Lo sterminio dimenticato
In
un’epoca di memoria istituzionale, punteggiata da giornate che commemorano stragi,
una grande dimenticanza copre l’immane carneficina indonesiana del 1965. Joko
Widodo, il nuovo presidente di quel popoloso paese (il più vasto a maggioranza
musulmana, con una costituzione laica) ha deluso finora le aspettative, non cogliendo
l’occasione del cinquantenario per rompere il silenzio pubblico su una storia tragica,
tuttora tabù. Un oblio di cui neppure i paesi occidentali sono incolpevoli, in
primis gli Usa che sostennero il colpo di Stato del generale Suharto realizzando
una vittoria strategica nella guerra fredda.
In Occidente la vicenda fu
rievocata dal lungometraggio di Peter Weir Un
anno vissuto pericolosamente (1982) che valse l’Oscar all’attrice Linda
Hunt. Ma la trama del film si ferma alla vigilia dello sterminio. Le stime sul
numero dei morti oscillano fra il mezzo milione e, più verosimilmente, il
milione e oltre. Erano militanti del partito comunista indonesiano (Pki), simpatizzanti,
sindacalisti, immigrati cinesi vittime di odî etnici. Fino a quel momento l’Indonesia
era governata dal presidente Sukarno, leader dell’indipendenza strappata
all’Olanda nel 1945 e cofondatore con Nehru e Tito del movimento dei paesi non
allineati, le cui basi furono gettate proprio nell’arcipelago indonesiano, a
Giava, con la conferenza di Bandung (1955). Sukarno era inviso agli americani, che
avevano già tentato di sbarazzarsene, per il suo neutralismo e per il
compromesso interno che aveva raggiunto con i comunisti dopo averli
contrastati. Il Pki era il più grande partito comunista fuori dai paesi
socialisti, con tre milioni di iscritti e il 16% dei voti nelle elezioni
parlamentari del 1955. Protagonista della lotta per la riforma agraria, aveva
alcuni viceministri nel governo di Sukarno e si candidava a vincere le elezioni
successive. Una prospettiva allarmante per gli Usa, già impegnati in Asia nella
guerra del Vietnam e nella contesa regionale con la Cina, oltre che nel
confronto globale con l’impero sovietico; uno scenario, peraltro, analogo a
quello che si aprirà poco dopo nel Cile di Allende e per altri versi in Italia,
negli anni dell’avanzata del Pci.
Fra l’altro si discutevano in Indonesia
ipotesi di nazionalizzazione degli impianti petroliferi e delle piantagioni di
caucciù. L’alternativa – come nell’Iran indipendentista di Mossadeq, come in
Grecia e in Cile – erano i militari, fra i quali si fece strada il quasi sconosciuto
Suharto. Il pretesto fu un controverso colpo di mano avvenuto a Giacarta il 30
settembre ’65, nel quale furono uccisi sei generali. Sebbene il Pki condannasse
il complotto, la colpa fu data ai comunisti, come nel 1933 per l’incendio del
Reichstag. Suharto esautorò Sukarno e dette il via alla mattanza. Questa fu
protratta per mesi dall’esercito con l’aiuto di bande paramilitari, di gruppi
di gangster e di supporter anticomunisti d’ogni risma. La propaganda dipinse
gli affiliati del Pki come belve sanguinarie e come propagatori dell’ateismo, ottenendo
così la complicità degli integralisti islamici e indù (l’induismo è
maggioritario a Bali, dove il Pki voleva abolire il sistema delle caste) e
perfino di alcune minoranze cristiane. Le donne bollate come comuniste venivano
esecrate quali demoni corruttori. Giustificazioni per lo sterminio. La caccia
al comunista vero o presunto fu meticolosa, capillare, conclusa da detenzioni
violente, torture sistematiche e sadiche esecuzioni in cui il modo più umano era
il colpo di pistola, raro. Al placarsi della furia metodica chi era
sopravvissuto restò in carcere, privo di ogni diritto. È dimostrato
l’intervento della Cia nella preparazione golpista dei militari indonesiani e
nella montatura propagandistica anti-Pki, molto probabile è inoltre che
l’agenzia statunitense abbia fornito gli elenchi degli iscritti al partito.
Arresto di un militante del Pki da parte dell'esercito |
Certo
è che gli Usa puntellarono la trentennale dittatura di Suharto, anche quando
occupò e annesse Timor Est nonostante la condanna dall’Onu e condusse una
campagna di annientamento contro il fronte indipendentista dell’ex colonia
portoghese, quasi facendo il bis del massacro indonesiano. Sul quale, intanto,
era sceso un silenzio tombale. Dopo la caduta di Suharto (1998) e l’inizio di
un processo di democratizzazione, associazioni non governative hanno
incominciato a ricostruire la memoria di quei fatti, ottenendo ambigue e
inconcludenti risposte dalle istituzioni. Il velo è stato strappato a livello
internazionale dal documentario del regista americano Joshua Oppenheimer, The act of killing (2012), coprodotto da
Werner Herzog e nominato nella cinquina degli Oscar. Oppenheimer ha
rintracciato a Sumatra una comitiva di killers
del ’65, criminali che gestivano fra l’altro il bagarinaggio dei cinema e che
ancora oggi, da vecchi, taglieggiano i commercianti cinesi. Li ha messi a
raccontare davanti alla cineprese, ed è venuta fuori la cronaca surreale e
agghiacciante della strage (uno dei testimoni vanta mille omicidi) in nome
della “libertà” e con una presunzione di eroismo che soltanto fugacemente è incrinata
dall’emergere di un oscuro senso di colpa. È l’intuizione di Claude Lanzmann
che in Shoah (1985) intervistò con
apparente distacco i carnefici delle SS, elevata però a sistema, per così dire:
tanto che gli assassini diventano qui narratori e attori, oltre che beniamini
di un’associazione paramilitare dai tratti fascistoidi, la Gioventù di
Pancasila, il cui referente politico è stato fino al 2009 il vicepresidente
dell’Indonesia. Costoro non hanno mai temuto di essere processati. Invece i
cineasti indonesiani che, rischiando, hanno collaborato al film sono citati
come «anonimi» nei crediti finali. È duro fare i conti con un passato tanto
scomodo. È stata finora sempre osteggiata la proposta di riabilitare le vittime
e i loro figli e perfino di dare vita a una commissione per la riconciliazione
nazionale.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 31 ottobre 2015