Una riforma a metà
Quarant’anni di democrazia nella scuola
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Manifestazione sindacale contro i decreti delegati (Archivio Spi-Cgil Treviso) |
I «decreti delegati» del 31 maggio 1974 furono il
tentativo più organico negli anni ’70 di dare risposte a movimenti sociali che
avevano scosso profondamente gli assetti del sistema scolastico italiano. L’iter fu travagliato: nel frattempo erano in corso manifestazioni studentesche e
scioperi sindacali degli insegnanti; dure battaglie parlamentari misero ripetutamente in minoranza il governo
Andreotti di centrodestra (1972-73), finché il redivivo centrosinistra appoggiato
dai socialisti (governo Rumor, 1973-74) approvò la legge delega con
l’astensione dei comunisti, agli albori del compromesso storico. Il contesto in cui furono pubblicati i decreti
era quello di una lotta politica ad altissima tensione, fra referendum sul
divorzio, vinto quasi insperatamente dal fronte contrario all’abrogazione
(12-13 maggio) e strage fascista di Brescia (28 maggio), il cui prezzo letale
fu pagato specialmente dal mondo della scuola (5 degli 8 manifestanti uccisi
erano docenti).
I sei decreti presidenziali (uno dei quali decadde
subito perché bocciato dalla Corte dei Conti) erano tuttavia ben lontani dal
configurare quella riforma complessiva richiesta dai movimenti della scuola. Nella
sequenza delle riforme che quel decennio dette all’Italia, sull’onda di una vivace
crescita democratica della società (non furono solo «anni di piombo»!), – dallo
statuto dei lavoratori fino alla legge Basaglia – quando la parola riforma non
era stata ancora svuotata di senso, i decreti scolastici del ‘74 presentavano una
sostanza riformatrice più tenue. I punti
focali erano lo stato giuridico del personale, i diritti sindacali e
l’istituzione degli organi collegiali destinati a inverare la democrazia nella
scuola. Altri temi quali la modifica degli ordinamenti e dei programmi, il
prolungamento dell’obbligo, il diritto allo studio, furono affrontati separatamente,
con interventi parziali, sebbene a volte di grande significato: si pensi al tempo
pieno nella scuola elementare (1971) e alle 150 ore, ossia al diritto allo
studio per i lavoratori (contratto dei metalmeccanici, 1973). I decreti delegati costituivano un compromesso
che sanciva indubbiamente alcune novità ispirate al dettato costituzionale ma
tagliava fuori le rivendicazioni più avanzate. Furono riconosciuti i diritti
sindacali, la contrattazione triennale, il diritto di assemblea del personale
(sebbene per un monte ore annuo limitato). Anche gli studenti videro
regolamentata quell’assemblea di istituto che avevano di fatto conquistato
negli anni precedenti. Vennero soppresse le arbitrarie note di qualifica con
cui i presidi valutavano annualmente ciascun insegnante. Non passò invece la proposta più radicale
avanzata dai sindacati e dai partiti di sinistra: l’elezione del capo
d’istituto da parte del collegio dei docenti. Questi tuttavia eleggevano almeno
il gruppo dei collaboratori del preside (una procedura democratica che in
seguito verrà soppiantata dalla nomina dall’alto). La libertà d’insegnamento
venne sancita, ma «nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni»:
formulazione più restrittiva di quella della Costituzione (art. 33: «l'arte e la scienza sono libere e
libero ne è l'insegnamento») e decisamente ambigua, poiché lasciava aperta la
possibilità di censurare contenuti e metodi didattici non tradizionali, ritenuti
trasgressivi.
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Luigi Pinto, insegnante, vittima della strage di Brescia |
La democrazia scolastica fu concepita come
pariteticità di tre componenti: personale docente e non docente, studenti
(nelle scuole superiori) e genitori. Non fu accolta l’idea di far sedere nei
consigli di istituto i rappresentanti dei sindacati e degli enti locali. La partecipazione
dei genitori in quanto tali istituì una diretta cogestione da parte delle famiglie:
per la prima volta la scuola doveva rendere conto all’istituzione familiare
piuttosto che allo Stato e alla società strutturata in organizzazioni; si
voleva così, inoltre, stemperare la conflittualità e sottrarre spazio a forme
di associazionismo troppo caratterizzate a sinistra. Ciononostante, le prime
elezioni degli organi collegiali nel 1975 registrarono un notevole successo
delle liste di sinistra, spesso denominate di «unità democratica» in quanto
aperte, almeno nominalmente, al contributo di tutte le forze antifasciste
compresi i cattolici. Erano gli anni della grande avanzata elettorale del Pci,
accompagnata dal progetto di un sistema di democrazia diffusa (consigli di
fabbrica, comitati di quartiere).
A distanza di
quarant’anni che cosa resta di quello scenario? La macchina degli organi
collegiali continua a funzionare come per inerzia, ma la sua obsolescenza è da lungo
tempo evidente. Organismi inutili come i consigli distrettuali e provinciali
sono stati aboliti. Le assemblee studentesche sono uno stanco rituale con
sprazzi di vitalità per una minoranza. I consigli di classe e di istituto si
dibattono fra mille difficoltà – a partire dallo scarso interesse dei genitori.
Del resto alla visione organicistica e comunitaria della famiglia come funzione
interna alla scuola è subentrata l’ideologia neoliberista del «contratto
formativo» che colloca i genitori nel ruolo di clienti e utenti di un
servizio. Si è tentato di trasformare il
consiglio d’istituto in organo di amministrazione con la presenza di finanziatori
privati: ma le scuole sono tutt’altro che vere “aziende” nonostante la
retorica dell’”autonomia” e del “preside-manager”, e gli sponsor prendono ciò
che vogliono dalle scuole senza perdere tempo a gestirle.
Pasquale Martino
«La Gazzetta
del Mezzogiorno», 2 giugno 2014