lunedì 2 giugno 2014

I decreti delegati

Una riforma a metà
Quarant’anni di democrazia nella scuola


Manifestazione sindacale contro i decreti delegati (Archivio Spi-Cgil Treviso)  




















I «decreti delegati» del 31 maggio 1974 furono il tentativo più organico negli anni ’70 di dare risposte a movimenti sociali che avevano scosso profondamente gli assetti del sistema scolastico italiano. L’iter fu travagliato: nel frattempo erano in corso manifestazioni studentesche e scioperi sindacali degli insegnanti; dure battaglie parlamentari misero ripetutamente in minoranza il governo Andreotti di centrodestra (1972-73), finché il redivivo centrosinistra appoggiato dai socialisti (governo Rumor, 1973-74) approvò la legge delega con l’astensione dei comunisti, agli albori del compromesso storico. Il contesto in cui furono pubblicati i decreti era quello di una lotta politica ad altissima tensione, fra referendum sul divorzio, vinto quasi insperatamente dal fronte contrario all’abrogazione (12-13 maggio) e strage fascista di Brescia (28 maggio), il cui prezzo letale fu pagato specialmente dal mondo della scuola (5 degli 8 manifestanti uccisi erano docenti).
I sei decreti presidenziali (uno dei quali decadde subito perché bocciato dalla Corte dei Conti) erano tuttavia ben lontani dal configurare quella riforma complessiva richiesta dai movimenti della scuola. Nella sequenza delle riforme che quel decennio dette all’Italia, sull’onda di una vivace crescita democratica della società (non furono solo «anni di piombo»!), – dallo statuto dei lavoratori fino alla legge Basaglia – quando la parola riforma non era stata ancora svuotata di senso, i decreti scolastici del ‘74 presentavano una sostanza riformatrice più tenue.  I punti focali erano lo stato giuridico del personale, i diritti sindacali e l’istituzione degli organi collegiali destinati a inverare la democrazia nella scuola. Altri temi quali la modifica degli ordinamenti e dei programmi, il prolungamento dell’obbligo, il diritto allo studio, furono affrontati separatamente, con interventi parziali, sebbene a volte di grande significato: si pensi al tempo pieno nella scuola elementare (1971) e alle 150 ore, ossia al diritto allo studio per i lavoratori (contratto dei metalmeccanici, 1973). I decreti delegati costituivano un compromesso che sanciva indubbiamente alcune novità ispirate al dettato costituzionale ma tagliava fuori le rivendicazioni più avanzate. Furono riconosciuti i diritti sindacali, la contrattazione triennale, il diritto di assemblea del personale (sebbene per un monte ore annuo limitato). Anche gli studenti videro regolamentata quell’assemblea di istituto che avevano di fatto conquistato negli anni precedenti. Vennero soppresse le arbitrarie note di qualifica con cui i presidi valutavano annualmente ciascun insegnante. Non passò invece la proposta più radicale avanzata dai sindacati e dai partiti di sinistra: l’elezione del capo d’istituto da parte del collegio dei docenti. Questi tuttavia eleggevano almeno il gruppo dei collaboratori del preside (una procedura democratica che in seguito verrà soppiantata dalla nomina dall’alto). La libertà d’insegnamento venne sancita, ma «nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni»: formulazione più restrittiva di quella della Costituzione (art. 33: «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento») e decisamente ambigua, poiché lasciava aperta la possibilità di censurare contenuti e metodi didattici non tradizionali, ritenuti trasgressivi.
Luigi Pinto, insegnante,
vittima della strage di Brescia
La democrazia scolastica fu concepita come pariteticità di tre componenti: personale docente e non docente, studenti (nelle scuole superiori) e genitori. Non fu accolta l’idea di far sedere nei consigli di istituto i rappresentanti dei sindacati e degli enti locali. La partecipazione dei genitori in quanto tali istituì una diretta cogestione da parte delle famiglie: per la prima volta la scuola doveva rendere conto all’istituzione familiare piuttosto che allo Stato e alla società strutturata in organizzazioni; si voleva così, inoltre, stemperare la conflittualità e sottrarre spazio a forme di associazionismo troppo caratterizzate a sinistra. Ciononostante, le prime elezioni degli organi collegiali nel 1975 registrarono un notevole successo delle liste di sinistra, spesso denominate di «unità democratica» in quanto aperte, almeno nominalmente, al contributo di tutte le forze antifasciste compresi i cattolici. Erano gli anni della grande avanzata elettorale del Pci, accompagnata dal progetto di un sistema di democrazia diffusa (consigli di fabbrica, comitati di quartiere). 
A distanza di quarant’anni che cosa resta di quello scenario? La macchina degli organi collegiali continua a funzionare come per inerzia, ma la sua obsolescenza è da lungo tempo evidente. Organismi inutili come i consigli distrettuali e provinciali sono stati aboliti. Le assemblee studentesche sono uno stanco rituale con sprazzi di vitalità per una minoranza. I consigli di classe e di istituto si dibattono fra mille difficoltà – a partire dallo scarso interesse dei genitori. Del resto alla visione organicistica e comunitaria della famiglia come funzione interna alla scuola è subentrata l’ideologia neoliberista del «contratto formativo» che colloca i genitori nel ruolo di clienti e utenti di un servizio.  Si è tentato di trasformare il consiglio d’istituto in organo di amministrazione con la presenza di finanziatori privati: ma le scuole sono tutt’altro che vere “aziende” nonostante la retorica dell’”autonomia” e del “preside-manager”, e gli sponsor prendono ciò che vogliono dalle scuole senza perdere tempo a gestirle.  

Pasquale Martino   


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 giugno 2014