7-14 giugno 1914:
quando l'Italia fu «sull'orlo del socialismo»
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Il centenario della Settimana Rossa a Ravenna. Gli insorti piantano l'albero della libertà |
La «settimana rossa» di cento anni fa – un moto semi-insurrezionale
che scosse l’Italia alla vigilia della Grande Guerra – generò da un lato, nell’universo
popolare, l’epopea leggendaria e durevole della rivolta che per poco non aveva abbattuto
la monarchia e lo Stato borghese, e a cui bisognava continuare a ispirarsi,
dall’altro il mito negativo della minaccia sovversiva incombente, da cui ci si
doveva difendere ad ogni costo.
Tutto ebbe inizio dalle lotte contro la guerra che s’erano sviluppate fin dall’invasione della Libia (1911) spingendo a forme d’unità d’azione le diverse componenti del movimento operario: anarchici, socialisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari. Il 7 giugno 1914 la forza pubblica sparò contro una manifestazione antimilitarista ad Ancona uccidendo tre dimostranti; erano presenti il vecchio dirigente anarchico Enrico Malatesta e il giovanissimo Pietro Nenni, allora repubblicano. La reazione di protesta fu dappertutto impetuosa, irrefrenabile, da Milano a Genova, da Torino a Firenze, da Roma a Napoli a Bari: scioperi, barricate e scontri si susseguirono fino al 14 giugno. Il bilancio fu di una trentina di morti (fra cui alcuni poliziotti), centinaia di feriti e di arrestati. Il movimento si spense senza ottenere risultati pratici perché alla notevole partecipazione e spontaneità della rivolta non corrispose una guida politica e tanto meno un preciso progetto. Forse gli unici ad avere le idee chiare erano gli anarchici: rivoluzione fino alla vittoria, come sempre avevano voluto e sperato. Ma il partito socialista era incerto, in gran parte colto di sorpresa dall’ampiezza della sollevazione, e la CGL, il sindacato socialista, tagliò la testa al toro revocando lo sciopero dopo alcuni giorni. Mussolini, allora direttore dell’ «Avanti!», polemizzò con i dirigenti sindacali, ma egli stesso non aveva saputo proporre sbocchi ai lavoratori in lotta. La vastità e la forza del sussulto rivoluzionario trovarono spazio sulle influenti riviste di cultura: Papini scrisse su «Lacerba», Prezzolini su «La voce», Salvemini su «l’Unità», segnalando la carenza di direzione.
Tutto ebbe inizio dalle lotte contro la guerra che s’erano sviluppate fin dall’invasione della Libia (1911) spingendo a forme d’unità d’azione le diverse componenti del movimento operario: anarchici, socialisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari. Il 7 giugno 1914 la forza pubblica sparò contro una manifestazione antimilitarista ad Ancona uccidendo tre dimostranti; erano presenti il vecchio dirigente anarchico Enrico Malatesta e il giovanissimo Pietro Nenni, allora repubblicano. La reazione di protesta fu dappertutto impetuosa, irrefrenabile, da Milano a Genova, da Torino a Firenze, da Roma a Napoli a Bari: scioperi, barricate e scontri si susseguirono fino al 14 giugno. Il bilancio fu di una trentina di morti (fra cui alcuni poliziotti), centinaia di feriti e di arrestati. Il movimento si spense senza ottenere risultati pratici perché alla notevole partecipazione e spontaneità della rivolta non corrispose una guida politica e tanto meno un preciso progetto. Forse gli unici ad avere le idee chiare erano gli anarchici: rivoluzione fino alla vittoria, come sempre avevano voluto e sperato. Ma il partito socialista era incerto, in gran parte colto di sorpresa dall’ampiezza della sollevazione, e la CGL, il sindacato socialista, tagliò la testa al toro revocando lo sciopero dopo alcuni giorni. Mussolini, allora direttore dell’ «Avanti!», polemizzò con i dirigenti sindacali, ma egli stesso non aveva saputo proporre sbocchi ai lavoratori in lotta. La vastità e la forza del sussulto rivoluzionario trovarono spazio sulle influenti riviste di cultura: Papini scrisse su «Lacerba», Prezzolini su «La voce», Salvemini su «l’Unità», segnalando la carenza di direzione.
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Lapide commemorativa ad Ancona |
D’altro canto, apparve straordinario il successo elettorale del
Psi nel voto amministrativo che si svolse in quegli stessi giorni (da poco era
stato introdotto il suffragio allargato): i socialisti conquistarono Ancona,
Milano, Bologna, Reggio Emilia, Novara, Verona e molti altri comuni (Andria e a
Cerignola in Puglia), dando inizio a un’esperienza amministrativa dai caratteri
sociali avanzati, la cui tradizione si perpetuerà oltre e nonostante il
ventennio fascista. A Bologna fu eletto primo
cittadino Francesco Zanardi che il popolo chiamerà il “sindaco del pane”; a
Milano diventò sindaco Emilio Caldara, che gli avversari soprannominarono Barbarossa
(perché, come l’imperatore Federico I, avrebbe distrutto la città lombarda!). Si
prefigurava in Italia un’alternativa politica, la cui massima responsabilità
era affidata al Psi, quale partito capace di attrarre il consenso delle masse
operaie, di porsi alla testa di grandi scioperi e di amministrare importanti
città: pochi mesi prima, proprio ad Ancona, il XIV congresso socialista aveva
messo a fuoco il governo degli enti locali e i temi connessi, dall’igiene
pubblica alle municipalizzazioni dei servizi.
A meno di quindici giorni dalla settimana rossa, l’attentato
di Sarajevo produsse la scintilla del primo conflitto mondiale. Il Paese che, a
giugno, si trovava «sull’orlo del socialismo» (Fernand Braudel), come del resto
la Germania e altre nazioni europee, cambiò repentinamente orizzonte entrando
nel vortice di quella guerra che, fra le altre conseguenze, avrebbe mandato in
rovina la Seconda Internazionale e i partiti socialisti. Da quel momento il
dibattito pubblico veniva polarizzato dalla scelta fra intervento e neutralità,
e significativi esponenti della sinistra – Mussolini e Salvemini fra gli altri
– si schieravano nel fronte interventista. Ma l’insieme del Psi guidato da
Lazzari, Turati, Serrati, restò ancorato alla propria tradizione antibellicista:
il che lo aiutò a sopravvivere nel naufragio del socialismo europeo arruolatosi
sotto le bandiere contrapposte degli Stati nazionali. In effetti, la
partecipazione alla guerra era il tentativo della borghesia italiana di
risolvere le contraddizioni della società spostando bruscamente la vita della
nazione sul terreno dell’unità belligerante: si voleva così porre rimedio al
fallimento del riformismo giolittiano nonché della guerra libica che non aveva
dato nessuna risposta all’emergenza occupazionale (anzi, nel 1913 l’emigrazione
italiana aveva toccato l’apice). La guerra era una reazione opposta e contraria
all’avanzata del socialismo e della democrazia. Già nell’agosto 1914 il governo
Salandra diramò ai prefetti il divieto di tenere comizi. E in seguito, durante
la tragica vicenda bellica e specialmente dopo il disastro di Caporetto, si agitò
lo spauracchio permanente del pacifismo socialista e si temette più d’ogni cosa
il ritorno di fiamma della Settimana Rossa.
Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 giugno 2014