martedì 15 aprile 2014

Giovanni Gentile

Il filosofo al potere, vittima di se stesso


Gentile nel suo studio, 1923, foto Armando Bruni archivio RCS 
Il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile fu ferito a morte da colpi di pistola davanti alla sua abitazione a Firenze. Spirò mentre veniva condotto in ospedale. A compiere l’attentato di cui ricorre il settantesimo anniversario – uno degli episodi più emblematici della Resistenza – era stato un gruppo d’azione patriottica (Gap) composto da partigiani comunisti, che colpirono in Gentile l’ideologo del fascismo e la figura di spicco della Repubblica di Salò. La ferocia nazifascista nell’occupazione e nella guerra civile non dava respiro e non risparmiava gli intellettuali del campo opposto; era nell’ordine delle cose che Gentile, alto esponente del regime, potesse rientrare fra gli obiettivi della lotta armata. Da questo punto di vista la sua uccisione è perfettamente comprensibile, sebbene ci si interroghi ancora oggi sulla opportunità di una scelta che una parte dei resistenti non condivise. 
Nessuno però mise in dubbio la tempra morale degli esecutori; il loro capo, Bruno Fanciullacci, fu insignito della medaglia d’oro alla memoria per il coraggio con cui affrontò due volte l’arresto e la tortura restando ucciso. Ai preparativi dell’azione contro Gentile prese parte anche la studentessa Teresa Mattei, che conosceva personalmente il filosofo; eletta nell’Assemblea costituente, sarà tra le madri della Costituzione italiana. Uomini e donne di alta dirittura, dunque, che non perdonarono a Gentile proprio l’aver rafforzato col suo prestigio l’ultima e sanguinaria battaglia di Mussolini in veste di fantoccio hitleriano. E tuttavia ci si chiede ancora se nella decisione di ucciderlo «siano entrate anche valutazioni politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono il filo della sua vita» (Gennaro Sasso, Dizionario biografico degli italiani, 2000). 
Bruno Fanciullacci nel 1943
L’esecuzione del sessantanovenne filosofo di Castelvetrano potrebbe essere stata infatti l’esito finale di una complessa dinamica di forze. A studiare il caso fu il filologo e storico Luciano Canfora (La sentenza, Sellerio, 1985) che mise in luce sia le trame degli angloamericani sia l’ostilità interna al fascismo repubblichino contro Gentile. E in effetti sembra inspiegabile che l’uomo appena nominato presidente dell’Accademia italiana dal duce in persona (e destinatario di recenti lettere minatorie) fosse del tutto privo di scorta. Un altro tema controverso – indagato anch’esso da Canfora – è il rapporto fra Gentile e Concetto Marchesi, che lasciando il rettorato dell’università di Padova aveva chiamato gli studenti alla lotta partigiana. Nel dicembre ’43 Gentile pubblicò sul «Corriere della Sera» un appello alla pacificazione al di là dei partiti, e contro «ogni spirito di vendetta e di fazione»; appello assai sgradito ai molti oltranzisti repubblichini, e d’altronde respinto dagli antifascisti come un tentativo disperato di indebolire il movimento di liberazione. Marchesi rispose dalla Svizzera denunciando le gravissime responsabilità di Gentile e affermando che «la spada non va riposta, va spezzata».  La conclusione dell’articolo fu modificata nell’edizione clandestina che apparve in Italia con le seguenti parole: «la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: morte!». Che la frase sia stata scritta dal professore comunista è incerto; essa venne comunque interpretata come un verdetto di condanna cui seguì l’esecuzione. Tuttora non è facile ricostruire l’esatta catena di comando che portò a quello sbocco (benché dieci anni fa Teresa Mattei abbia ribadito che la decisione fu presa a Firenze). Ma la sostanza non cambia. E anche Sergio Romano, autore di una biografia del «filosofo al potere» (Rizzoli, 1984 e 2004), pur deplorando l’omicidio nega la mera equiparazione degli esecutori a «terroristi».
Resta la valutazione del vasto apporto di Gentile alla cultura italiana del Novecento. Un contributo che fece di lui il protagonista con Benedetto Croce della rivincita idealista contro il positivismo di fine Ottocento, e il maestro di una filosofia dell’«atto puro» che, meglio dell’idealismo crociano, dette centralità al rapporto fra intellettuali e politica. Non a caso il suo «ritorno al De Sanctis» (modello di intellettuale civile) e il suo “attualismo” incentrato sul primato della volontà offrivano suggestioni anche al marxismo antipositivista di giovani rivoluzionari come Gramsci. Dopo la lunga collaborazione con Croce nella direzione della rivista «La Critica», edita da Laterza, il rapporto fra i due pensatori si rompe nel 1925, l’anno dei «manifesti», quello fascista di Gentile e quello antifascista scritto dal filosofo abruzzese. Nella visione gentiliana il fascismo è lo Stato etico hegeliano e la prosecuzione del Risorgimento, tanto che perfino la violenza squadrista gli appare giustificata («discorso del manganello», 1924), così come l’imposizione del giuramento di fedeltà ai docenti universitari. Direttore della Normale di Pisa e del «Giornale critico della filosofia italiana» da lui fondato, senatore, ministro della pubblica istruzione e autore della riforma della scuola, direttore scientifico dell’Enciclopedia italiana, proprietario e dirigente della casa editrice Sansoni: bastano questi riferimenti a testimoniare l’impegno di Gentile come organizzatore della cultura. Ma negli ultimi anni del regime, specie in quelli della guerra mondiale, egli non è più un militante attivo; rimane una personalità onorata ma tutto sommato marginale nella scenografia del fascismo ed estranea all’accelerazione filonazista e razzista (da cui tuttavia non si dissocia pubblicamente). Dopo il 25 luglio è perfino sospettato di volersi avvicinare a Badoglio. Appare davvero fatale la decisione che invece egli prese, sollecitato da Mussolini, di unirsi all’atroce avventura di Salò. Era in qualche modo l’attestazione di una tragica, astratta coerenza. 

Pasquale Martino


«La Gazzetta del Mezzogiorno», 15 aprile 2014