mercoledì 9 aprile 2014

Giorgio Pasquali

Gli ottant’anni di un libro duraturo
E Pasquali ci spiegò la tradizione


Dopo la conoscenza del greco, anche quella del latino sembra condannata a una progressiva riduzione nel curriculum scolastico. Si ignorano gli effetti di lunga durata. Non si sa, per esempio, che posto occuperà nella cultura italiana una disciplina come la filologia, incaricata di assicurare basi di metodo allo studio delle lingue e delle letterature antiche, ma, in verità, anche di quelle moderne. Ce ne hanno ricordato l’importanza le recenti scomparse di Cesare Segre e di Ezio Raimondi, fra i massimi studiosi italiani di filologia romanza e moderna. È arduo fissare un confine non puramente empirico tra filologia classica e romanza, nonché tra lo studio filologico della letteratura e quello di ogni altro sapere fondato su una tradizione scritta: dal diritto alla storia, dalla filosofia alle discipline scientifiche. Concetti che divennero più chiari e in qualche modo definitivi quando, ottant’anni fa, apparve la Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali (1934), un saggio che ha incontrato una duratura fortuna. Direttore del seminario di filologia classica della Normale di Pisa, Pasquali (1885-1952) aveva assimilato le metodiche di scuola germanica, le più avanzate fin dal secolo precedente. Un altro suo libro importante di quegli anni, Preistoria della poesia romana (1936), argomentava l’origine greca del verso saturnio, la forma metrica adoperata agli albori della letteratura latina e da molti studiosi considerata autoctona. Una dimostrazione, quella di Pasquali, che non era precisamente in armonia con gli orientamenti nazionalistici del classicismo fascistizzato di quel tempo; firmatario del manifesto antifascista di Croce nel 1925, Pasquali si era poi adattato al regime riportandone qualche vantaggio, senza però accodarsi alla retorica romano-imperiale. Storia della tradizione era comunque un libro capitale, un seme i cui frutti si sarebbero visti nell’impronta di una generazione di allievi eccellenti, fra i quali Mariotti, Timpanaro, La Penna, gli italianisti Bonora e Caretti e, non da ultimo, il futuro direttore di «Belfagor», Carlo Ferdinando Russo che, trasferitosi a Bari negli anni ‘50, vi trapiantò l’ispirazione pasqualiana facendo degli studi di filologia classica una realtà di punta dell’Ateneo barese.   
La trattazione di Pasquali dissipa ogni equivoco tecnicista per mostrare la sostanza della filologia come lavoro sui testi sorretto da una preparazione multidisciplinare; poiché ha come fine di ricostruire il più possibile le parole originali di un documento – e, per esse, l’intento e il pensiero dell’autore – la filologia studia l’intero percorso di trasmissione del testo da un supporto materiale all’altro, dalle varie forme di manoscritto alla prima edizione a stampa e oltre (la tradizione, appunto). Non si può fare critica del testo senza storia della tradizione, cioè storia della cultura, dell’esegesi testuale, dell’attività di edizione e dei modi di riprodurre un documento. Solo da questa indagine, che richiede finezza critica oltre che erudizione, si possono comprendere certe trasformazioni subite dal testo, gli errori, le omissioni, le aggiunte. Altrimenti si rischia di prendere per buono un testo che non lo è affatto. Perché, come ha spiegato Luciano Canfora, allievo a sua volta di C.F. Russo, il copista è in realtà un autore (Il copista come autore, 2002): il “vero” autore del manoscritto che abbiamo sotto mano, in quanto ha potuto innovare ciò che ha letto (integrando, fraintendendo o interpretando), sostituirlo con un nuovo testo e seppellire quello vecchio in un dimenticatoio da cui il più delle volte non potrà riemergere. Va da sé che lo storicismo filologico pasqualiano – che spingeva lo sguardo ben oltre l’età antica, fino a considerare il fenomeno delle varianti nei testi di Petrarca, Boccaccio, Manzoni – era negli anni ’30 poco conforme non solo ai miti fascisti, ma anche alla visione crociana dell’opera letteraria come pura espressione dello spirito, non condizionata dalla materialità dei processi di composizione e pubblicazione. Il racconto di Pasquali configurava infine una storia di vasto respiro della critica letteraria e della filologia, nella quale prendevano posto i protagonisti decisivi della tradizione, come – per fare solo un esempio – il grande editore e grammatico Valerio Probo, la cui attività nel I secolo d.C. fu determinante per la trasmissione di buona parte della letteratura latina. Questo libro ottantenne ma sempre attuale ci rammenta che il nostro patrimonio culturale non è un’entità oggettiva, ma una conquista della ricerca, e che le sue basi vanno ricostruite a prezzo di indagini faticose e di enorme complessità. La stessa scuola non può restare all’oscuro del lavoro filologico, pena lo svuotamento del senso critico, e d’altra parte la filologia non può vivere se non è alimentata da rinnovate domande e dalla sensibilità di una comunità che legge e studia.   
   
Pasquale Martino    

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 9 aprile 2014