storia della colonna infame o nei capitoli storiografici dei Promessi sposi, lo scrittore siciliano, sperimentatore del “giallo” politico-storico, svolge un ragionamento la cui densa qualità letteraria non fa il minimo torto alla verità effettuale. I fatti restano fatti, le ipotesi si manifestano come tali in tutta la loro suggestione.
Il fisico Erasmo Recami – che ha pubblicato nel 1987 un volume di lettere, testimonianze e documenti sul caso Majorana – racconta la scrupolosità con cui Sciascia all’inizio degli anni ’70 interloquì con i familiari dello scienziato catanese ed esaminò i documenti da loro messi a disposizione, mentre preparava il suo libro. Questo uscì nel 1975 per Einaudi (dopo Todo modo, 1974, e prima de I pugnalatori, 1976: due fra i testi più famosi dello scrittore di Racalmuto), e sollevò subito una contestazione da parte di Edoardo Amaldi, uno dei «ragazzi di via Panisperna», lo straordinario gruppo di giovani scienziati che negli anni ’30 operò a Roma intorno a Enrico Fermi. Amaldi, grande nome della fisica italiana, ha lasciato importanti testimonianze sui rapporti del gruppo con Majorana, che ne era un componente geniale e inquieto. Il disaccordo di Amaldi riguardava in particolare la ricostruzione di un episodio che nel libro assume un significato cruciale: il concorso del 1937 per la cattedra universitaria di fisica teorica, cui Majorana decise di partecipare all’ultimo momento. C’erano già tre vincitori in pectore per tre cattedre (niente di nuovo sotto il cielo) e il sopraggiungere di Majorana, che per unanime riconoscimento li sovrastava tutti, avrebbe tagliato fuori uno di essi, presumibilmente Giovanni Gentile jr., il figlio dell’omonimo filosofo e accademico di spicco del regime fascista. Si ricorse all’espediente di far nominare il trentenne catanese su una quarta cattedra, a Napoli, direttamente dal ministero, senza concorso e «per chiara fama»; in tal modo venne salvaguardata la posizione precostituita dei tre concorrenti. Sciascia interpreta l’episodio come un sintomo del crescente distacco fra la personalità indipendente di Majorana e la cerchia dell’Istituto di Fisica diretto da Fermi, cui faceva capo anche Giovannino Gentile. D’altra parte, è un dato di fatto che in varie fasi questi ebbe rapporti di collaborazione e di familiarità con Majorana.
Ma la vicenda della cattedra fu solo un momento sebbene emblematico nella maturazione di un disincanto e di un disagio che secondo Sciascia andavano sempre più tormentando il giovane scienziato. Com’è noto, la tesi dello scrittore siciliano è che Majorana abbia messo in scena un apparente suicidio ma abbia voluto in realtà scomparire, come il Mattia Pascal del conterraneo Pirandello, o ancor più come il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila nascosto in un convento; e che abbia fatto ciò perché spaventato dalle conseguenze distruttive che la ricerca scientifica sull’atomo lasciava prefigurare. Effetti che nella sua genialità egli intuiva lucidamente. Ed è soprattutto questo il punto su cui la maggior parte degli scienziati ha dissentito da Sciascia; il quale, quasi presagendo la critica, si sofferma da parte sua a controbatterla preventivamente.
Il tema a nostro avviso resta aperto. C’erano nel 1937-38 le condizioni sufficienti per cui uno studioso di fisica teorica, di enorme talento, potesse prevedere la bomba atomica? Per quanto molti rifiutino di ammettere questa possibilità, non ci sentiamo di negarla. Che Majorana fosse «un genio», lo ha affermato esplicitamente lo stesso Fermi, paragonandolo a Galilei e a Newton. Egli era formalmente allievo di Fermi ma il suo rapporto col maestro – come testimoniato da più fonti – era assolutamente paritario, quale nessun altro a via Panisperna poteva vantare. Addirittura Majorana aveva abbozzato quasi per diletto estemporaneo la teoria del nucleo costituito di protoni e neutroni prima che questa venisse formulata dal suo autore, Werner Heisemberg. Quello dei rapporti fra Majorana ed Heisemberg, scopritore del principio di indeterminazione e premio Nobel nel 1932 per i suoi studi di meccanica quantistica, è un altro capitolo di rilievo nel libro di Sciascia. I lunghi colloqui fra i due, avvenuti in Germania nel 1933 (proprio mentre il nazismo andava al potere), proverebbero una relazione intellettuale più profonda di quella fra Majorana e Fermi. Qui si innesta il paradosso morale che riassume La scomparsa di Majorana: il confronto fra gli scienziati «schiavi» – cioè i tedeschi come Heisemberg, sottoposti al potere tirannico di Hitler – e gli scienziati «liberi», quelli che operarono nella democrazia statunitense, compresi Fermi e gli altri emigrati italiani. I primi non contribuirono a inventare la bomba atomica, i secondi sì. Altra tesi quasi provocatoria, oggetto di polemiche. Ma ancora Erasmo Recami ha fatto rilevare come gli stessi Alleati, che nel 1945 tennero prigionieri per alcuni mesi Heisemberg e altri nove scienziati tedeschi, indagando su di loro, ebbero a constatare che essi non erano stati in procinto di realizzare l’arma nucleare, e forse non ne avevano avuta neppure l’intenzione. Nel frattempo, e proprio nell’agosto di quell’anno, la morte atomica si era scatenata su Hiroshima e Nagasaki.

È il caso di ricordare che dopo Sciascia la bibliografia sulla scomparsa di Majorana è grandemente cresciuta, dando spazio a disparate supposizioni. Tuttavia sarebbe bene – come qualcuno ha osservato – che Majorana (al quale sono intitolate numerose scuole italiane) venga studiato soprattutto per i suoi lavori scientifici, dedicati all’atomo, all’elettrone e al positrone, al valore delle leggi statistiche in fisica e perfino nelle scienze sociali.
Vorremmo presentare, concludendo, un punto di vista aggiuntivo che si ricava dalla semplice cronologia. Majorana scompare nel marzo del 1938. A maggio Hitler è accolto trionfalmente a Roma, in visita ufficiale: l'alleanza nazifascista è una realtà. A luglio viene pubblicato in Italia il Manifesto della razza, fra settembre e novembre vengono emanate le leggi razziste. Dei ragazzi di via Panisperna, uno, Bruno Pontecorvo, ebreo, si trova in Francia; non tornerà in Italia; nel 1940, quando i tedeschi occuperanno Parigi, fuggirà in America. Emilio Segrè, ebreo, è a Berkeley e non rientrerà in Italia.
A novembre viene annunciata l’assegnazione del premio Nobel a Enrico Fermi. In un clima di freddezza della stampa di regime, le autorità fasciste non partecipano alla festa in onore dello scienziato, sposato con un’ebrea. Fermi va a Stoccolma a ritirare il premio, non indossa la camicia nera, non fa il saluto romano e stringe semplicemente la mano al re di Svezia. In Italia lo scandalo è grande. Lo scienziato non torna in patria e va direttamente in America. 1939, l'anno della guerra: un altro “ragazzo” di Fermi, Franco Rasetti, abbandona l’Italia per il Canada e – quasi sulle orme del Majorana di Leonardo Sciascia – rinuncia alla fisica per dedicarsi alla paleontologia e alla botanica.
Un’esperienza di ricerca di avanguardia, probabilmente la più importante che l’Italia abbia mai conosciuto, aveva cessato di esistere.

Pasquale Martino